Corrado Bevilacqua, Il futuro del capitalismo

Corrado Bevvilacqua
Il futuro del capitalismo
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Tratto dal blog Belfagor
corradobevilacqua.wordpress.com

Sono trascorsi sett’anni da quando il grande economista austriaco Joseph Schumpeter dette alle stampe Capitalismo, socialismo, democrazia.  Joseph Alois Schumpeter nacque nel 1883 a Triesch, in Moravia, Repubblica Ceca, allora parte dell’Impero Austro Ungarico, da una famiglia appartenente all’etnia tedesca dei Sudeti: con essa si spostò a Graz dopo la morte del padre e, in seguito, a Vienna, dove la madre si era stabilita con il nuovo marito. Nella capitale dell’Impero, Schumpeter studiò presso la facoltà di Diritto, dove si specializzò in economia sotto la guida di Friedrich von Wieser ed Eugen von Böhm-Bawerk. Dopo la laurea ed una breve esperienza professionale come avvocato al Cairo, Schumpeter fece ritorno in patria, ottenendo l’incarico di professore d’economia all’Università di Czernowitz, città che attualmente si trova in Ucraina. Insegnò poi a Graz (1911 – 1918). Dopo la “grande guerra”, fece parte di una commissione per lo studio delle socializzazioni istituita dalla repubblica di Weimar. Nel 1919, Schumpeter rivestì, seppur per pochi mesi, la carica di ministro delle finanze nel governo della giovane repubblica austriaca. In seguito, tenne la presidenza della banca Biederman, fino al 1924, anno in cui riprese la docenza universitaria, questa volta a Bonn. Nel 1932 si trasferì negli Stati Uniti, dove insegnò ad Harvard fino a che la morte improvvisa che avvenne, l’8 gennaio 1950.
Negli Stati Uniti fu presidente della Società Econometrica e dell’American Economic Association. Le sue lezioni universitarie vennero considerate troppo difficili per la media degli universitari, troppo dense di dati e nozioni e, quindi, secondo i critici, non fu un buon docente per la maggioranza dei suoi studenti. Alcuni allievi, al contrario, costruirono con lui un rapporto saldissimo e lo considerarono sempre un punto di riferimento. Tra questi ultimi, Paul Samuelson e Paolo Sylos Labini.

L’apporto più originale e caratterizzante dato da Schumpeter alla teoria economica è, probabilmente, costituito dalla sua concezione dello sviluppo. Nella sua opera prima, L’essenza e i contenuti fondamentali dell’economia teorica (1908), egli aveva sostenuto l’affinità dell’economia alle scienze naturali, sostenendo che lo studio economico dovesse essere tenuto ben separato da quello delle scienze sociali. Seguiva così le concezioni di Leon Walras, l’economista da lui più stimato, padre della prima formulazione completa della teoria di equilibrio economico generale, secondo cui il sistema economico si adattava ai fattori esogeni (istituzioni, evoluzioni politiche, eventi storici, ecc.) ed endogeni (preferenze dei consumatori, sviluppo tecnico, ecc.), tendendo all’equilibrio. Ma Schumpeter si spinse oltre.

Con Teoria dello sviluppo economico (1911), l’economista austriaco aggiunse a questo approccio “statico”, un approccio “dinamico”, adatto a spiegare la realtà dello sviluppo. In un’ipotetica economia basata sul modello statico, i beni vengono prodotti e venduti secondo la mutevole domanda dei consumatori ed il ciclo economico assorbe le influenze della storia, ma i prodotti scambiati rimangono sempre gli stessi, le strutture economiche non mutano, e così via. Schumpeter fa notare che questo modello di economia non corrisponde alla realtà ed egli lo supera con il già menzionato approccio “dinamico”, in cui un nuovo soggetto, l’imprenditore, introduce nuovi prodotti, sfrutta le innovazioni tecnologiche, apre nuovi mercati, cambia le modalità organizzative della produzione. L’imprenditore può fare questo in quanto dispone dei capitali messigli a disposizione dalle banche, che remunera con l’interesse, ossia una parte del profitto aggiuntivo realizzato grazie all’innovazione.

La teoria delle innovazioni consente a Schumpeter di spiegare l’alternarsi, nel ciclo economico, di fasi espansive e recessive. Le innovazioni, infatti, non vengono introdotte in misura costante, ma si concentrano in alcuni periodi di tempo –  che, per questo, sono caratterizzati da una forte espansione – a cui seguono le recessioni, in cui l’economia rientra nell’equilibrio di flusso circolare. Un equilibrio però, non uguale a quello precedente, ma mutato dall’innovazione.

Abbandonata nel 1932, anche se non per motivi eminentemente politici, una Germania che stava per precipitare nella barbarie nazista (il 30 gennaio 1933 Hitler diverrà cancelliere) a favore degli Stati Uniti e dell’Università di Harvard, Schumpeter continuò ad affinare le sue teorie anche nella nuova sede americana.

Del 1939 è l’ uscita di Cicli Economici, in egli perfeziona i concetti già espressi nella Teoria dello sviluppo economico. Il ciclo economico si scompone così in diversi momenti (espansione, recessione, depressione, ripresa), che operano su diverse scale temporali, le cosiddette “onde”, a seconda dell’importanza delle innovazioni introdotte. Così le innovazioni davvero epocali (macchina a vapore, petrolio…) si susseguono a cicli particolarmente lunghi, intorno ai cinquanta anni (cicli Kondratieff), quelle di valore intermedio esauriscono il ciclo in tempi minori (cicli Juglar) e così a discendere, fino a quelle di valore minimo (cicli Kitchin).

Il 1942 è l’anno di Capitalismo, socialismo, democrazia. Si tratta di un’opera in cui convivono diversi ambiti: quello economico, quello politico e sociologico. Schumpeter esordisce ponendo i confini tra la sua teoria e quella marxiana. Per Karl Marx, come per l’economista austriaco, il capitalismo si sviluppa in fasi cicliche per fattori interni (peraltro, diversi: il plusvalore per Marx, l’innovazione per Schumpeter) e, per entrambi, è destinato ad essere sostituito dal socialismo. Schumpeter rifiuta però la concezione di Marx delle istituzioni sociali come mere sovrastrutture dei rapporti di produzione e, soprattutto, non concorda con il filosofo di Treviri circa le cause per cui il capitalismo entrerà in crisi irreversibile. Per Schumpeter sarà, infatti, proprio il successo del capitalismo a renderne inevitabile il declino. Con il processo di distruzione creatrice che la caratterizza, l’economia borghese sostituisce i vecchi modi di produrre e pensare, promovendo lo sviluppo, ma distrugge anche i valori tipici dell’ancien regime, importante supporto alla stabilità. Soprattutto – e qui si giunge alla geniale intuizione di Schumpeter – mentre nella grande impresa capitalistica il ruolo dell’imprenditore, creativo e diretto all’innovazione, verrà sempre più sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all’immobilismo dei managers, nella società si affermeranno, ad opera degli intellettuali, valori contrari allo sviluppo capitalistico, facendo sì che i capitalisti stessi prima si vergognino del proprio ruolo ed, infine, rinuncino ad esso. A quel punto, una qualsiasi forma di socialismo sarà inevitabile sbocco al capitalismo monopolistico ed alla sua eutanasia. Il passaggio al socialismo non avverrà, infatti, a mezzo di una rivoluzione violenta, come profetizzato dai marxisti e realizzato dai bolscevichi, ma con un processo graduale, per vie parlamentari – ogni accelerazione rivoluzionaria, come quella sovietica, avrebbe unicamente causato innumerevoli lutti – e darà vita ad un sistema socialista compatibile con la democrazia, in cui si vedrà la concorrenza di gruppi corporativi, non più regolata dal mercato, bensì dallo Stato. A proposito di quest’opera, Schumpeter dichiarò non aver inteso scrivere un manifesto politico (era, del resto, un conservatore e non nutriva alcuna simpatia per il socialismo), ma semplicemente un’analisi sociale. In sintonia con Marx su molti punti, Schumpeter sottolinea l’importanza dello spirito innovativo in campo economico, che è in grado di offrire benessere e ottenere il profitto come corrispettivo. L’economia si svolge per fasi: a quella prospera segue la fase di flessione e quindi quella di ripresa. Per Schumpeter il capitalismo, dopo aver distrutto tutte le altre formae mentis, alla fine distruggerà anche se stesso.

