Rita Simonitto ,Tra-collo

venerdì 31 agosto 2012

Rita Simonitto
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Iniziamo con questo racconto   di Rita Simonitto un esperimento: apriamo  di tanto in tanto il blog Moltinpoesia anche a altri tipi di scritture non strettamente poetiche o riguardanti la poesia. [E.A]

“Buon giorno! So che mi aveva cercato.”
“Buon giorno. Sì. Ah, è lei” aveva risposto una voce fredda al di là della cornetta.“Senta, è da un po’ che tento di mettermi in contatto. Ma che cazzo sta succedendo! Non va mica bene, così, sa? Se ne renderà conto. Oppure… no! Non se ne rende conto……Ma dove….?”.
Lui ascoltava, senza proferire verbo, quelle parole che gli scivolavano nelle orecchie come un brusìo, e anche i suoi pensieri si erano ammutoliti. Tutti tranne uno che martellava fisso nella sua mente “E, adesso, che faccio?”.
Non ci sarebbe stato niente di altro da fare, lo sapeva bene, se non quello di mettersi finalmente ad ascoltare ciò che il suo capo gli stava dicendo dall’altra parte, che però percepiva come se venisse dall’altra parte del mondo. Ma non ne aveva né la voglia né la forza.
Così, di colpo, non potendo reggere più la situazione, mollò la voce che continuava a  parlare lungo quel filo penzolante, e, ottuso ormai, abbandonò il tutto e uscì dalla stanza.

Sulle prime, il leggero cambio di clima lo sturbò. E poi si sentì preso alla gola quando fu fuori dal palazzo: il caldo, afoso oltre ogni limite di sopportazione, era davvero soffocante. Si passò meccanicamente ambedue le mani sul collo come a voler mettere uno spazio di respiro tra sé e quell’opprimente afa che lo attanagliava.
“E, adesso, che faccio?” continuava imperterrita la domanda interiore.
“Dirigersi innanzitutto all’auto” fu la sua prima risposta. Lì, avrebbe potuto accendere un po’ l’aria condizionata e trovare del refrigerio.
Già. Ma dove l’aveva parcheggiata?
Da qualche tempo aveva preso l’abitudine di non utilizzare il parking dell’azienda. Si sentiva a disagio nell’affrontare le frotte di colleghi che, intruppati in ascensore, parlavano di politica come un tempo si parlava di calcio, quel modo simpatico ed innocuo per sentirsi al lunedì, alla ripresa del lavoro, pieni di idee ‘rivoluzionarie’ su come avrebbe dovuto svolgersi una partita e su quali tecniche sarebbero state più vittoriose. Era un piccolo momento di onnipotenza quello di avere in mano, a giochi fatti, il campo intero, giocatori, allenatore e arbitro compresi,  prima di immettersi, sbuffando, nel pieno delle pratiche da sbrogliare. Ma, parlare in quello stesso modo di politica, gli faceva venire la nausea: non c’era nessun gioco onnipotente da esibire, nessuna verità da propagandare ma soltanto il peso di una incredulità che cresceva sempre più e che era difficile da portarsi.
Giorni prima, Mirella, la sua dirimpettaia d’ufficio – sezione contenziosi – lo aveva guardato con sufficienza, né più né meno di come ultimamente lo stava guardando sua moglie.
Che gli aveva urlato dietro, dopo uno stanco litigio “Ma che vuoi di più dalla vita…”.
Stanco litigio, sì … non ricordava nemmeno più su che cosa c’era stato da ridire. Già.
Non era che non sapesse quello che avrebbe voluto dalla vita, ma era come nella canzone “”Vitti ‘na crozza”,  quando un verso diceva “ chiamu la morti i idda m’arrispunni” e lui che storpiava sempre con un “chiamu la vita e a morti m’arrispunni”.

Così, parcheggiando la macchina lontano, ne approfittava per sgranchire un po’ le gambe e con esse la mente, lasciandosi andare ai suoi pensieri.
Si alzava anche presto alla mattina, in modo da poter fare il tragitto. Sua moglie lo lasciava fare, limitandosi a scuotere la testa. Nel loro rapporto era giunto quel momento della vita di coppia in cui si passa dal gioco degli adolescenti innamorati, che si stimolano a far andare lo cose a loro piacimento, ad una gestione più complessa a fronte della quale è necessario prendersi delle responsabilità in senso stretto e in senso lato. Ma, mentre lei sentiva che quel richiamo equivaleva a rispondere ad un dovere, e prendere quindi le distanze dai moti e dai sogni dell’adolescenza, lui non ci vedeva tutto quel distacco né quella necessità. Si potevano sempre trovare delle mediazioni! Ma per mediare bisogna essere in due e anche disposti a farlo. Così, pur essendo ancora giovani, vivevano come vecchi, preso ognuno dalla inflessibilità delle proprie costruzioni mentali.
Questi erano, grossomodo, i pensieri che lo accompagnavano nel suo percorso dall’auto all’ufficio e viceversa.
Ed essi si calavano sempre più in profondità e si ramificavano sempre più in estensione, come accade quando si getta un sasso in uno stagno. E avendo essi la peculiarità di coinvolgere la sua vita privata così pienamente, senza residui, o altro che potesse distrarlo, sentiva ogni volta il bisogno di chiarirseli meglio in modo da essere in grado poi di esporli, eventualmente, alla sua compagna. La necessità di avere più tempo per pensarli includeva, ça va sans dire, anche gli eventuali contradditori che potevano essergli mossi. Il passare da sé all’altro, come un giocatore di scacchi che gioca da solo, non era però esente da fatica, perché non era sempre facile ricordare il punto mentale in cui si era fermato trovandosi già alle soglie dell’ufficio: così il dialogo interiore doveva essere ripreso da capo.
Tutto ciò aveva fatto sì che parcheggiava sempre più lontano, a volte senza nemmeno farci caso; così che, al ritorno, gli capitava spesso di dover trascurare i suoi pensieri, ormai ossessivamente prendenti, per fare mente locale sui suoi passi della mattinata. C’era stato perfino un giorno che, dopo aver girato invano, era rientrato a casa a piedi, ormai a notte fonda. Solo al mattino seguente, si era ricordato che aveva parcheggiato proprio sotto l’ufficio visto il ritardo con cui si era svegliato.

Quel pomeriggio, non riuscendo a ricordarsi dove l’aveva messa, decise di non farci caso: il ricordo sarebbe venuto da sé. Ma non poteva certo permettersi di vagabondare per la città dentro quel clima da Cajenna: si sudava soltanto a respirare.
Non voleva rinchiudersi in un bar in attesa che, verso il tramonto, la morsa della calura si rendesse più tenue. Non era il tipo capace di attendere.
Il pensiero “adesso che faccio?” diventava sempre più assillante. Oltretutto, non faceva più parte di una estemporanea richiesta di fronte ad una situazione critica, ma era diventato un suo compagno di viaggio, fedele al suo fianco, che lo stimolava sempre ad agire. Anche i suoi pensieri, così coatti e ossessivi, non erano altro che una forma di azione.
Preso dalla morsa di quell’interrogativo decise che avrebbe camminato fino a raggiungere il piccolo parco che occupava la parte centrale della città; polmone attorno al quale essa si era sviluppata e che, attualmente, lo stava stringendo a tenaglia in una battaglia dove i gas e i miasmi stavano avendo la meglio asfissiando le piante più sensibili e ancora non assuefatte.
Là si svolgeva una continua lotta per la sopravvivenza e lui sentiva la sintonia con quel verde che si manteneva costante durante tutte le stagioni, pur cambiandosi nelle tonalità e nei rapporti vuoti/pieni. Ritrovava un sentire giovane, quando le forze si combattono tra le ansie claustrofobiche della prigione familiare in cui ci si trova e le ansie della fuga verso un futuro che sa da ignoto. In quel piccolo spazio del parco egli sentiva che, come in un teatro all’aperto, si rappresentava la storia del rapporto della natura con l’uomo. Essa che, da un lato, veniva piegata, irreggimentata in percorsi, vialetti il cui nome richiamava le strade della cintura urbana che, da fuori, la delimitavano. Mentre, dall’altro lato, essa cercava di forzare, a partire dalle radici fino alle chiome più alte, ogni condizionamento. Ma la sensazione con la quale si sentiva maggiormente in fratellanza, aveva a che fare con quel senso di assedio che permeava quel vitale polmone fino a farlo sentire asfittico.

Quando arrivò al cancello trasse un respiro di sollievo. Un primo obiettivo era stato raggiunto. Ma, e poi? Ce ne sarebbero stati un secondo, un terzo?
In assenza di un pro-getto in avanti il suo pensiero scivolò all’indietro, all’indietro prossimo.
Come si sarebbe interpretato il suo andarsene brusco dall’ufficio lasciando il suo capo a blaterare a vuoto, la voce dondolante appesa al filo del telefono? Fece un sorrisino fra sé all’idea di come l’altro ci sarebbe rimasto nell’ accorgersi che aveva continuato a parlare senza che alcuno lo stesse ad ascoltare dall’altra parte! Ma fu soddisfazione di breve durata. Un atto di insubordinazione, ecco come poteva essere letto. Certo, lui avrebbe potuto anche accampare un momento di malessere, ragion per cui la comunicazione bruscamente interrotta avrebbe avuto un suo senso. Ma, se uno si sente male, chiama soccorso e non si trova poi a passeggiare nel parco! Già.
Nello stesso tempo era fuori dubbio che lui davvero si era sentito male. Eppure come qualificarlo, quel male. Male esistenziale? Residui dello spleen adolescenziale?

Ultimamente i rapporti all’interno dell’azienda non erano granché buoni. C’erano state delle tensioni legate a politiche aziendali che lui, in quanto addetto ai bilanci, non stava condividendo. In molti anni di lavoro la sua serietà e preparazione erano sempre stati un ottimo lasciapassare per giustificare scelte economiche di un certo rilievo o per scartarne altre. Oggi, invece, non era più così. Era come se la partita si giocasse contemporaneamente dentro e fuori campo, un luogo in gran parte ignoto i cui confini non erano più così definiti, per lui,  ma di cui doveva condividere, aprioristicamente, le condizioni che comunque lo reggevano. Si era venuta a creare una situazione abbastanza anomala. Quella sua parola finale che doveva costituire il placet perché ai vertici si potessero assumere determinate posizioni, non aveva più il peso che aveva avuto un tempo. Si sentiva espropriato della sua funzione: come chi passa da maggiordomo, che tiene in mano le chiavi e le sorti della casa, a cameriere. Anche se ‘primo cameriere’, certamente. Non gli era estranea però l’impressione che lo aspettassero al varco di una possibile mancanza per poterlo prendere in castagna e liquidarlo. Per quale motivo, poi! Onde evitare ciò, si impegnava fino allo stremo per non dargliela vinta. Ma, il dover essere sempre a posto, per dimostrare che erano loro a tendergli delle trappole, stava diventando un impegno molto debilitante.

Anche se di natura diversa rispetto ai pensieri di carattere più intimo che lo accompagnavano durante i tragitti giornalieri, anche questi, legati al lavoro,  ne avevano identica struttura: era come muoversi in un ginepraio e bisognava trovare una soluzione. Che fare? Al momento, che fare?

La frescura del parco, se gli aveva allentato la tensione, non aveva dato granché tregua alla sua inquietudine. Così, anche in questa circostanza, ricorse alle strategie note: darsi degli obiettivi minimi oppure, in mancanza di questi, che al momento non potevano essergli chiari, darsi dei piccoli compiti. Come, ad esempio, trovare una panchina. Oppure, dopo aver fatto un giro tortuoso, ritrovarsi al laghetto dei cigni. Ma erano obiettivi facilmente e prestamente raggiungibili, dato che, quel parco, lo conosceva a menadito.
Forse doveva darsi un obiettivo più complesso, che avesse in sé qualche cosa di impossibile, in modo da assorbirlo profondamente e far durare il più a lungo il senso della ricerca. In fondo, non era stato questo il modello che aveva sempre perseguito? Mai accontentarsi, mai fermarsi, c’è sempre di più e di meglio. E questo si poteva ben dimostrare! Solo che in quel modo aveva potuto gustare ben poco di quello che aveva raggiunto, sempre preso dalla ricerca del nuovo…
Ma non volle dare peso a quei pensieri devianti: era ancora troppo coinvolto nel suo bisogno di uscire dalla pesante sensazione di disagio.
Così gli balenò l’idea di voler trovare, lì nel parco, un ippocastano fiorito. Trovarlo, oltretutto, sarebbe stato anche un segno benevolo del destino, visto che l’unica cosa che gli ippocastani stavano dando in quel periodo di fine agosto erano frutti avvolti in ricci verdi, con le spine ancora imberbi e tènere, anche se lasciavano già presagire, da qualche fenditura, un filo di lucido marrone.
Alimentato da questa nuova tensione, si mise dunque alla ricerca. Gironzolò, per un poco, senza darsi una meta: il fazzoletto con cui si asciugava il sudore – anche lì si sentiva il caldo umido – era ormai diventato una cordicella zuppa. Si sentiva calmo, quella calma che deriva dalla sensazione di controllo sulla propria emotività: infatti i suoi pensieri martellanti si erano dati un po’ di pace. Non importava se stava già imbrunendo: in quella stagione la sera tiene la luce ancora un po’ a lungo anche se, sotto la radura, si nota poco la differenza, solo un senso maggiore di freddo.

Fu in quella calma che “lo” vide.
Era un ippocastano imponente che era stato colpito da un fulmine. La ferita della bruciatura si estendeva quasi in tutta la sua altezza risparmiando solo una fascia verde alla base. Sembrava diviso nel mezzo. Una parte, un tempo svettante e ora completamente bruciata, planava con i suoi rami secchi appoggiandosi perlopiù alle chiome delle piante vicine, e un’altra parte, un po’ più piccola ma ancora vitale, i cui minuscoli frutti attestavano il ritardo con cui era avvenuta la maturazione, cercava uno spazio fra le alte fronde. Ad una certa altezza, però poco distante da terra, aveva pollato un giovane ramo che si era fatto vittoriosamente strada verso l’alto e mostrava tenere foglie verdi e timidi fiori bianco/rossi al suo apice.
Quella anomala, e pur ricercata, visione lo colpì come una frustata improvvisa, un lampo sonoro che lo abbacinò e lo frastornò. Nella luce tuonante in cui “lo” vide, si vide.
L’impossibile possibilità che la natura gli aveva messo davanti agli occhi lo aveva fatto sentire stupido e inetto. Pensava, oh, sì, pensava, che il misurarsi con l’Assoluto, l’Irraggiungibile lo avrebbe, in un certo qual modo, reso partecipe di quell’aura di divino e consolato, in caso di fallimento, beh, non si vince facilmente con la divinità.
Invece, eccolo lì, se stesso, ancora e sempre piccolo, arrabbiato e inerme: e non poteva assolutamente permetterselo. Ma vide anche, contemporaneamente e con lucidità, come il seguire le sue ossessioni lo aveva portato ad uccidere, giorno dopo giorno, ogni forma vera di vita, anche se piccola e non grandiosa. E che adesso la cosa era andata così avanti che non poteva farci niente.
Era finito. Tutto era finito.
Ancora allucinato, trasse il fazzoletto zuppo dalla tasca e, con l’occhio fisso a quel miracolo della natura di cui non sapeva che farsene e che ora odiava, lentamente se lo strinse attorno al collo. Poi si sfilò la cintura dai pantaloni, se la passò tra collo e fazzoletto e con quel gancio si appese al giovane ramo e si lasciò cadere giù, a penzoloni.

