Francesco Zucconi,Berlusconi Travaglio Santoro.

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Berlusconi Travaglio Santoro.
Le scrivanie, il gioco dei quattro cantoni e le sconfitte della cultura mediatica
di Francesco Zucconi

12 gennaio 2013

Se ne dovrebbe parlare il meno possibile, si dovrebbe parlare altrimenti, eppure non se ne prescinde. È proprio questo il problema. Le prime pagine dei giornali, Facebook e Twitter, il bar sotto casa, sono tutti per lui e per la faccia tosta, la faccia del redivivo transformer che non t’aspetti più, ormai. La faccia di un’Italia che torna a identificarsi nell’immagine del proprio istrionismo, nelle barzellette dell’italiano furbo che fa le scarpe al tedesco, al francese e all’inglese. Un’Italia che rivendica, con orgoglio, le macerie culturali, civili ed economiche nelle quali si trova. Se Michele Santoro puntava all’audience ha ottenuto ciò che voleva. Ma l’innegabile pochezza della sua trasmissione di fronte a Silvio Berlusconi sta per la sconfitta della cultura mediatica italiana nei confronti del fenomeno politico e sociale che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni.

Al di là dello “scandalo” sulle regole del gioco pattuite in anticipo con l’ospite della trasmissione, l’errore di Santoro è stato quello di pensare di incalzare il Presidente costruendo una trasmissione attorno alla sua figura e alle sue contraddizioni. Una trasmissione ad personam, senza un tema di discussione che lo eccedesse. Senza un Landini che imponesse la voce e la forza del proprio racconto, fatto di maglie della salute a vista, o senza interlocutori capaci di portare una visione alternativa alla dialettica esausta e demenziale tra bersluconiani e antiberlusconiani.

Santoro ha messo in scena lo show come una questione privata: tra i giornalisti e la loro croce, la loro delizia. Ha pensato di poter smascherare definitivamente, in prima serata, le malefatte dell’uomo politico attraverso le domandine ben preparate (con accurato video PowerPoint) di Luisella Costamagna e di Giulia Innocenzi, oppure attraverso il rigore giornalistico-giudiziario di Marco Travaglio. Un Travaglio che, limitato dalle “regole del gioco”, ha finito per ricalcare lo schema della celebre intervista di Eugenio Scalfari a Giulio Andreotti. L’intervista, riprodotta nel film Il Divo da Paolo Sorrentino, alla quale il Senatore a vita si limitò a rispondere: “La situazione era un po’ più complessa”.

Santoro si è infine riservato, come sempre, il ruolo di capocomico, battibeccando alla pari con Berlusconi, condividendo il suo piacere per la battuta, riservandosi il diritto di alzare la voce, all’occorrenza, secondo la partitura già scritta dell’audience.

Ha cercato di essere più beffardo di Berlusconi, ma gli ha concesso, in tutta evidenza, troppo spazio, troppa libertà d’azione. Libertà che ha dato a Berlusconi la possibilità di sostituirsi a Santoro nel ruolo di conduttore, commentando con un sorriso o con un’evidente bugia (il livello è quello di un b-movie su Pinocchio e il grillo parlante) le critiche ricevute, nonché di rovesciare il tavolo degli imputati con Travaglio. Non soltanto ha negato l’evidenza e ha giocato con le sue maschere, ma ha costretto gli altri a scambiarsi di posto fino a lasciargli la scrivania. Li ha sfidati al gioco dei “quattro cantoni”.

Con la lettera a Travaglio, paccottiglia purissima, è riuscito a ribaltare a proprio vantaggio la sintassi dello show televisivo, il sistema fisso di posizioni che legittima e costruisce l’identità dei diversi attori della trasmissione. È mancato soltanto che salisse sopra la gru.

Da ospite scomodo, nella sua sedia al centro del finto cantiere di Servizio Pubblico, Berlusconi è diventato il regista di quello che era già, in partenza, un misero spettacolo, riacquisendo di fronte a nove milioni di persone il ruolo di narratore di un’Italia che si struttura all’insegna della brutta commedia. Contro la concorrenza debole, involontariamente connivente, di Santoro e contro il racconto della verità di Travaglio, la capacità narrativa di Berlusconi, la sua potenza del falso, è ancora al di sopra di qualsiasi burattinaio che lo combatta sul suo stesso campo discorsivo.

Prestando magari un po’ meno attenzione all’audience, per fare del “servizio pubblico” sarebbe forse bastato ricordare una frase di Nanni Moretti nel Caimano, l’unico film a essersi posto il problema dell’immaginario berlusconiano al di là della sua persona: “Sì, grazie, però un film su Berlusconi proprio no! Tutti sanno già tutto su Berlusconi. Chi voleva sapere, sa! Cosa vuoi informare di più…”.
Si poteva non guardare la trasmissione di Santoro: in molti lo hanno fatto. Si poteva iniziare a guardarla e poi mettere un film, cambiare canale.

Ma è forse Santoro (con i suoi centomila) che doveva, prima di tutti, cambiare canale. Un servizio finalmente pubblico avrebbe potuto preparare una trasmissione nella quale – anziché riproporre in modo triviale le brutte figure in Europa e le colpe di Berlusconi – elaborare un’immagine dell’Italia capace di sottrarsi alle forme della narrazione che lo hanno legittimato per decenni. In quella trasmissione, il linguaggio berlusconiano sarebbe suonato distante e lontano dalle tensioni che attraversano il Paese, come effettivamente è. Non sarebbe stato neppure compreso dagli ascoltatori, non avrebbe attecchito. Anziché attaccarlo e processarlo in modo blando – come se la verità fosse sufficiente a far valere se stessa – si trattava di esibirlo nella sua condizione di ospite di una società che non può più permettersi la sua commedia e che ha definitivamente cambiato genere. Ospite di se stesso, del proprio autismo politico e culturale.

Mentre si affermano nel Paese nuove narrazioni autoritarie, mentre l’efficacia persuasiva dei dati economici e statistici di una professoralità cinica e auratica si elevano a paradigma di governo, Santoro continua a rincorrere Berlusconi nel suo (sotto)bosco narrativo e lo resuscita. Un bosco dove non ci sono mai stati funghi da raccogliere e non è possibile perdersi ancora.

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Francesco Zucconi,Berlusconi Travaglio Santoro.ultima modifica: 2013-01-13T18:19:01+01:00da mangano1
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