Il processo capitalistico tende alla eliminazione delle piccole e medie aziende, in un processo che lo porterà a negare se stesso: “Il processo capitalistico, sostituendo i pacchetti di azioni ai muri e alle macchine dello stabilimento, svuota il concetto di proprietà, ne indebolisce la presa un tempo cosí forte – la presa nel senso del diritto legale e della capacità reale di trasformare ciò che si ha in ciò che si vuole, sia nel senso che il possessore del titolo è deciso a combattere, economicamente, fisicamente e politicamente per la “propria” azienda e per il suo controllo e a morire, se necessario, sui suoi gradini. L’evaporazione di quella che possiamo chiamare la sostanza materiale della proprietà – e la sua realtà visibile e tangibile – incide non solo sull’atteggiamento degli azionisti, ma anche su quello degli operai e del pubblico in genere. La proprietà smaterializzata, privata della propria funzione, e assenteista non esercita piú il fascino tipico della forma ancora vitale della proprietà. Un giorno non ci sarà piú nessuno al quale veramente prema di difenderla – nessuno all’interno, e nessuno all’esterno dei confini dell’azienda-gigante” [Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Libri].

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Ostile allo statalismo, scrisse Rudolf Hilferding nel 1910 in Das Finanzkapital, la borghesia fu in lotta contro il mercantilismo economico e l’assolutismo politico. Il liberalismo era allora realmente distruttivo, implicava di fatto il sovvertimento del potere statale e la rottura di antichi vincoli. Tutto il sistema dei rapporti gerarchici dello Stato – faticosamente costruito – ed i legami corporativi cittadini con la loro complicata sovrastruttura di privilegi e monopoli, vennero spazzati via. La vittoria del liberalismo provocò un immediato e considerevole indebolimento dell’autorità dello Stato. La vita economica avrebbe dovuto essere – almeno in teoria – definitivamente sottratta al controllo dello Stato, che doveva limitarsi a garantire la sicurezza e l’uguaglianza borghesi.

Il liberalismo diveniva così la negazione pura e semplice dello Stato del primo periodo mercantilistico del capitalismo, il quale, in principio, voleva regolare tutto, ed era anche in netto contrasto con tutti i sistemi socialistici, i quali, non in senso distruttivo, ma costruttivo, vogliono porre al posto dell’anarchia e della libertà della concorrenza un sistema consapevolmente regolato, creando una società che organizzi la propria vita economica e quindi anche se stessa. È perciò appena naturale che i princìpi liberali si siano realizzati più precocemente in Inghilterra, dove erano sostenuti da una borghesia tutta per il libero scambio, una borghesia che, anche durante i periodi di più acuto contrasto con il proletariato, si lasciò spingere ben raramente a chiedere l’intervento dello Stato e, comunque, lo fece solo per brevi periodi. Anche in Inghilterra, però, la realizzazione del liberalismo urtò non solo contro la resistenza della vecchia aristocrazia che appoggiava una politica protezionistica ed era, quindi, recisamente contraria ai princìpi liberali, ma anche, in parte, contro quella del capitale commerciale, e del capitale bancario che aspiravano ad investimenti all’estero e pretendevano soprattutto il mantenimento dell’egemonia sui mari, pretesa, questa, che veniva avanzata e con estrema energia anche dagli ambienti interessati alle colonie. Sul continente la concezione liberale dello Stato riuscì ad imporsi solo parzialmente e con grandi compromessi. Abbiamo qui un tipico esempio di contraddizione tra ideologia e realtà: mentre infatti i continentali, in ogni campo della vita politica e spirituale, con acume e rigida consequenzialità, riuscirono a trarre tutte le possibili conseguenze teoriche dai princìpi liberali a cui i Francesi avevano impresso la classica configurazione (giacché lo sviluppo più tardo li aveva forniti di strumenti di indagine scientifica più perfezionati di quelli inglesi) elaborando perciò sulla base della filosofia razionalistica una formulazione del liberalismo ben più vasta ed esauriente di quella inglese, che rimase chiusa entro l’ambito ristretto della scienza economica, sul piano pratico invece le realizzazioni politiche furono sul continente molto meno radicali di quelle inglesi.

Del resto, non è neppure pensabile che proprio la borghesia continentale – che aveva bisogno dello Stato come della più potente leva della propria ascesa, e che non intendeva, quindi, eliminare lo Stato ma trasformarlo da ostacolo a veicolo del proprio sviluppo – fosse in grado di procedere all’esautoramento del potere statale richiesto dal liberalismo. Ciò di cui la borghesia continentale aveva soprattutto bisogno era la eliminazione delle più piccole formazioni statali, la sostituzione del piccolo Stato impotente con lo strapotente Stato unitario. L’esigenza della creazione dello Stato nazionale spingeva la borghesia su posizioni favorevoli alla conservazione dello Stato. Nel continente, poi, non era in gioco solo il dominio sul mare, ma anche il dominio sulla terraferma. L’esercito moderno ha, peraltro, un’importanza ben maggiore della flotta, nel determinare i rapporti tra la società civile e il potere dello Stato.