La lettrice rimase sbalordita così tanto da quel finale inaspettato che chiuse il libro di botto lì, dov’era arrivata, al fondo della pagina. D’altronde, si sa, la morte porta con sé non solo la percezione dell’irreversibilità, ma anche l’esperienza tragica del taglio netto, oltre il quale c’è il vuoto, il nulla.
Così mise il dito indice a segnare il punto ultimo a cui era arrivata, ruotò il libro di racconti, ormai chiuso come una tagliola su quel dito, e chiese alla scrittrice: “Ma perché lo hai fatto morire? E’ stato un gesto di crudeltà il tuo. In fondo, aveva bisogno di un premio nel senso che la sua speranza, per quanto gestita in questo modo infantilmente onnipotente, gli aveva dato una qualche risposta”.
L’accusa di cinismo era evidente, anche se non conclamata. Erano amiche, certo, ma la lettrice, dopotutto, faceva fatica a concepire che la realtà nascondesse oscuri enigmi. Paradossalmente tendeva più a credere all’esistenza di forze magiche, potenti nella cattiveria e nella bontà, ma mai ciniche o sprezzanti. Il Fato è il Fato e la Volontà è la Volontà.
La lettrice intendeva che il Destino, forse, sarebbe stato benevolo nei confronti del protagonista, mentre la scrittrice, volontariamente lo aveva condotto alla brusca fine.
“Perché lo hai fatto morire?”.
Quello che risultava, invece, difficile per la scrittrice non aveva tanto a che fare con il rispondere a quelle domande, ammesso che quelle domande fossero pertinenti. La rèponse est le malheur de la question, asseriva Blanchot. Oltretutto, il protagonista del racconto se l’era andata a cercare. Al limite, lei si sarebbe posta altre domande: quando e come si supera la barriera tra la tolleranza verso ciò che accade e l’intolleranza, il non farcela più? Quali passaggi interiori, quali vicoli oscuri la mente attraversa con il suo carico emotivo quando si trova davanti ad uno sbarramento, come succede quando, percorrendo un labirinto, pensi di essere arrivato alla soluzione e invece una parete ti blocca lì?
Già. Però una soluzione “è” una fine. Uno sbarramento significa invece che si può ancora tornare indietro e cercare di nuovo.
E la scrittrice seguiva questi suoi percorsi mentali nel mentre, con l’altro orecchio, ascoltava i discorsi della lettrice. Quasi soprapensiero, prese il libro di racconti che la sua amica teneva ancora tra le mani, tolse il dito indice da pagina n. 93, e la girò.
La pagina 94 si apriva con poche righe. Ma fu come un fulmine a ciel sereno perché la sua apertura tradì ogni aspettativa: non era una pagina bianca né dava inizio a una nuova storia. Spaventata, come fosse alla presenza di un fantasma, la lettrice seguitò a leggere.

La stretta attorno al collo fu la prima forte sensazione che percepì. La percepì con rabbia e, si sa, la rabbia fa una strana alleanza con il dolore perché va a richiamarlo, sempre più, sempre di più. Ma ciò non gli impedì di percepire, in contemporanea, un leggero alito di fresco alle natiche, un fresco piacevole, quasi una carezza in quella calura. Carezza che scendeva giù fino alle caviglie e immediatamente realizzò. Le brache, tolta la cintura, erano miserabilmente cadute. No, anche umiliato, no. Era troppo!
Così si mise ad armeggiare febbrilmente, orientando la sua rabbia verso quella cintura sdrucita che non voleva saperne di sfilacciarsi. Non la cintura, ma fu il ramo a cedere a tutti quegli scomposti movimenti e si spezzò. Lui precipitò a terra.
A terra ora si stava muovendo, come in un parto arcaico, un groviglio scomposto di membra sanguinanti, di rami secchi, fiori ora strapazzati e sdrucite vesti: da lì qualche cosa avrebbe preso forma e si sarebbe svelata.
Sì, era stordito ma ancora in sensi per alzarsi e riassettarsi un po’.
Si incamminò da qualche parte e nessuno seppe, poi, quel che accadde di lui.

Rita 27.08.2010

Rita Simonitto ,Tra-colloultima modifica: 2012-09-08T11:07:55+02:00da mangano1
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