Guido Vitiello, Chi vuol salvare la propria faccia la perderà

Guido Vitiello,

Chi vuol salvare la propria faccia la perderà

Judex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit. Quando il Giudice si assiderà, ogni cosa nascosta sarà svelata. Così annuncia il Dies Irae, e messa in questi termini la faccenda suona piuttosto minacciosa. Se però non ci lasciamo suggestionare da tutto quel kitsch medievaleggiante che abbiamo in testa a forza di codici da vinci e nomi della rosa, da tutte quelle schiere nere di monaci incappucciati che intonano il lugubre babau del gregoriano, capiremo che c’è poco da temere dal giorno del Giudizio: lassù nei Cieli le carriere sono separate dall’origine dei tempi, alleluia! Satana è, in ebraico, l’Accusatore, e come non bastasse deve chiedere il nullaosta al padreterno per avviare l’azione penale, che sia per tribolare Giobbe o per “vagliare i discepoli come si vaglia il grano”. Sul banco della difesa sta invece lo Spirito Santo, che il greco della Bibbia chiama il paracleto, e cioè l’Avvocato; dal che si deduce che la bilancia della giustizia ultraterrena pende alquanto sul lato della difesa. La terzietà del giudice non è assicurata, essendo questi tutt’uno con il difensore (è assicurata la sua trinità, che è cosa un po’ diversa). Un grande teologo volle pure ricavarne che, per grazia del divino garantismo, le carceri infernali potrebbero essere vuote, senza bisogno di amnistie a maggioranza qualificata. Così in cielo; quaggiù in terra le cose vanno a rovescio, almeno nella nostra aiuola: le carceri sono infernali proprio perché straboccano, l’accusatore e il giudice vanno assieme a braccetto al circolo del tennis e l’ingranaggio giudiziario ronza così spesso a vuoto che non sappiamo mai cosa partoriranno i suoi stridori, se la verità o l’errore.

Eppure una vulgata dura a morire vuole che il nostro Dies Irae in scala ridotta, il Processo al Palazzo del 1992 annunciato con due decenni d’anticipo dalla voce nel deserto di Pier Paolo Pasolini, sia stato il gran giorno della rivelazione in cui le cose nascoste sono portate alla luce, rovesciati i potenti dai troni, scoperchiati i sepolcri imbiancati e costretti a svelare il loro putridume. L’ipocrisia del finanziamento della politica, il volto ripugnante degli uomini di Stato dietro la maschera farisaica del rispetto istituzionale, la voracità dei partiti di governo più scatenati dei demoni di Gerasa: nil inultum remanebit, nulla resterà invendicato. Ma se il supplice del Dies Irae, vedendo il proprio peccato esibito in piena luce, arrossiva di vergogna e di contrizione (culpa rubet vultus meus), gli indagati della Procura di Milano, salvo qualche caso, non accettarono di buon grado il saio dei penitenti. Alcuni perché innocenti o perseguitati, altri per un nobile ripicco d’orgoglio repubblicano, altri ancora perché, colpevoli o meno che fossero a lume di codice, intuivano che la provvidenza ambrosiana seguiva vie che tralignavano, per dire il meno, dalla spassionata amministrazione della legge.

Erano, tutti costoro, i più degni. C’erano poi, certo, gli strafottenti e gli impuniti, e non erano un bello spettacolo. La professoressa Francesca Rigotti, filosofa politica, assisté alla parata degli onorevoli disonorati, tutte quelle facce che avevano perso la faccia, e non si riebbe dal colpo: “Una delle cose che più lasciava sconcertati gli osservatori, me almeno, era l’assenza di sensi di vergogna, pudore o colpa sulla faccia delle persone coinvolte”, annotò. “Sembrava che nessuno di loro, sicuramente la maggioranza, si sentisse colpevole o si vergognasse per aver commesso un’azione disdicevole, contraria alle leggi scritte e ai codici di comportamento dominanti; sembrava che nessuno avesse qualche forma di coscienza o onore, che a nessuno di loro importasse che il proprio onore e la propria reputazione venissero lesi”. Lo sconcerto fu tale da ispirarle un libro, L’onore degli onesti, che uscì qualche anno più tardi: una rivisitazione delle nozioni di onore, dignità e onestà in Occidente, dal timé dei Greci all’honos e alla dignitas dei Romani, e poi giù fino ai moderni, Machiavelli e Montaigne, Kant, Mandeville e gli illuministi, condotta con il nobile intento di rifondare l’idea dell’onore strappandola alle aristocrazie e ai codici cavallereschi per renderla alla civiltà democratica, dove poteva sopravvivere solo sposandosi alla honestas. Nel libro della Rigotti capitava di incappare in involontarie boutade come questa: “Il magnanimo non deve fare nulla per ostentare l’onore; l’onore gli verrà riconosciuto dai vicini e dal pubblico, lo stesso pubblico che in Italia osannava Antonio Di Pietro in quanto incarnazione e simbolo di giustizia, di correttezza e di onestà”. Ma al netto di queste smancerie, L’onore degli onesti aveva il grande merito di registrare, sia pure con il sismografo alterato dell’indignazione civile, un sommovimento profondo da cui ancora non ci siamo riavuti.

Basta accendere a caso la televisione, che in Italia, osservò Marc Fumaroli, è una corruzione dell’opera buffa “con le sue scene concitate e chiassose, le sue melodie pompose, i suoi interminabili recitativi”. Il duetto più ricorrente nei talk show politici da vent’anni a questa parte è “Onorevole, si vergogni!” “Si vergogni lei, piuttosto!”, e chiunque può veder bene che per quei tenori impettiti e quei contralti starnazzanti il richiamo all’onore non è che un suono privo di senso, un’arietta antica che tutti canticchiano senza ricordarsi il perché. Che i politici abbiano perso la faccia? Sembra, piuttosto, che non si curino troppo di averne una; non più, almeno. L’onore e la reputazione non sono più premi desiderabili. Se ci sia anche del buono in questo accantonamento delle antiche abitudini di decoro i tempi non sono maturi per dirlo, e nella concitazione delle cronache, tra il dito medio e l’uccello padulo, verrebbe solo voglia di rimettere a posto il tappo che è saltato con il tracollo della Prima repubblica. Ma una cosa è certa, chi un giorno vorrà porre la questione in modo non effimero sarà obbligato a passare (e ripassare) per il crocevia di Berlusconi e dello stile che ha imposto fin dalla sua discesa in campo. A questo studioso futuro suggeriamo fin d’ora di accantonare le tante metafore, per lo più improvvide o pretestuose, a cui si è fatto ricorso in questi anni per leggere il ciclo berlusconiano al tramonto – dal nuovo fascismo al populismo latino, dagli incubi orwelliani alla mignottocrazia – e di adottarne un’altra, che non è mai stata esplorata a dovere perché non viene facile associarla all’uomo del family day, del bunga bunga e del gallismo italico. In breve, si può pensare al berlusconismo come a un gigantesco “coming out”, un uscire allo scoperto sul modello dell’orgoglio omosessuale, la rivendicazione fiera e aperta di modi di vivere, umori e opinioni e che il galateo della Prima repubblica imponeva di accantonare nella penombra dell’inconfessato, di tenere sotto chiave perché non si affacciassero mai sulla scena pubblica. Da un giorno all’altro, come nel festoso e colorato corteo di un “gay pride”, i vizi arcitaliani punzecchiati da generazioni di osservatori del costume nazionale più o meno benevoli, più meno ironici, più o meno petulanti e accigliati, divennero motivo di pubblica e spavalda ostentazione. Era come se dicessero: “Saremo pure pacchiani, un po’ cialtroni, furbi, erotomani, paraculi e parcheggiatori in doppia fila ma ce ne vantiamo, lo esibiamo alla faccia di tutti i micheleserra di questo mondo. Eravamo così anche prima, ma ci era stato detto che dovevamo vergognarcene: ora finalmente abbiamo trovato il coraggio di uscire dall’angolo e proclamarlo in piazza”. È stato, questo sì, un grande momento della verità. Berlusconi si è messo alla testa della parata, con il costume più variopinto e impennacchiato, ma non si può dire che sia stato il solo e neppure il primo: il muro dell’ipocrisia pubblica, eroso alle fondamenta da anni di televisione-spazzatura, picconato da un presidente di scespiriana follia e strattonato dall’invasione verticale dei barbari padani è venuto giù in un crollo, che bastava appoggiarci un dito. La soglia del rossore si è spostata ogni giorno più in là, tanto che oggi appare come una confusa linea dell’orizzonte, una tremolante fata morgana.

Quel muro dell’ipocrisia pubblica lo aveva puntellato, per decenni, la prudenza cerimoniale della Democrazia cristiana, che non per caso aveva sede in piazza del Gesù: quanto al governo delle apparenze, si può dire, i capi democristiani erano di stretta osservanza gesuitica e secentista, agivano in accordo alla precettistica prudenziale del Siglo de Oro, quella di un Baltasar Gracián o di un Mazzarino: tutto un dissimulare e un dare a intendere, un dolce dir niente, una pratica della pia frode e della santa impostura a maggior gloria di Dio o del partito, dove non c’era acrobazia verbale troppo arrischiata quando si trattasse di salvare le forme e trattenere la manifestazione troppo esplicita del male. Meglio di ogni altro lo comprese Leonardo Sciascia, che affidò agli “esercizi spirituali” di Todo Modo il ritratto più duraturo del modo d’essere democristiano e dei suoi riti, a futura memoria.

Che i tempi si siano capovolti e che quel gesuitismo sia andato allegramente a farsi benedire, saprebbe dimostrarlo ormai anche un bambino. Si prenda questo precetto di scaltrezza politica dell’Oráculo manual di Baltasar Gracián e lo si ripercorra tenendo a mente l’ultimo anno di cronaca italiana, dalla telenovela di Casoria in giù: “E’ uomo prudente colui che pensa che gli altri lo guardano e lo guarderanno. Sa che i muri hanno orecchie e che le cose mal fatte finiscono per scoppiare e uscir fuori. Anche quando è solo, agisce come se fosse dinanzi agli occhi di tutto il mondo, perché sa benissimo che tutto si viene a sapere”. Potremmo aggiornarlo così: “L’uomo prudente agisca come se fosse perpetuamente intercettato da qualche Procura della Repubblica”, e anche in questa forma non si può dire che sia stato applicato alla lettera da chi ci governa, così come è chiaro che il Principe di questi anni non ha tenuto in gran conto il consiglio machiavelliano per cui “contro a chi è reputato, con difficultà si congiura, con difficultà è assaltato”. Se proprio vogliamo trovare un compendio di massime di prudenza adatto ai tempi nuovi, dobbiamo sceglierne uno inventato per scherzo, un centone secentesco che compose Umberto Eco nel 1991: De l’Esternattione – Ouuero di Come Principi, Miniftri, Poeti & Philofophi Poffano Celare il Loro Penfiero Rendendolo Argutamente Apparente in Qualfiuoglia Circumftantia. Conteneva precetti che se non sembrano estratti dai resoconti parlamentari degli anni successivi poco ci manca: “Abbi l’Idea di un Theatro in cui tu, esibendo i Corbelli tuoi, et agitando con la Man Manca la tua Virile Pannocchia, la Man Dritta portandola al Naso et movendone i Diti a guisa di Ventaglio, facci Espressione d’Emblema che suoni a Dispregio della Sorella o Madre di Colui”.

La politica ha perso la dignità, si sente piangere da più parti; e a lume di etimologia si dà il caso che i piangenti abbiano ragione, se è vero che la dignitas indica, fin dalla Roma repubblicana, il rango e l’autorità che si convengono a chi vuole occupare cariche pubbliche, e per estensione quelle stesse cariche. C’è la dignità dei senatori e dei consoli, dei prefetti e dei magistrati. E l’accesso alle cariche, la porta dignitatis, è sbarrato a chi non conduca una vita corrispondente al ruolo che dovrà rivestire, o meglio al ruolo che lo rivestirà: così solenne è infatti la dignitas che essa si stacca, per così dire, dalla persona fisica del suo portatore: la toga conta più del magistrato, ed è questa a dettar legge all’omicciolo empirico che la indossa. Via via raffinandosi e spiritualizzandosi, la dignità diventa poi una sorta di veste interiore, il contegno di chi pur non avendo una carica pubblica si comporta come se l’avesse. Vedete bene come tutto questo sia messo oggi a gambe all’aria, al punto che chiunque abbia una carica si comporta, al contrario, come se non l’avesse affatto. E non certo il solo Berlusconi e compagnia di giro. Quasi nessuno ne esce indenne, anche solo a considerare lo spettacolo di queste settimane: quando un pm va a dichiararsi partigiano a un’assemblea dei comunisti, una vicepresidente della Camera chiama “stronzi” dei deputati convenuti in aula a votare, un giudice pronuncia la sua assoluzione per un delitto controverso e il giorno dopo si affretta a dare interviste per dire che forse i pm avevano ragione, ebbene, è il segno che la dignitas l’è morta.

Ma è mai possibile? Dignitas non moritur, la dignità non muore mai, ripetevano i giuristi medievali. Muore l’uomo, non la funzione. I re in carne e ossa possono ammalarsi e invecchiare, la regalità non patisce di questi oltraggi. C’è il corpo mortale del sovrano, che è soggetto alla sciatica e al colpo della strega, ma accanto ad esso c’è il suo corpo simbolico che assicura la perennità della dignitas dopo che il suo portatore è passato a miglior vita. La manifestazione più teatrale di questa antica concezione era il doppio funerale dell’imperatore romano e poi dei re di Francia, dove un’immagine di cera del sovrano defunto rappresentava appunto la sua dignità in effigie. Cose del Medioevo, si dirà, e infatti non staremmo qui a parlarne se non fosse che Marco Belpoliti le ha riesumate per il suo fortunato libro su Berlusconi, Il corpo del capo. Dove si sostiene, tra le altre cose, che nel caso di Berlusconi il corpo politico è ridotto al corpo naturale, sfrondato di ogni dignità simbolica, è un corpo che rimanda solo a sé stesso e per questo dev’essere tirato a lucido a forza di trapianti, ceroni e occasionali chirurgie di manutenzione. Ci sarebbe da discuterne, ma è certo che l’attuale sovrano non dispone di un duplicato in cera, o per dirla fuor di metafora non percepisce la soglia tra la sua persona e la sua funzione.

Sarà per questo che tra i tanti che vorrebbero fargli il funerale e il doppio funerale – politicamente, beninteso – c’è chi brandisce il feticcio della dignitas perduta come un minaccioso mascherone mortuario, un’effigie punitiva. Capita allora che attorno al corpo di questo sovrano senza dignità sia allestito tutto un lugubre carnevale messicano di pupazzoni di padri nobili trapassati, statue del commendatore, venerati maestri mummificati in vita, santini del contegno civile, sacre sindoni, auguste facce di bronzo. C’è una diffusa variante dell’antiberlusconismo, diciamo pure l’antiberlusconismo da Palasharp, che ha tutti i tratti di una bottega d’arte funeraria, e che oggi ha issato un Berlinguer in bronzo perché getti sul nostro degrado il suo sguardo accusatore. La giovane e industriosissima officina del Fatto si è poi specializzata nella produzione di queste patacche cimiteriali, e accanto a un Berlinguer che non è mai esistito ha modellato nel bronzo un Montanelli che non è mai esistito, un Biagi che non è mai esistito, e così via. Il modello è biforcuto, e avvincente sul piano psicopolitico: da un lato si rimesta con pornografico godimento nelle oscenità nazionali, meglio se origliate, e dall’altro si fa sfilare questo corteo funebre di dignitari ed eroi civili. E’ in fondo la vecchia scuola di Repubblica, dove l’arte funeraria è una tradizione di testata, se pensiamo che da decenni il fondatore fa sforzi sovrumani per assomigliare alla sua stessa maschera mortuaria, a un’effigie severa di Grande Borghese. Un’impresa condotta a colpi di autoagiografie, certo, ma anche di qualche bravo figaro, come mostra l’evoluzione della sua barba, ripercorsa nella biografia che Giancarlo Perna scrisse, per così dire, con l’inchiostro antipatico. Nasce romantica e battagliera, la barba di Scalfari, e “rappresenta egregiamente lo spirito di barricata. È sale e pepe. Ciocche bianche lingueggiano come fiamme, mentre vivaci serpentelli neri minacciano di invaderle. Un’allegoria della lotta tra il bene e il male, al posto di un comunissimo mento col buco”. Poi, con gli anni, la barba si fa bianchissima, mosaica e filosofica, già pronta per il bronzo, come si conviene a chi si autonomina “Officiante del dover essere” contro la melma dell’essere. Ma conservare a lungo la faccia, che sia bronzea o meno, non è impresa da tutti, è come la corsa con l’uovo nel cucchiaio: basta distrarsi un attimo, scantonare a destra o a manca e la frittata è fatta. Così è capitato che il fondatore di quell’altro giornale, il bollettino giudiziario, spaventato da una scossa di terremoto mentre recitava il sermone settimanale ai grillini, si alzasse di scatto in piena cerimonia mostrando sotto la Polo un bel paio di braghette. In mutande, ma vivo.

Il circolo vizioso in cui siamo intrappolati, tra sguaiatezza e tartufismo, indegnità e indignazione, spinge a coltivare le nostalgie più sconvenienti, e si vorrebbe tanto che il sipario della cara ipocrisia istituzionale della Prima repubblica suggellasse lo spettacolo. Mai come oggi suona liberatorio quel vecchio elogio dell’ipocrisia, Il secolo tartufo, scritto più di cent’anni fa da Paolo Mantegazza, fisiologo, patriota, scrittore, darwiniano e grande misogino: “L’ipocrisia cresce in ragione diretta della civiltà; perché dove regna solo la violenza, essa è inutile. Dove invece la libertà rispetta e lascia vivere tutte quelle forze diverse e opposte che chiamansi interesse dell’individuo e benessere sociale; passioni e leggi; idealità e brutalità, misticismo e animalità; ne risultano mille e centomila transazioni reciproche, che formano quel mirabile equilibrio, quell’ambiente di mutue tolleranze, che è appunto l’ipocrisia”. Ma anche da questi miraggi retrospettivi bisogna sapersi guardare. E se è bene che questo “mirabile equilibrio” d’ipocrisia regga la vita civile nel suo insieme, e che il vizio renda omaggio alla virtù del decoro istituzionale, non c’è niente di peggio dell’“ambiente di mutue tolleranze”, di cerimonie e lealtà tacite, di connivenze e patti di non belligeranza, quando viene (perché viene) il momento di dire la verità. Specie per quanti dovrebbero, per vocazione o per mandato, dire quanta più verità possibile, intellettuali, giornalisti, chierici sempre a rischio di tradimento: è allora che la preoccupazione ossessiva della faccia, dell’onorabilità e della reputazione produce per lo più intelligenze mortificate e piccole vigliaccherie munite di alibi. Vale in questo campo una legge controintuitiva: una certa disponibilità a perdere la faccia è l’unica porta dignitatis, l’unico accesso alla dignità del proprio ruolo, e solo chi accetta di sputtanarsi per amore della verità è degno di custodirla. Costruirsi una reputazione è buona cosa, ma affezionarcisi al punto di non saperla, all’occorrenza, gettare all’aria è il peccato supremo. E perdere la faccia, per molti, è la più dolce e necessaria delle iniziazioni, la tana del Bianconiglio in cui bisogna infilarsi per riemergerne sciolti dalla ragnatela delle connivenze. Non sarà un caso se i commentatori più franchi e liberi dell’Italia attuale sono spesso illustri reduci della Prima repubblica, strapazzati nel frullatore di Mani pulite quanto bastava da perdere la faccia agli occhi del mondo dabbene. Oggi non si curano di celare le braghette o di coltivare barbe solenni, e leggendoli li s’immagina in vestaglia di flanella e pantofole, a perfetto agio. Allo stesso modo, la fase nascente del berlusconismo offrì ad alcuni un prezioso lasciapassare: è il caso di quegli intellettuali liberali che schierandosi con il Cavaliere compirono una sorta di auto-ostracismo, un’uscita dalla rispettabilità, e si svegliarono per incanto senza l’ingombro di una faccia. Ma è pur vero che, Berlusconi regnante, troppi di quelli che hanno perso la faccia hanno rivelato che dietro, nel migliore dei casi, non c’era nulla, come nella favola di Fedro sulla volpe e la maschera tragica.

