Giorgio Morale, I custodi del talismano

Walter Binaghi, I custodi del talismano

Unknown-5.jpeg

Giorgio Morale

La storia inizia con l’alba di un nuovo giorno: “Stamani la valle è un soffice letto di nuvole che inizia già qui, dietro la capanna, e inghiotte tutto quanto è vita e colore fino al cielo. Solo qualche cima aguzza d’abete sporge dalla coltre vaporosa. Niente montagne, lassù: il mondo intero è nascosto dalla sostanza impalpabile eppure gonfia d’acqua”. Ci senti la natura che respira, la consistenza degli elementi. E c’è un risveglio in questa mattina nebbiosa, di un druido e del suo discepolo, e il lettore frastornato dall’oggi si domanda cosa c’entri questo con lui e con il tempo che vive. Domanda che alimenta il sospetto che si tratti di un revival mitologico quando legge di un tempo in cui “i Celti abitarono terre lontane e inaccessibili… e avevano nei druidi i fedeli custodi delle leggi, della profezia e del sacrificio…”.

Ma il racconto procede come una narrazione storica resa con rara precisione realistica e sostenuta da approfondita documentazione, che nulla concede al folcloristico e agli effettacci alla moda. Il pensiero corre allora a Salambò di Flaubert, uscito fuori tempo quando la grande stagione del romanzo storico era esaurita. Viene in mente lo sconcerto dei contemporanei di Flaubert nel leggere storie dell’antica Cartagine, di un tempo e di un’umanità ferini totalmente avulsi dalla Francia del Secondo Impero. Sorprendente doveva essere soprattutto che quei fatti fossero narrati con tale dovizia di particolari da fare apparire l’opera come un’operazione antiquaria, e con uno stile prezioso che ne accresceva la distanza culturale.

Tali sorprese sono replicate talvolta nel corso della storia delle lettere, ad esempio da Marguerite Yourcenar con il suo Memorie di Adriano, in cui il passato prende la parola come se fosse un eterno presente. Se ci fosse in Italia una società letteraria, se in Italia la letteratura non fosse diventata il mercato del libro, il recente romanzo di Valter Binaghi I custodi del talismano, che appare quando in Italia è trascorso il breve tempo del romanzo cosiddetto neostorico, sarebbe una di queste sorprese e farebbe nascere non poche discussioni.

I custodi del talismano è un libro che richiede lettori capaci di silenzio e ascolto. Prima conquista una affabulazione pacata e una scrittura tersa e trasparente, poi coinvolge una storia che a dispetto delle prime impressioni riguarda anche il presente. Vale infatti anche per il tempo quello che nel romanzo si dice dello spazio: “Il Centro non è qui o là, ma ovunque persista la memoria dell’Origine” oppure “il mondo intero è in ognuno dei suoi minimi punti”.

Il romanzo tratta della trasmissione di generazione in generazione di un prezioso talismano, conservato in uno scrigno che un custode affida prima della sua morte a una persona da lui ritenuta degna del compito. Lo scrigno dovrà essere aperto solo quando il custode riterrà essere arrivato il momento, cioè quando l’umanità si troverà in una situazione di pericolo a cui null’altro potrà porre rimedio: “verrà il momento che le forze del Male saranno scatenate su tutta la terra, e la potenza dell’Anticristo oscurerà il sole… allora, e solo allora, il sigillo sarà tolto”.

I tre custodi presentati nel romanzo sono un druido dell’anno 196 a.C. all’epoca della conquista romana, un legionario romano nel 365 d.C. che vede crollare con l’imperatore Giuliano l’Apostata la grande cultura pagana e un avventuriero dell’anno 826 d.C. che percorre un’Italia sconvolta da movimenti di popoli e peste. Tutti e tre vivono momenti di crisi di civiltà, in un progressivo decadere dalla età degli dei a quella degli eroi a quella degli uomini, come evidenziato dalla epigrafe vichiana in apertura. Momenti tali da rendere urgente il dilemma se aprire o no lo scrigno, ma sempre il giudizio è che “il mondo può essere ancora distrutto o salvato con la spada”. Né manca la consapevolezza che più che quello esterno il nemico da temere è quello interno, poiché “la miseria e lo sfacelo covano nel corpo stesso dell’impero… Tutto ciò che Roma riesce a portare ai popoli è un lusso equivoco e una pace che garantisce i commerci: di qualsiasi cosa, purché redditizia… I tempi sono tristi e gli uomini di valore, inascoltati, vivono nascosti”.

Il libro è composto quindi di tre racconti, unificati dal filo rosso del talismano trasmesso nel corso della storia. Ma la narrazione si dipana gravida di tensione per la passione intellettuale suscitata, una questione di filosofia della storia in continuità con le tematiche sottese ai precedenti romanzi di Valter Binaghi. Nessuno apre il talismano, almeno secondo quanto ne sappiamo. Segno che l’uomo non si è mai trovato in una situazione talmente irreparabile da doverlo fare; segno di fiducia nell’uomo e nelle sue risorse; che quello che potrebbe apparire come la fine del mondo per alcuni è l’avvio di una nuova avventura della civiltà. Il talismano diventa così una eredità di speranza, un patrimonio inesauribile a cui attingere: e qui sembrerebbe stemperarsi quel pessimismo dell’autore di fronte alle astuzie del male che abbiamo visto in altre sue opere.

Senonché l’ultimo custode non è persona degna del compito e per causa sua si perdono le tracce del Talismano. Questo proietta ombre minacciose sull’integrità del prezioso scrigno e suggerisce che esso per insipienza umana potrebbe andare disperso nel precipitare degli eventi. La storia si offusca e diventa indecifrabile.
Nell’ultima pagina del libro si legge: “Svaniscono idoli e speranze, e i molti nomi di Dio… Eppure, la notte non è completa: io vivo, io vedo ancora. Là, in fondo, quale fioco barlume impedisce al nulla di proclamare l’ultima verità? Qualcosa persiste e si muove lontano nel buio e io, che non ho più nome né figura ma solo l’inerzia dell’antico volere, continuo a seguire, come vele nel vento, le mani bianche della mia bambina”.
Sembra un invito all’uomo a prendere a camminare con le sue gambe e riprendere in mano il suo destino, senza delegare al mezzo magico la sua responsabilità e senza nessuna garanzia rispetto alle incognite del suo cammino.

Binaghi usa con maestria il genere “romanzo storico”, rivisitato con un’ansia metafisica che il vecchio romanzo storico non conosceva e che è tipica della condizione attuale. Ogni storia presenta dei sottotemi cari a Binaghi: nella prima il rapporto maestro allievo; nella seconda i maneggi del potere e le trame che attraversano la storia, che ispira il suo precedente romanzo I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti cronista padano; nella terza il degrado dei tempi che diventa degrado esistenziale ed etico, che informa la vicenda del suo Ucciderò Mephisto.

È da segnalare pertanto la novità di questo romanzo, per il genere e lo stile, rispetto alla precedente produzione di Valter Binaghi. Ma la varietà di generi e di stili, e la loro combinazione all’interno di ogni opera, è qualcosa a cui Binaghi ci ha abituati. Oltre che dello spirito dei tempi e di un’attitudine alla sperimentazione e a rimettersi in gioco, essa è forse indice di un’inquietudine dello scrittore e di un tentare tutte le strade possibili alla ricerca di un approccio decisivo al tema che lo appassiona.

Valter Binaghi, I custodi del talismano
Broni (PV), Sottovoce, 2010

Giorgio Morale, I custodi del talismanoultima modifica: 2011-05-06T15:50:00+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo