Aldo Giannuli,Ripensare la globalizzazione

da www.aldogiannuli.it

Unknown-3.jpeg
Ripensare la globalizzazione

Quando si ragiona sulla crisi e sui possibili rimedi, accade spesso di sentirsi dire che questa o quella misura da assumere sono impossibili perchè la globalizzazione lo impedirebbe,  con tutto quel che ne consegue.
Altrettanto spesso capita di sentir dire che processi come la decadenza dello stato nazionale o la delocalizzazione delle imprese industriali nei paesi emergenti o il connesso peggioramento delle condizioni di lavoro nella residua impresa manifatturiera nel nord del Mondo, sono fenomeni ormai scontati ed irreversibili.
In altri termini, la globalizzazione viene identificata con quello che essa è stata concretamente in questi 20-30 anni e fatta coincidere con il progetto neo liberista. Per cui, non c’è globalizzazione possibile al di fuori di quella di ispirazione neo liberista e, siccome non c’è Mondo immaginabile al di fuori di quello della globalizzazione, l’ordine mondiale neo liberista è l’unico possibile e definitivo.
Siamo sicuri che le cose stiano così?
A partire dal 2008 la crisi finanziaria  ed economica (a tutt’oggi irrisolta) ha segnalato le disfunzioni di questo ordine mondiale e l’evolvere delle relazioni internazionali manifesta significative difformità da quello immaginato sino a non molto tempo prima.
Attraverso una forzata analogia con la “grande crisi del 1929”, si è sostenuto che occorreva soprattutto evitare gi errori fatti in quella occasione: la frenata protezionista che, di fatto, fece da moltiplicatore della crisi ed il dirigismo statale che frenò i liberi scambi turbando irrimediabilmente il buon funzionamento del mercato. Gli economisti  e generali sono molto simili: i generali sanno sempre come vincere la guerra passata, gli economisti come affrontare la crisi precedente.

In soldoni, si è trattato del tentativo di uscire dalla crisi lasciando intatta l’architettura dell’ordine mondiale neo liberista ribadendo la subalternità della politica all’economia e dell’economia reale alla finanza, ribadendo la “naturalità” delle diseguaglianze sociali, confermando il potere illimitato dei manager e lasciando intatto il primato monetario e miliare degli Usa.
Morale: la ricetta non sta funzionando.

Il rischio di una seconda recessione è dietro l’angolo, la terapia a base di inondazioni di liquidità ha solo fatto esplodere il debito pubblico americano e di altri paesi, inizia a manifestarsi una ondata inflazionista malamente mascherata da miserabili trucchetti statistici (come il mutamento del paniere), una serie di paesi sono alla soglia del fallimento, rivolte sociali si manifestano in nord Africa, ma, pur se con inferiore virulenza, anche in Europa, America latina ed Asia.
Soprattutto il barometro delle relazioni  internazionali segnala un tempo in arrivo sempre peggiore e la crisi economica tende a farsi crisi globale.
E per globale non intendiamo solo mondiale, ma anche complessiva, cioè economica, sociale, politica, militare.
Nel complesso sono sempre più evidenti le crepe che si aprono in questa architettura di potere, ma nessuno sa come porvi riparo e neppure quale possibile architettura possa sostituirsi a quella esistente.
Il punto è che nessuno tenta di immaginare una alternativa all’ordine esistente (salvo qualche atteggiamento nostalgico del precedente ordinamento o le ingenuità di qualche movimento antagonista fortemente venate di populismo). Per farlo occorre una premessa logica: capire cosa è stato il processo di globalizzazione sino a questo punto ed avviare un ripensamento su di esso.
Piaccia o no la storia non conosce mai tentativi di restaurazione riusciti: anche quello seguito al Congresso di Vienna durò poco e fallì presto. Una volta turbato un determinato ordine di cose è impensabile riportarlo all’ordine precedente, in qualche modo ogni processo, giusto o no che sia, lascia inevitabilmente le conseguenze del suo passaggio ed il futuro ne ingloberà i segni.

La globalizzazione, per molti suoi aspetti è effettivamente irreversibile: riuscite ad immaginare un Mondo senza internet o rispedendo nei paesi di origine quanti sono immigrati in Europa e negli Usa dal sud del Mondo? L’ascesa della Cina è un dato consolidato, come quello dell’India, il ritorno della Russia al “socialismo reale” è fuori discussione   e le rivolte arabe segnalano che l’urto della globalizzazione sta incrinando l’ordine tradizionale del mondo islamico.
Dunque, non c’è dubbio che alcuni effetti si sono cristallizzati e molteplici  processi di internazionalizzazione andranno avanti. Detto questo, non ne consegue affatto che la globalizzazione debba andare avanti così come abbiamo visto sinora. Se è vero che l’agenda internazionale impone temi impossibile da affrontare in sede nazionale (il tema dell’ambiente è il primo e più evidente) e se da ciò deriva un trasferimento di potere decisionale dalla sfera statale-nazionale a quella sovranazionale, questo non vuol dire che necessariamente siamo alla vigilia della  scomparsa dello stato nazionale e tantomeno che la produzione normativa dei vari stati nazionali debba essere fatalmente sostituita da quella negoziale privatistica come vorrebbero i fautori della nuova “lex mercatoria”.

Se è vero che un certo grado di interscambio di merci a livello mondiale è largamente positivo, è tutto a dimostrare che sia utile ed auspicabile spostare per migliaia di kilometri qualsiasi merce: che scandinavi e canadesi acquistino ananas e banane dai paesi africani e latino americani va bene, ma che senso ha spostare comunissimo aglio dalla Cina all’Italia o uva dal Cile alla Francia? Ha senso una dinamica del mercato mondiale che, per risparmiare sulla forza lavoro, spreca quantità immense di carburante per poi produrre mercati declinanti come quelli di Europa e Stati Uniti?

Va bene che occorre proteggere la proprietà intellettuale, ma gli appositi capitoli dei trattati di Marrakesh del 1993, non solo non sono affatto riusciti a proteggere la proprietà intellettuale dei prodotti tecnologicamente avanzati dalle pratiche di reverse engeneering di cinesi e giapponesi, ma hanno prodotto mostruosità come gli Ogm, l’appropriazione di varietà vegetali ed animali da parte di multinazionali alimentari come la Monsanto e la riduzione alla fame di intere popolazioni africane ed asiatiche: non sarebbe il caso di rivedere quei trattati?

Soprattutto, è scritto da qualche parte che la globalizzazione debba essere per forza accompagnata dalla più totale ed incontrollata mobilità dei capitali? Insomma: da questa libertà di movimento è discesa la più catastrofica migrazione di capitali da Europa e Stati uniti verso il 195esimo stato del Mondo: Riccolandia che prende soldi a tutti e non paga tasse a nessuno. E ne è discesa pure la liquidazione della manifattura in larga parte dell’ex mondo avanzato che da 20 anni registra un costante passivo della bilancia commerciale. Il sogno di sostituire la manifattura con il “lavoro immateriale”, l’intermediazione finanziaria, il controllo delle reti di distribuzione, ecc. si è tradotto in un disastro occupazionale senza precedenti. Vogliamo continuare?

La tragedia, soprattutto in Europa, è stata la capitolazione della sinistra verso l’egemonia culturale neo liberista: le socialdemocrazie (ed il Pci) si sono arrese all’idea che l’unico ordine mondiale possibile fosse quello liberale-liberista ed hanno rinunciato a svolgere una qualsivoglia opposizione. Sono rimaste isole di opposizione in alcuni movimenti protestatari antagonisti ed in presenze residuali dei vecchi partiti comunisti, che hanno prodotto solo analisi inservibili ed una nostalgia reazionaria (la nostalgia è sempre reazionaria, diciamocelo) nei confronti del vecchio buon mondo bipolare. Nulla che serva a dare una risposta ai problemi presenti.

Se vogliamo uscire dal pantano occorre che la sinistra costruisca una propria ipotesi di globalizzazione e questo richiede un ripensamento profondo anche di se stessi e della propria cultura politica.

Aldo Giannuli

Aldo Giannuli,Ripensare la globalizzazioneultima modifica: 2011-08-05T11:31:06+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo