Mario Domina,Appunti per l’antimilitarismo

Appunti per l’antimilitarismo
Di md

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(stavo cercando un modo per parlare, senza retorica, del decennale dell’11 settembre; credo di averlo trovato nelle carte di questa “fenomenologia” – pur sommaria – del militarismo e della sua possibile antitesi, dalla quale appare chiaro come solo un’analisi globale ed un sistema di pensiero organico siano in grado di affrontare la critica teorica della guerra globale, prospettandone insieme il superamento pratico)

Nello scorso mese di luglio è morto Franco Crespi, il mio primo (e credo più importante) maestro di filosofia, nonché amico e compagno di esperienze politiche e culturali per molti anni. Da un decennio – proprio da quel fatidico 2001 – ci eravamo persi di vista, per motivi legati alla complessità dell’esistenza e delle biografie individuali che non è qui il caso di evocare. Intendo oggi ricordarne la figura (di educatore, insegnante, rivoluzionario, comunista e appassionato filosofo) pubblicando un suo scritto del 1985 intitolato Appunti per l’antimilitarismo, steso in occasione di un seminario del Comitato antimilitarista milanese, nel quale all’epoca militavo. Si tratta di una decina di pagine fitte, redatte a mano in quella sua caratteristica grafia a stampatello, chiara e ordinata, e soprattutto – come si evince dal sommario – con quell’inconfondibile stile sistematico, di programmatica grandeur del pensiero, mai disgiunta però dalla prassi e dalla passione politica, tratti ereditati dai suoi principali maestri filosofici, Hegel e Marx.
Si tratta di “appunti”, dunque spesso di abbozzi o di semplici illuminazioni – eppure trovo che, nonostante il quarto di secolo passato, siano ancora freschissimi ed attualissimi, specie in quelli che sono gli snodi essenziali della riflessione: l’inscindibile legame tra guerra e ingiustizia da un lato e la necessità di riaffermare la radicale differenza tra guerra e conflitto sociale dall’altro; la critica alle varie forme di pacifismo, per la loro insufficienza analitica ed inanità pratica; ed infine il tentativo di concepire un antimilitarismo come sistema di pensiero globale. Lo scritto va anche oltre, affrontando temi di carattere ontologico ed epistemologico: dal rapporto con la natura al senso dell’antropogenesi e della storia, dalla tecnoscienza al tema della violenza e del sacro.
Lo pubblico così com’è, senza apportare alcuna modifica, tranne per qualche elemento grafico che aiuti a renderlo più leggibile. E così com’è lo offro alla riflessione (o alla critica) di tutti coloro che vorranno leggerlo, pensando di fare la miglior cosa che Franco avrebbe desiderato per i suoi scritti o pensieri – da non consegnare all’ingessamento accademico, ma da far circolare nel corpo della società e delle sue menti in divenire.
Dove molti pensano prima o poi qualcuno agirà – era il motto che amava citare di Marx. Pensare, amare, lottare! – era lo slogan con cui lo aveva ritradotto durante uno dei nostri innumerevoli simposi.

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Franco Crespi. Appunti per l’antimilitarismo (1985)

Sommario

Parte prima
A1 – Antimilitarismo
A2 – Il pacifismo buddista
A3 – Il pacifismo taoista
A4 – Il pacifismo cristiano delle origini
B1 – La violenza ed il sacro nei primitivi
B2 – Nomadismo, religione, guerra
B3 – Grecità e guerra
B4 – Aridità della legge, corposità della guerra
B5 – Da Agostino a Tommaso
C1 – Continuità e discontinuità dell’età moderna
C2 – Guerra e rivoluzione
C3 – Guerra e conflitto sociale

Parte seconda
A1 – L’ingiustizia in natura
A2 – La morale come giustizia compensativa
A3 – Il fatto religioso e la guerra
A4 – Metamorfosi della scienza in dominio
A5 – L’enigma delle tecniche
B1 – La riduzione della complessità sociale
B2 – Sintomi nella storia
B3 – Proprietà ed ingiustizia
B4 – Famiglia ed ingiustizia
B5 – Stato ed ingiustizia

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PARTE PRIMA

A1. Antimilitarismo

La falsa evidenza del fenomeno-guerra induce la falsa evidenza del pacifismo inteso come ricerca di un positivo a fronte di un negativo, di un bene a fronte di un male, di un dovere a fronte di un essere. Il pacifismo si oppone alla guerra, e solo ad essa, nel duplice senso che essa è ritenuta una alterazione dell’equilibrio sociale da mantenersi. Pertanto esso non riesce mai a spingersi al di sotto del fenomeno di superficie e mantiene rispetto alla guerra il carattere di un giudizio morale o religioso. Di qui la sua impotenza, il suo valore di “testimonianza” nei soli periodi di calma relativa, il suo dileguarsi in altri momenti. Esso non è un sistema di pensiero e non vede nemmeno la globalità del fenomeno-guerra. Vede l’albero, non la foresta. L’antimilitarismo, invece, nasce logicamente come critica dei limiti angusti del pacifismo e come progetto di superamento di esso.

A2. Il pacifismo buddista

È comprensibile soltanto sullo sfondo di una società ad una dimensione storica, quella indiana in particolare, che ha sempre avuto tre caratteristiche: a) la segmentazione verticale in caste; b) un marcato carattere guerriero; c) la dispersione etnica in un contesto di scarsità. È l’antidoto mistico ai periodici massacri ed all’ineguaglianza tangibile, ed è solo questo. È il pacifismo dell’annullamento, il pacifismo del niente. È nostalgia dell’essere mentre è apologia del vuoto.

A3. Il pacifismo taoista

È una teoria dialettica dell’equilibrio, il ritorno dei molteplici e dei diversi nell’uno cosmico. È protesta contro contro l’illusione di autonomia della vicenda umana, del particolare che si erge a fronte del tutto a cui deve ritornare. È dissociazione mistica dalla filosofia dei “regni combattenti”. È il modello cinese di limitazione del fenomeno-guerra.

A4. Il pacifismo cristiano delle origini

È la manifestazione della coscienza infelice di Gesù, uomo di questo e dell’altro mondo, e dei suoi primi seguaci. Rompe la tradizione ebraica, però, solo nella misura in cui crede d’aver individuato la terra promessa. La sua “pace in terra agli uomini di buona volontà”, l’annesso rifiuto del servizio militare, è solo in relazione alla svalutazione della vita terrena rispetto a quella ultraterrena (in cui solo è data la pace eterna del piano trascendente). È, come è stato detto, ideologia del risentimento.

B1. La violenza e il sacro nei primitivi

Il timore della violenza senza fine, della ininterrotta catena delle vendette nel gruppo primitivo, istituzionalizza il sacro, il quale istituzionalizza il sacrificio come espediente rituale. È una forma di violenza limitata e controllata. Ma il capro espiatorio annulla il problema solo all’interno del gruppo, mentre all’esterno rende il conflitto inevitabile. È l’inizio delle “relazioni internazionali” il cui supporto, anche se non la sua spiegazione, affonda nell’economia e nelle tecniche. I primitivi riescono a concepire solo un pacifismo violento-rituale all’interno, riconoscendo l’inevitabilità della guerra all’esterno (temperata per ragioni di rapporti di forza dall’economia del dono e dal dovere-vantaggio dell’ospitalità). Le migrazioni continue toglieranno ogni spazio al pacifismo che potrà ricomparire solo in società relativamente stabili e sedentarie.

B2 Nomadismo, religione, guerra

Tutte le popolazioni nomadi, semitiche o indoeuropee, hanno nelle loro religioni un marcato accento guerrafondaio. Così l’originario ebraismo mostra l’esistenza di un dio bellicoso e vendicativo. Così lo zoroastrismo, che si innesta in una società semistabile, è religione del conflitto (tra Àriman e Ormuzd). Così le popolazioni politeistiche indoeuropee hanno sempre almeno una divinità guerresca (Ares tra gli Elleni) anche se subordinata. Vi è tuttavia da registrare che il monoteismo è più affine alla dimensione bellica del politeismo. Si tralasciano qui le religioni apologetiche dell’ordine socio-politico, come il confucianesimo in Cina o lo scintoismo in Giappone.

B3. Grecità e guerra

Fin dall’età arcaica delle popolazioni elleniche la guerra è vista insieme come necessità e come maledizione, con ripetuti tentativi di risolvere il tragico contrasto. L’épos è certo apologia della guerra, nostalgia dell’età degli eroi, memoria dell’origine indoeuropea nomade e guerresca, ma è anche denuncia tragica ed esorcismo (e consapevolezza della inutilità degli eroi). Il greco sublima la gu8erra nel gioco, il gioco nella competizione, la competizione nel lavoro. Di qui l’Occidente si separa per la prima volta, nettamente, dall’Oriente. In Occidente, dunque, a differenza che in Oriente, militarismo ed antimilitarismo si affrontano fin dall’inizio. L’atto di fondazione dell’Occidente è il contrasto originario di militarismo ed antimilitarismo, che risuona nel sofferto sfogo di Eraclito: “La guerra è di tutte le cose madre e signora” (dove è sempre implicita la prerogativa di trasgressione del soggetto individuale e collettivo).

B4. Aridità della legge, corposità della guerra

La civiltà che ha prodotto il Diritto romano non poteva che essere una società militarista. Aridità delle legge, formalismo del diritto, astrattezza della norma: l’espressione esterna della strategia militare. Nella Roma repubblicana, e più ancora in quella imperiale, la sovranità è della guerra, non della legge. Universale è solo la virtù militare. Di qui il più spaventoso vuoto di cultura, l’assenza di filosofia, il predominio della retorica. Le ideologie militaristiche del classicismo torneranno sempre a Roma come loro punto obbligato: da ultimo il fascismo (in Italia).

B5. Da Agostino a Tommaso

Presto abbandonata l’ostilità alla guerra del cristianesimo originario, il cristianesimo-istituzione si muove sul terreno del giustificazionismo. Così già in Agostino (V secolo), e poi in Tommaso (XIII secolo), troviamo la distinzione fra guerra giusta e guerra ingiusta. Miseria delle crociate. Apologia di Roncisvalle. Ridicolo della lotta per le Investiture. La lacerazione, che è elemento costitutivo della coscienza cristiana, si muoverà d’ora in avanti fra l’accettazione della guerra “di questo mondo” ed il desiderio della “pace eterna” dell’altro mondo. Il cristianesimo è estraneo, e per motivi non solo filosofici, all’antimilitarismo: sia nella sua variante romana che, successivamente, in quella protestante. Il cristianesimo è il tentativo di liquidare la coscienza critica dei Greci. È organicamente ideologia, giustificazione di questo mondo e delle sue ineguaglianze.

C1. Continuità e discontinuità dell’età moderna

Vele e cannoni sono l’ingresso in scena dell’età moderna, ma anche la ripresa di coscienza dell’antichità contro il fanatismo dell’istituzione cristiana. Nuove ricchezze e nuove diseguaglianze procedono con il ritmo della produzione e della guerra. L’Europa partorisce nuovi mondi nell’atto stesso in cui massacra se stessa: è la nascita successiva degli stati e delle nazionalità. Si può discettare su quale sia il testo che meglio caratterizza l’età moderna, se il Novum Organum di Bacone o le Tesi di Wittemberg di Lutero, ma il punto di riferimento più sicuro è forse L’arte della guerra di Machiavelli. La milizia cittadina sta infatti alla cavalleria feudale come il mercantilismo sta all’economia curtense. Da Machiavelli a Clausewitz (Della guerra) vi è una ininterrotta linea di sviluppo del pensiero strategico moderno ed un asse fondamentale: il rapporto guerra/popolo. L’analisi storica di questo rapporto mostra, per le soluzioni che si sono via via proposte, di nuovo, il contrasto di militarismo ed antimilitarismo (ma in modo diverso rispetto all’antichità). D’ora in avanti gli stati dovranno servirsi del “popolo” non meno di quanto i “popoli” entreranno in conflitto con gli stati, al di là dell’esito di questo contrasto.

C2. Guerra e rivoluzione

Prescindendo da una tipologia delle guerre dell’età moderna (dinastiche, coloniali, ecc.) si deve tuttavia riconoscere il loro nesso con la questione sociale. In Inghilterra prima, in Francia poi. Il fatto che nell’età moderna guerre e rivoluzioni siano processi intrecciati ed insieme complementari, è l’espressione esterna del contrasto fra militarismo ed antimilitarismo: un contrasto che non trova soluzione. La guerra, massima espressione dell’ingiustizia sociale, trova contro di sé la rivoluzione come tentativo di dare risposte all’ingiustizia sociale stessa. Non a caso nella Rivoluzione Francese il partito della guerra è quello della borghesia girondina, non quello dei Giacobini. Nell’età contemporanea lo stesso problema riemergerà, mutatis mutandis, nella Rivoluzione Russa ed in quella Cinese. E così come le guerre chiamano sempre in causa le rivoluzioni, le rivoluzioni incompiute (quelle cioè che non risolvono il problema dell’ingiustizia sociale) sono sempre occasioni di nuove guerre: le guerre coloniali dopo Cromwell, quelle napoleoniche dopo la Rivoluzione Francese, ecc. Il presente non fa eccezione, sotto un profilo generale.

C3. Guerra e conflitto sociale

L’antichità conosce bene i conflitti sociali: fra popoli, gruppi, fazioni, città, stati, ecc.; ma è soltanto l’età moderna che fa del sociale (e del conflitto sociale) una categoria sostanziale. Il sociale è infatti inteso come sistema integrato, rete di correlazioni, insieme di vincoli, di cui il conflitto (di ruoli, di gruppi, di classi) è inteso come fattore disgregante. La guerra è pertanto intesa come risorsa estrema contro la disgregazione sociale ad un certo grado dell’evoluzione del sistema: è la risposta al conflitto sociale. Un sistema integrato tende tanto più alla guerra quanto meno in esso il conflitto è esteso, o quanto più in esso il conflitto si presenta senza sbocchi e continuità. Non solo i conflitti cessano quando le guerre iniziano (la belligeranza impone il divieto alle normali vicende della vita quotidiana), ma le guerre iniziano quando i conflitti cessano. L’antimilitarismo, allora, si trova a casa propria solo dove è data la condizione del conflitto sociale. In ciò anche, ed essenzialmente, si distingue dal pacifismo.

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PARTE SECONDA

A1. L’ingiustizia in natura

È ipotizzabile solo fissando in modo rigido ed unilaterale i momenti del processo naturale, entificandoli in misura antropomorfica e sociale. Certo, il lupo sbrana e il pescecane divora… Certo, esiste la lotta per la sopravvivenza nel mondo minerale, vegetale, animale… Ma gli enti di cui la natura infinita si compone non permangono nella loro fissità statutaria: manca dunque la condizione sufficiente dell’ingiustizia, cioè la pretesa del permanere. Tutto continua a divenire. Tutto è generale metamorfosi. Tutto è in tutto. I Greci per primi avevano pensato alla giustizia come misura, ma come misura processuale, senza una unità di misura posta dall’esterno. Nell’infinitamente grande come nell’infinitamente piccolo, è la processualità la struttura dell’essere. L’ingiustizia si afferma solo per dileguare. L’antimilitarismo (a differenza della sociobiologia) può guardare alla natura senza pregiudizi umanistici e senza timori immotivati.

A2. La morale come giustizia compensativa

Il presupposto della morale è la giustificazione filosofica della differenza. Essa presuppone un uomo universale perché lo spettacolo che si offre è quello della pluralità di individui. Mentre non è immorale camminare sull’erba, ed è moralmente incerto se sia legittimo schiacciare una zanzara, è senz’altro rifiutato il recare danno immotivatamente ad un altro essere umano. Nell’Altro la morale coglie sempre lo Stesso. L’ingiustizia si presenta agli occhi della morale come un attentato allo Stesso. Essa, che come è stato detto “altro non è che volontà di potenza”, è al servizio del principio d’Identità: soprattutto quando è fragile. Le filosofie a più alto tassi di moralità sono pertanto le più prossime all’ingiustizia reale: non a caso esse fondano sempre le religioni. La critica della guerra dal punto di vista morale, quando non è una deliberata mistificazione, è pura ingenuità, perché la morale compensa ciò che la guerra fa. Non a caso i più radicati sentimenti morali nella storia affondano nei più sanguinosi eventi bellici. Non si dà morale senza sacrificio; non vi è più grande sacrificio della guerra. Non vi può quindi essere antimilitarismo senza critica della morale.

A3. Il fatto religioso e la Guerra

Ogni religione è sempre la rocca dell’uomo assediato, rocca tanto più fortificata quanto più il nemico è invisibile. Essa presuppone infatti la fede nella sua presenza, così come ogni belligerante ha bisogno di credere nell’esistenza del nemico. Non si tratta di un semplice accostamento: le strategie del fatto religioso assomigliano stranamente a quelle del fatto militare. Ogni religione promette la pace, così come ogni guerra. Essa non tollera (vedi lotta alle eresie) la coesistenza di principi diversi in conflitto, così come l’unità del comando esige disciplina e uniformità. Prendono, mangiano e bevono: il nostro corpo ed il nostro sangue. Più sono monoteistiche, le religioni, più sono sanguinarie (cristianesimo, Islam, ecc.). L’antimilitarismo non può limitarsi alla critica delle religioni positive, ma deve spingersi fino alla critica del fatto religioso, cioè della religiosità.

A4. Metamorfosi della Scienza in Dominio

All’inizio (nella storia dell’Occidente) la Scienza era solo Sapienza: era cioè prossimità concettuale alla Natura. In essa risuonava la Differenza, di cui lo Stesso si sentiva parte, senza Offensiva né Difensiva. Poi divenne Osservazione ed Esperimento, mettendosi ad una certa distanza da essa e scoprendo, dietro di essa, Cause e Leggi invisibili. Era una guerra di posizione. Infine essa divenne Manipolazione e Provocazione, poiché nulla la Natura rivela che non le sia stato fatto confessare. E fu guerra di movimento. Come mutano le idee della/nella Scienza? Secondo i paradigmi dell’Ingiustizia. I ciò la Scienza ha sostituito, ma solo apparentemente, l’inganno del fatto religioso, costituendosi essa stessa come Religione della Scienza. E come le religioni gridano al nulla al di là della fede, così ogni progresso della scienza contemporanea si porta con sé il progresso del nichilismo, l’oscuramento dell’essere di cui dovrebbe (e potrebbe) essere la continuazione. Da ultimo la struttura della Scienza si risolve in Strategia. L’antimilitarismo è dunque anche critica della Scienza per la riscoperta di un sapere della prossimità. E la critica spinge in avanti.

A5. L’enigma delle tecniche

Non sono le tecniche a creare le barriere, sono le barriere a creare le tecniche. La verità più elementare sfugge sia al senso comune che ai teorici della scienza. Si prenda un qualunque processo naturale e a) lo si delimiti (barriera spaziale), b) si operi sul terreno della ripetizione dello stesso (barriera temporale), si avrà così una tecnica, sia essa quella della orologeria o della accelerazione delle particelle. La tecnica è cioè una barriera contro il divenire, o perlomeno pretende d’essere tale per sfuggirvi. La scoperta del fuoco fu, infatti, la delimitazione e la riproduzione di esso. Non la scarsità di fuoco ha spinto l’uomo alla sua scoperta, ma il suo eccesso. Ecco perché ha sentito, con Prometeo, il bisogno di delimitarlo. Come in guerra bisogna delimitare la zona e la durata delle operazioni, allo stesso modo lo sviluppo delle tecniche risponde ai requisiti del pensiero strategico. Barriere, ancora barriere. Il paradosso delle tecniche consiste nel fatto che esse tanto più si sviluppano quanto più – contrariamente al senso comune – divengono semplici. Un circuito elettronico è infatti più semplice di un circuito nervoso, così come il circuito nervoso postulato è più semplice della rete degli stimoli/risposte nervose. Eccetera. Le tecniche, che si originano dalle posizioni di barriere, hanno la stessa natura delle ingiustizie sociali: per questo lo sviluppo tecnologico porta inevitabilmente con sé lo sviluppo di nuove ingiustizie sociali. Ma c’è di più…

B1. La riduzione della complessità sociale

Se si vuole prevedere lo sviluppo delle nuove ingiustizie sociali, e non soltanto constatare quelle esistenti, si deve tener d’occhio il processo di semplificazione sociale che è l’obiettivo di tutte le tecnologie di governo. “Ridurre la complessità sociale” è lo slogan non solo della più agguerrita sociologia accademica, ma anche delle azioni di governo. E poiché la complessità sociale è in relazione alla imprevedibilità del corso storico (una “scienza della storia” non è mai esistita), il risultato viene ottenuto adottando una strategia della quotidianizzazione. Ridotta al quotidiano l’esistenza sociale ed individuale è infatti meno complessa e più amministrabile: l’attività è ridotta al lavoro, l’amore alla famiglia, la cultura all’educazione, ecc. La stessa frase di Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi diventa chiara non appena si intende il processo di riduzione della politica alla guerra che incessantemente si svolge sotto i nostri occhi. E la stessa ingiustizia sociale è effetto del processo di riduzione della complessità sociale. La schiavitù antica è ciò che resta quando si interrompe l’operatività dell’evento bellico. L’economia feudale ed il servaggio è ciò che resta quando migrazioni barbariche e spartizione coatta delle terre sono concluse. Il mercantilismo semplifica la pirateria. Il sistema delle manifatture semplifica la confusione delle corporazioni medioevali. Il moderno sistema di fabbrica semplifica il caos della manifattura dispersa. Il sistema informatico semplifica le disfunzioni storiche del sistema di fabbrica. La guerra semplifica la pace quando questa è avvertita come confusa ed ingiusta. Se la guerra sembra interrompere bruscamente il pacifico corso della vita quotidiana, la sua inerzialità, è solo perché la vita quotidiana nasconde a se stessa ed agli uomini il processo di riduzione che essa è. Vale qui il motto brechtiano: la loro guerra uccide ciò che la loro pace lascia in vita. Chi è complice del quotidiano è agente inconsapevole del partito storico della guerra. L’antimilitarismo, come sistema di pensiero e non solo come atteggiamento, è quindi critica della vita quotidiana.

