Stefano Liberti, Le vite degli altri ascoltate a Tripoli

|da IL MANIFESTO

   Stefano Liberti
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Mohammed Ahmed ha passato una vita ad ascoltare telefonate. Ogni mattina si metteva le cuffie e, dall’interno di un camioncino, intercettava le chiamate di persone sospettate di tramare contro il regime di Muammar Gheddafi. Questo 34enne dallo sguardo un po’ spento, che preferisce mantenere anonimo il proprio cognome per timore di rappresaglie, racconta la quotidianità anche un po’ banale del suo lavoro: le conversazioni, le parole chiave che dovevano metterlo in allerta, i rapporti quotidiani al suo capo – il responsabile dell’intelligence Abdallah Senoussi. Sulla base delle sue segnalazioni, altri membri delle forze di sicurezza entravano poi in azione e arrestavano i sospetti.
Siamo a Hay Al Slame, periferia a ovest di Tripoli, quartiere abitato prevalentemente da militari, case alte, strade dissestate, polvere e miseria palpabile. Oggi anche quest’area tradizionalmente favorevole all’ex rais ha sposato la rivoluzione. In giro si vedono bandiere rosso-verde-nere, anche se in misura minore rispetto ad altre zone della capitale. Trovare un sostenitore di Gheddafi è impossibile. «Molti hanno semplicemente cambiato casacca all’ultimo momento. Hanno buttato la bandiera verde e hanno accolto i towar (i rivoluzionari ndr)», dice Mohammed Ahmed.
L’uomo ha accettato di parlare solo lontano da occhi indiscreti. La sua stessa famiglia non sa che lavorava per i servizi. La moglie è ancora convinta che lui è un funzionario del governo impegnato nel coordinamento di azioni umanitarie. Siamo quindi andati a casa di un suo amico d’infanzia. E non un amico qualsiasi: Rida Awed è un professore di ginnastica 33enne, che a seguito di un incidente d’auto è finito in pensione anticipata. Ma soprattutto è uno dei rarissimi rivoluzionari della prima ora di Hay Al Slame. «Fin da febbraio, ho cercato di coordinare la gente via facebook», racconta calmo. «Ho ricevuto minacce, tanto che sono dovuto andare via da questo quartiere». Rida, zoppica vistosamente. Si è andato a rifugiare a Suq-al-Jumaa, una delle roccaforti dei towar fin dall’inizio della rivolta. È tornato a casa solo dopo il 20 agosto, quando i ribelli hanno preso la capitale e il regime si è sfaldato come neve al sole. L’ex professore ha una grande bandiera appesa al muro, un computer collegato a internet e una voglia smisurata di parlare. «Siamo stati una vita in silenzio. Se venivi qua prima della rivoluzione, mi avrebbero arrestato appena uscivi di casa».
Oggi il salotto di questa abitazione modesta è il teatro di un dialogo strano: lo spione e il rivoluzionario si confrontano sulla nuova Libia, sul vecchio regime e sulle mille incognite del futuro che verrà. Rida è politicizzato, ha sempre odiato Gheddafi ed è felice di vivere «finalmente in un paese libero». Mohammed Ahmed è il classico qualunquista: non ha un’idea precisa su questi towar, ma dice di non aver mai apprezzato neanche Gheddafi. Il suo lavoro lo svolgeva con dedizione, ma con nessuna particolare convinzione. Ripete più volte che lui obbediva solo agli ordini. «Io ero solo un ingranaggio di una macchina».
Sapeva Mohammed Ahmed che i suoi rapporti servivano a buttare la gente in carcere? «Certo». Che avrebbe fatto se avesse intercettato Rida mentre organizzava azioni sovversive? «Niente, perché gli amici non si denunciano», dice con sguardo sicuro. Rida dal canto suo non ha parole di condanna per il lavoro sporco dell’altro. Anche quando quest’ultimo si allontana un momento per andare a prendere dell’acqua fuori casa, lo giustifica. «Faceva quello che gli chiedevano di fare. Il problema era il sistema complessivo. Vivevamo in una dittatura feroce e paranoica».
La paranoia è confermata da Mohammed Ahmed. L’uomo racconta che nelle sue cuffie sono passate le conversazioni di migliaia di persone, persino di gran parte degli esponenti dell’ex regime. «Anche quando Abdallah Senoussi si è licenziato per un anno, abbiamo avuto ordine di intercettarlo», dice ridendo, ricordando poi l’ira del capo dell’intelligence quando è tornato al suo posto e si è accorto di essere finito sotto osservazione. Lo spione racconta i codici che venivano utilizzati per identificare i sospetti. Ricorda come nei mesi scorsi bastava che qualcuno del Jebel Nafusa, i monti occidentali che si sono rivoltati contro Gheddafi, telefonasse a Tripoli per chiedere al proprio interlocutore di ricaricargli il credito del telefono perché quest’ultimo venisse arrestato. «Gli eventi di febbraio – continua Mohammed Ahmed – hanno cambiato tutto». Quando è scoppiata la rivoluzione, i discreti orecchi nei pulmini sono finiti in prima linea. «Dopo febbraio ci hanno raddoppiato lo stipendio. Ma il lavoro è diventato infernale. Ci chiedevano turni impossibili: dall’inizio dei bombardamenti della Nato, ho lavorato 17 giorni senza interruzione. Non sono mai uscito dal pulmino, non mi sono mai cambiato». Lo spione racconta di aver lavorato fino al giorno in cui l’Alleanza atlantica ha distrutto il centro di comando delle intercettazioni. A quel punto tutto è finito. Ha capito che il suo datore di lavoro semplicemente non esisteva più. Oggi l’uomo parla di tutto ciò al passato e spera di poter continuare a lavorare per il governo. Magari in un’altra funzione, magari nella stessa, aggiunge con indifferenza mentre guarda il suo amico che lo guarda e gli dice con tono forse troppo perentorio che nella Libia di domani non ci sarà più spazio per lavori come il suo.

Stefano Liberti, Le vite degli altri ascoltate a Tripoliultima modifica: 2011-09-05T15:16:56+02:00da mangano1
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