Annamaria Rivera,La luna e il dito. Della primavera araba e della nostra inadeguatezza.

La luna e il dito. Della primavera araba e della nostra inadeguatezza.
di Annamaria Rivera
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1. Un sommovimento imprevedibile?

Si è ripetuto fino alla nausea che il sommovimento che percorre il mondo arabo non era prevedibile, tanto che neppure le cancellerie e i servizi d’intelligence occidentali lo avevano messo in conto. In realtà, per parlare solo della Tunisia, era sufficiente frequentare e osservare senza pregiudizi quella società per intuire che qualche focherello ardeva sotto lo spesso strato di cenere del regime. Sarebbe bastato parlare con persone comuni per cogliere l’insofferenza, spesso appena dissimulata con l’ironia e la battuta di spirito, verso gli aspetti del benalismo più torvi (la dura repressione dei dissidenti politici e di islamisti spesso presunti) o più grotteschi: dall’obbligo di esporre il ritratto del despota ovunque, perfino nelle più sperdute bottegucce nel deserto, alla neolingua che da un anno all’altro imponeva di cambiare i nomi delle vie secondo il tema propagandistico del momento. Così che, per dirne una, mentre la megalomania modernizzatrice e speculativa del clan di Ben Ali seppelliva sotto il cemento litorali, palmeti, architetture tradizionali, d’un tratto ogni boulevard si chiamava “de l’Environnement”.       
Per illudersi che  popolazioni per lo più giovani, vivaci, istruite, precocemente familiarizzate con internet e cellulari potessero sopportare ancora a lungo tiranni insediati da alcuni decenni (dai ventiquattro anni di Mubarak ai quarantadue di Gheddafi) si deve aver interiorizzato la tesi dell’eccezionalismo arabo fino ad averne fatto legge della natura. Insomma, mi sembra che a far da schermo siano stati principalmente il paradigma rozzo e fallace dello scontro di civiltà e l’islamofobia conseguente, nonché il preconcetto che rappresenta il mondo arabo come immerso nelle tenebre dell’arretratezza o comunque intrappolato fra la minaccia dell’islamismo radicale e il male minore di dittature asservibili o lusingabili. Questo schermo ideologico ha impedito di considerare, fra le altre cose, che molti paesi arabi stanno vivendo una fase di transizione accelerata, segnata da cambiamenti profondi in tutte le sfere: dalla struttura della famiglia e dei rapporti di autorità ai riferimenti culturali e ideologici, per non parlare dell’incremento della comunicazione informatica e della presenza crescente di giovani generazioni istruite e destinate alla disoccupazione o alla precarietà (questi ultimi fattori, in verità, citati in abbondanza ex post).
Per cogliere questi mutamenti basta uno sguardo ai dati demografici: la crescita dei livelli di alfabetizzazione giovanile (di uomini e donne), la diminuzione dei tassi di fecondità, il declino dell’endogamia, solo per fare alcuni esempi, sono tutti segni di un rapido processo di modernizzazione, come ci avevano avvertito non pochi specialisti, fra i quali Youssef Courbage ed Emmanuel Todd in un’opera lungimirante, pubblicata in Francia nel 2007 e in Italia nel 20091.
Certo, la demografia non rivela tutto di un paese e soprattutto delle sue sofferenze e dei suoi umori profondi, né è essa sola che determina la possibilità di ribellioni collettive. Risolutivo, in ultima istanza, è sempre qualche elemento soggettivo: un Mohamed Bouazizi che sceglie d’immolarsi piuttosto che patire umiliazione e disprezzo. Ma forse la demografia avrebbe potuto aprire qualche varco nel muro di ottusità politica dietro il quale si è rintanata la vecchia Europa. Che oggi appare smarrita, determinata solo a respingere i profughi travolti dal sommovimento e i giovani maghrebini per i quali libertà vuol dire anche conquista della mobilità. Ignara, la povera Europa, che la primavera araba ha decretato che già oggi viviamo in un’unica regione euromediterranea.

2. “Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno”: confusione e abbagli in seno alla sinistra italiana

Il vento impetuoso della rivolta inaspettata ha ingarbugliato anche orientamenti e dibattiti in seno alla sinistra italiana largamente intesa, anch’essa in buona parte presa in contropiede o comunque impotente a scuotere l’indifferenza dell’opinione pubblica: a conferma della perdita della facoltà di analisi e di previsione che è pari al provincialismo e alla povertà politica e programmatica. A sinistra non manca peraltro chi condivide il teorema complottista che nega ogni ruolo autonomo alle rivolte contro l’oppressione, soprattutto se scoppiano in un mondo che si credeva intrappolato nella tenaglia di cui ho detto prima. Per fortuna, alcune eccezioni esistono: singole personalità, i Radicali2, alcune aree dei partiti di sinistra-sinistra nonché piccole testate, Ong, qualche sindacato, realtà associative, piccole e grandi, fino all’Arci. A sostenere la primavera araba, anche con iniziative concrete, è soprattutto chi è parte di movimenti internazionali –in primis quello  altermondialista- e che quindi, per conoscenza diretta di paesi e persone, ha una percezione più realistica di quel che si muove e cambia oltre i confini europei.
Disorientamenti e vivaci controversie intorno alla rivoluzione araba si sono manifestati perfino -e più apertamente- in seno all’area del manifesto, il quotidiano che più di ogni altro soggetto rappresenta la continuità di un pensiero di sinistra radicale, colto e impegnato. A far scoppiare la polemica nella “comunità” del giornale (intesa come l’insieme dei fondatori, redattori, collaboratori, abbonati, lettori)  è stato il caso libico, in effetti meno agevole da decifrare. Ma l’atteggiamento tiepido o alquanto pessimistico verso la rivoluzione araba di una parte della componente “storica” del giornale sembrava abbozzato fin dalla Rivoluzione dei gelsomini: “Golpe militare. Ben Ali fugge” era il titolo secco e parziale del primo pezzo (14 gennaio) a commento della fuga del tiranno cleptomane3.
Questo atteggiamento, peraltro discordante da quello di altri giornalisti -da Rossana Rossanda a Michele Giorgio, che ha garantito ottimi réportage- si è poi palesato in rapporto con l’insurrezione della Cirenaica. Le ragioni, si può ipotizzare, sono molteplici. Forse ha pesato la solidarietà espressa a Gheddafi da Chavez, Oriega e soprattutto Fidel Castro, che già il 21 febbraio, sulle colonne del Granma, denunciava “il crimine della Nato”, a suo parere già pronta a invadere la Libia. Ma più di ogni cosa è prevalso il timore, fondato e condivisibile, che l’insurrezione finisca per essere il pretesto per una nuova guerra “umanitaria”. Per Tommaso Di Francesco, ad esempio, la soluzione balcanica è ineluttabile: “Interverranno perché, qualsiasi sia il potere che arriverà dopo Gheddafi, svolga per noi la stessa funzione (…): elargire petrolio per i consumi dell’Occidente e impedire l’arrivo dei disperati relegandoli in un nuovo sistema concentrazionario”4.
Di certo lo scetticismo verso l’insurrezione libica non può attribuirsi  principalmente alla relazione di stima e di amicizia fra il Colonnello e una delle colonne del quotidiano, Valentino Parlato. Il quale, il 18 febbraio, subito dopo la “giornata della collera” repressa nel sangue, rilascia un’intervista al Sole 24 Ore, in cui ribadisce senza sfumature la “stima convinta” per Gheddafi e l’ammirazione per il Libretto verde, “un testo ancora valido”, un “messaggio roussoiano di potere diffuso, di democrazia diretta”5.
All’opposto, Rossana Rossanda -che fin dal 31 gennaio aveva salutato la primavera araba come “un movimento straordinario, coraggioso, laico, nel quale è tornato a soffiare il vento dei sollevamenti di libertà”6- in un editoriale del 24 febbraio denuncia lucidamente le nostre “illusioni progressiste”: quelle che hanno affidato l’intero peso della lotta anticoloniale e/o antimperialista all’autocrate di turno, il quale, in società prive di istituzioni intermedie a garantire la partecipazione popolare, nel corso del tempo rivela la propensione delirante e repressiva. “Nel caso di Gheddafi, scrive, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l’elemento di delirio è evidente”7.
Man mano che si fa più irriducibile la ribellione cirenaica, più feroce la sua repressione e che si profila il rischio di un intervento militare occidentale, la voce equilibrata di Rossanda si perde fra gli articoli di Luciana Castellina, Manlio Dinucci, Maurizio Matteuzzi e altri. Da inviato a Tripoli dichiaratamente embedded  ma per obbligo, Matteuzzi impiega buona parte delle sue corrispondenze per polemizzare contro la campagna di disinformazione, condotta dai media mainstream, e la tendenza conseguente a gonfiare il numero delle vittime del regime. Così, per foga polemica, nell’inciso di una di esse gli sfugge il lapsus calami sui libici che “al contrario di  molti altri arabi, sono straordinariamente gentili, senza essere mai servili” (27 febbraio)8.
In quella fase, e paradossalmente, proprio qualcuno dei “pesi massimi” che dalle colonne del giornale invita a giusta ragione a non dimenticare la storia sembra aver mummificato il Colonnello nel ruolo di Guida della Rivoluzione, per quanto invecchiata e decaduta9. In tal modo non solo finisce per collocarne in secondo piano la figura di repressore d’ogni forma di dissenso, di “dittatore crudele e vanaglorioso”, per dirla con Robert Fisk10 che non è sospettabile di connivenza col nemico Nato; senza volerlo, ne attenua anche il ruolo di gendarme della Fortezza Europa. A quel punto, l’indulgenza imbarazzata che trapela da certi articoli, essa sì sembra immemore della storia più recente:  mette da parte i campi di concentramento nonché i lager-bordello per migranti subsahariane, le violenze e le torture, i rastrellamenti e le deportazioni in container blindati, lo sfruttamento schiavile dei lavoratori terzomondiali, il razzismo istituzionale contro di loro e quello popolare, alimentato ad arte e ampiamente diffuso.
La reticenza di alcuni del giornale rispetto a questa e ad altre gravi questioni in gioco finisce per sollecitare le reazioni di lettori e collaboratori, testimoniate dalle numerose lettere di protesta che arrivano al giornale. Uno dei commenti è affidato a Luciana Castellina. Per comprendere come mai, scrive, “ovunque sia finita così male”, è d’obbligo “analizzare il passato, con tutte le sue contraddizioni”, quel che non farebbero gli indignati lettori del manifesto.  Se sacrosanto è l’appello a riconsiderare la storia, più debole sembra la tesi di fondo, mutuata da Paolo Franchi che l’aveva proposta il 28 febbraio sul Corriere della Sera: la controversia sarebbe il frutto della divaricazione generazionale11. Questa frattura si manifesterebbe sotto la forma dell’inconsapevolezza della storia propria dei giovani, tutti: italiani, tunisini, egiziani, libici…Sarebbe facile replicare che, per quanto possa farci piacere, è arduo collocare fra i giovani Slavoj Žižek12, Robert Fisk e tanti altri sostenitori della primavera araba, compresa me stessa.
Decisivo a riequilibrare il dibattito, il 6 marzo compare l’intervento, netto quanto pacato, di Farid Adly, intellettuale e giornalista libico che vive in Italia, collaboratore del manifesto. Adly rovescia l’argomento centrale della smemoratezza della storia avanzato dai detrattori deboli di Gheddafi, per obiettare che le riflessioni che essi propongono  “non inquadrano la questione libica nel suo contesto storico”, poiché sottovalutano la “tragedia di un popolo che viene ucciso ogni giorno, nelle piazze delle città libiche e nelle piazze d’affari del mondo industrializzato”. E si schiera decisamente in favore degli insorti: “La matrice democratica che li spinge a ribellarsi agli ordini del tiranno è fuori discussione” 13.
Finalmente il 9 marzo è ancora merito di Rossana Rossanda se la controversia si chiude in modo degno della storia del manifesto. Il suo editoriale, limpido e incisivo, si apre con la constatazione basilare:  “Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta”. E alla domanda di fondo: “Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne?”, Rossanda dà una risposta altrettanto schietta e nitida: “Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno” 14.
E’ proprio questo il dubbio cruciale: che perfino dalle parti del manifesto, nato da un atto di solidarietà verso la Primavera di Praga, vi sia chi non ha saputo sottrarsi alla tenaglia degli schieramenti precostituiti per timore di fare il gioco del Nemico imperialista. In ciò dimentichi, alcuni, della propria stessa storia. Anche a quel tempo non si poteva prevedere come sarebbe andata a finire: non c’era forse chi li accusava di fare il gioco del Capitale e dell’Imperialismo? Nondimeno essi ebbero il coraggio di scommettere su quell’insurrezione e di difenderla generosamente.
Il più recente editoriale di Rossanda infine ha ricollocato il manifesto sulla retta via. Una strada tutt’altro che lineare, irta di dubbi, con una sola indicazione certa: le difficoltà delle transizioni, ostacolate fra l’altro da agenti dei vecchi regimi, e il rischio dell’intervento militare atlantico in Libia non ci autorizzano a sminuire l’importanza enorme del 1848 arabo –per usare l’analogia di Tariq Ali15- e a negare che, comunque esso vada a finire, ribellarsi alla tirannia è stato giusto e possibile. Forse non è più il tempo delle Brigate internazionali, evocate dalla stessa Rossanda. Appartengono a un tempo remoto perfino la generosità e l’intelligenza politica che spinsero alcuni ad accorrere nella Spagna degli anni sessanta-settanta che resisteva al franchismo o nel Portogallo della Rivoluzione dei garofani (eppure non era sconcertante che a condurla fossero i giovani ufficiali?). Ma almeno che si denunci la repressione e si esprima rispetto per i caduti. Che si riconosca il Consiglio temporaneo libico per la transizione16 mentre ci si schiera contro l’intervento occidentale. Che si dia sostegno e solidarietà attiva a chi insegna a noi depressi o smemorati che al mondo vi sono ancora esseri umani disposti a morire per la dignità, la giustizia e la libertà. E un giorno forse anche per l’uguaglianza.

da: carta.org

Annamaria Rivera,La luna e il dito. Della primavera araba e della nostra inadeguatezza.ultima modifica: 2011-04-04T17:18:52+02:00da mangano1
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