B2. Sintomi nella storia

Dove c’è oppressione c’è rivolta, però si riesce a cogliere il senso e l’orientamento della rivolta solo alla luce opaca dell’oppressione e dell’ingiustizia. Così l’antimilitarismo, che esprime l’essenza di ogni rivolta all’ingiustizia, anche di quelle inconsapevoli, si lascia leggere solo in termini sintomali. Archiloco getta lo scudo e se ne compiace. Spartaco rompe le catene ma si rifiuta di fuggire. Thomas Münzer accetta la battaglia voluta dai principi tedeschi. I servi della gleba si arruolano come lanzichenecchi. I sanculotti finiscono nelle armate napoleoniche. I bolscevichi si trasformano in difensori della patria. Eccetera. Ogni manifestazione storica dell’antimilitarismo si arena di nuovo nella vita quotidiana e il “sogno di una cosa” sembra essere costantemente confuso con qualunque cosa possa essere sognata: pace, tranquillità, sicurezza. Per questo non si è ancora usciti dalla storia sintomale dell’antimilitarismo. Urge pertanto una fondazione teorico-storica dell’antimilitarismo.

B3. Proprietà ed ingiustizia

Il cosa consiste la proprietà qualunque sia la sua forma storica di manifestazione (privata, collettiva, ecc.)? In un processo di delimitazione/semplificazione del reale. Appropriarsi di qualcosa significa delimitarla rispetto al resto e trattenerla nella sua fissità: l’ente naturale, che è processuale, viene delimitato come valore d’uso e questo viene fissato come valore di scambio. La prossimità del tutto viene semplificata nella disponibilità, cioè nell’essere presente per qualcuno. Per questo la storia della proprietà è tutt’uno con al storia delle tecniche e della Scienza. Ma ad ogni forma della disponibilità/delimitazione corrisponde una specifica forma di ingiustizia sociale. La proprietà inizia sempre di nuovo dove la fruizione/partecipazione al processo cessa. Se si vogliono cogliere le nuove forma dell’ingiustizia sociale si devono osservare le nuove forma di delimitazione. Esse non sono pacifiche, e rivelano il loro carattere strategico-militare. Sono leggibili in termini di conquiste ed annessioni territoriali. Urge una fenomenologia per il presente. Quali forme di proprietà determina la società informatica?

B4. Famiglia ed ingiustizia

Ad ogni forma di delimitazione dell’éros corrisponde una forma storica precisa di famiglia, ed una corrispondente forma di ingiustizia sociale. Forma ristretta e semplificata di socializzazione dell’organo, essa implica una privatizzazione comunicativa. Da ultimo l’organo privatizzato è arma, resa sacrale, messa al servizio della strategia demografica. Guerra e popolazione. Cosa deve fare l’antimilitarismo? In che consiste la critica della famiglia?

B5. Stato ed ingiustizia

Non si fugge dallo stato (che è oggi stato-codice) rifugiandosi nel sociale. La semplificazione del sociale è tutt’uno con la sua statalizzazione. L’antimilitarismo che rifiuta lo stato come organo della guerra e dell’ingiustizia, non può però proporsi di seguire le vie tradizionali dell’esperienza rivoluzionaria. Per esso è ipotizzabile solo un processo storico di de-statalizzazione, i cui termini sono da approfondire.

Mario Domina,Appunti per l’antimilitarismoultima modifica: 2011-09-12T19:42:17+02:00da mangano1
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