Perché c’è modo e modo anche di perdere la faccia. Ci si può trovare di colpo alla tavola dei freaks che ti accolgono cantando “Uno di noi, uno di noi!” così come, una volta messi al bando, si può diventare saggi come un Edipo a Colono. E una nuova precettistica prudenziale, degna di un secolo non d’oro ma di bronzo, dovrebbe insegnar l’arte non già di conservare la reputazione, ma di liberarsene con stile. Un trattatista che volesse occuparsene, crediamo, potrebbe prendere ispirazione da una traiettoria esemplare: quella di Marco Pannella. Che del rispetto delle forme istituzionali ha fatto quasi un idolo, ma che ha maltrattato la propria reputazione come una puta, senza troppi riguardi, perché la buona fama presso la gente dabbene è una verginità di cui sbarazzarsi al più presto. La via, d’altronde, l’aveva segnata Pasolini nell’intervento mai pronunciato al congresso radicale del novembre 1975: “Non avete avuto alcun rispetto umano, nessuna falsa dignità, e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto. Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche – ed è tutto dire – di fascisti”. Da allora Pannella ha perso la faccia mille altre volte: presentandosi al congresso dell’Msi di Almirante o proponendo un gruppo parlamentare con il fascistissimo Le Pen, candidando Cicciolina e Toni Negri, travestendosi da guitto o da fantasma, bevendo urina o distribuendo hashish in tv, mettendosi alla testa, nel 1993, degli onorevoli che avevano perso la faccia e addirittura – per molti la colpa più terribile – sedendo a tavola con Berlusconi e i suoi freaks. Oggi si aggira per le strade di Roma con la sua lunga coda di cavallo come un indiano metropolitano o uno hippie invecchiato bene, senza barbe mosaiche e senza ceroni, e chi lo incrocia è tentato di domandarsi se non sia l’uomo più libero d’Italia. Perché ha capito che quel che conta, per prendere a prestito una formula – nientemeno – da Giovannona Coscialunga (e con questa citazione ci siamo giocati la faccia pure noi), è la capacità di “disonorarsi con onore”. Perché, evangelicamente, chi vuol salvare la propria faccia la perderà; ma chi è disposto a perderla l’avrà salva, e non avrà nulla da temere nel giorno dell’ira.

Articolo uscito sul Foglio il 5 novembre 2011 con il titolo In tempo di ipocrisie beato chi sa perdere la faccia

Guido Vitiello, Chi vuol salvare la propria faccia la perderàultima modifica: 2011-11-13T17:16:17+01:00da mangano1
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