Quest’ultimo, una volta caduto in mane a coloro che possono disporre dell’esercito, – e ciò avviene inevitabilmente ove esista un forte esercito di terra – assume una completa autonomia. Il servizio militare obbligatorio, che ha armato le masse, doveva d’altronde convincere ben presto la borghesia della necessità di imporre all’esercito (che altrimenti sarebbe potuto divenire una minaccia al suo potere) un’organizzazione rigidamente gerarchica creando una casta di ufficiali capace di funzionare da docile strumento in mano allo Stato. Mentre da un lato quindi in paesi come la Germania, l’Austria e l’Italia, il liberalismo non riusciva a realizzare le proprie premesse teoriche riguardanti lo Stato, esso vedeva dall’altro bloccarsi il proprio sviluppo in tal senso persino in Francia, giacché la borghesia francese, per ragioni di politica commerciale, non poteva rinunciare allo Stato. Ciò anche perché era inevitabile che la vittoria della rivoluzione finisse col complicarsi in una guerra su due fronti: e infatti, da un lato le conquiste rivoluzionarie dovevano essere difese contro il feudalesimo del continente, mentre, dall’altro, la creazione di un nuovo Stato capitalistico moderno minacciava l’antica posizione egemonica dell’Inghilterra sul mercato mondiale. La Francia dovette così ingaggiare simultaneamente una lotta contro il continente ed una contro l’Inghilterra, per l’egemonia sul mercato mondiale. La sconfitta della Francia rafforzò in Inghilterra la posizione della proprietà fondiaria, del capitale commerciale, bancario e coloniale, e con ciò il potere statale, a scapito del capitale industriale, ritardando così l’inizio della definitiva egemonia del capitale industriale inglese, e la vittoria del libero scambio. La vittoria inglese, inoltre, spinse il capitale industriale europeo su posizioni favorevoli al protezionismo, frustrando completamente gli sforzi dei sostenitori del libero scambio, e creando, al tempo stesso, quelle condizioni che erano destinate a favorire, sul continente, il più rapido sviluppo del capitale finanziario. L’adeguazione dell’ideologia e della concezione dello Stato borghese alle esigenze del capitale finanziario trovò perciò in Europa ostacoli tutt’altro che inamovibili. Il fatto poi, che l’unificazione della Germania fosse avvenuta in senso controrivoluzionario, non poté non rafforzare straordinariamente, nella coscienza del popolo tedesco il rispetto per lo Stato, mentre in Francia la disfatta militare fece sì che tutte le energie si concentrassero sul problema della ricostituzione del potere statale. Le esigenze del capitale finanziario favorirono in tal modo la nascita e la diffusione di elementi ideologici che il capitale finanziario poté poi facilmente utilizzare per elaborare una nuova ideologia adeguata ai propri interessi. Quest’ultima è però in netto contrasto con quella del liberalismo. Il capitale finanziario non chiede libertà, ma dominio: non tiene in alcun conto l’autonomia del singolo capitalista, anzi ne pretende l’assoggettamento; aborrisce l’anarchia della concorrenza e promuove l’organizzazione solo per poter condurre la concorrenza in ambiti sempre più vasti. Per riuscire in ciò, per poter conservare ed aumentare il proprio prepotere, esso ha però bisogno dello Stato il quale, con la sua politica doganale, deve garantirgli il mercato interno e facilitargli la conquista di quelli esteri. Il capitale finanziario ha bisogno di uno Stato politicamente forte che, nei suoi atti di politica commerciale, non sia costretto ad usare alcun riguardo agli opposti interessi di altri Stati.

È quindi necessario uno Stato forte, capace di far valere i suoi interessi finanziari all’estero e di servirsi della propria potenza per estorcere agli Stati meno potenti vantaggiosi trattati di fornitura e favorevoli transazioni commerciali; uno Stato che possa spingersi in ogni parte del globo per fare del mondo intero zona di investimento del proprio capitale finanziario; uno Stato, infine, sufficientemente forte per condurre una politica espansionistica e per potersi incorporare nuove colonie. Mentre il liberalismo era contrario ad una politica di forza dello Stato e voleva garantirsi il controllo sugli strumenti del potere dell’aristocrazia e della burocrazia, cercando di sottrarre a queste ultime gli organi dello Stato, ora la politica di forza diviene una precisa ed incondizionata richiesta del capitalismo finanziario; ciò avviene comunque anche senza tener conto del fatto che le esigenze dell’esercito e della flotta assicurano proprio ai più forti settori capitalistici uno smercio imponente con utili per lo più monopolistici.

L’aspirazione ad una politica espansionistica rivoluziona però anche tutta la “Weltanschauung” della borghesia, che allontana definitivamente gli ideali pacifisti ed umanitari. I vecchi liberoscambisti credevano nel libero scambio non solo come la politica economica più giusta, ma anche come il presupposto della nascita di un’era di pace. Il capitale finanziario ha perduto da tempo questa speranza. Esso non si illude più che gli interessi capitalistici possano venire armonizzati, ma sa che la lotta concorrenziale si trasformerà sempre più in una lotta per la potenza politica. L’ideale della libertà di scambio dilegua; al posto dell’umanitarismo subentra l’esaltazione della grandezza e della potenza dello Stato. Lo Stato moderno è sorto come realizzazione dello sforzo unitario della nazione. Il pensiero nazionale che ha toccato i suoi limiti naturali nel costituirsi della nazione a fondamento dello Stato (giacché in questo modo esso ha riconosciuto a tutte le nazioni il diritto di creare proprie formazioni statali facendo coincidere i confini dello Stato con i confini naturali della nazione) viene ora soppiantato dall’ideale dell’esaltazione della propria nazione al di sopra delle altre. [Si veda: Otto BAUER. “Marx-Studien” II, par. 30, pp. 491 e sgg. Der Imperialismus un das Nationalitätsprinzip (L’imperialismo e il principio di nazionalità)]

La massima aspirazione è ora quella di assicurare alla propria nazione il dominio sul mondo, un’aspirazione non meno illimitata di quella del capitale al profitto, da cui anzi scaturisce. Il capitale parte alla conquista del mondo e ad ogni nuova conquista esso non fa che toccare nuovi confini che sarà spinto a valicare. Questa espansione incessante è ora una inderogabile necessità economica, perché rimanere indietro significa caduta del profitto del capitale finanziario, diminuzione della sua capacità concorrenziale e, come ultimo effetto, subordinazione del territorio economico rimasto più piccolo rispetto a quello divenuto più esteso. Questa aspirazione espansionistica causata da esigenze economiche, viene giustificata ideologicamente mediante uno strabiliante capovolgimento dell’idealità nazionale, la quale ora non riconosce più ad ogni nazione il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza politica e non esprime più il dogma democratico dell’uguaglianza sul piano internazionale di tutto ciò che è umano. Al contrario, le aspirazioni economiche del monopolio si rispecchiano nella posizione di privilegio che esso pretende per la propria nazione. I privilegi appaiono più di ogni altra cosa come frutto di predestinazione. Poiché l’assoggettamento di nazioni straniere avviene con la violenza e, quindi, in un modo molto naturalistico, sembra che la nazione dominante debba questa sua egemonia alle sue specifiche caratteristiche naturali, e cioè alle sue qualità razziali. L’ideologia della razza, quindi, non è altro che il tentativo di fondare scientificamente, con un camuffamento biologico, la volontà di potenza del capitale finanziario che intende in tal modo presentare i suoi movimenti come ineluttabili e condizionati da leggi naturali. Al posto dell’ideale egualitario democratico subentra ora un ideale egemonico oligarchico. Laddove sul terreno della politica estera, questo ideale ha come oggetto, nell’apparenza, l’intera nazione, su quello della politica interna esso diviene accettazione ed accentuazione del punto di vista padronale che tenta di subordinare al proprio quello della classe operaia.

La forza crescente dei lavoratori stimola al contempo il capitale a rafforzare ulteriormente il potere statale per garantirsi contro le richieste dei proletari. L’ideologia dell’imperialismo sorge quindi come superamento della vecchia ideologia liberale. Essa si fa beffe dell’ingenuità di quest’ultima. È pura illusione credere ad un’armonia di interessi nel mondo della lotta capitalistica, dove a decidere è solo la superiorità delle armi; illusione attendere il regno della pace perenne e predicare un diritto dei popoli, quando è solo la potenza a decidere della loro sorte; follia voler trasportare al di là dei confini dello Stato il sistema dei rapporti giuridici che regolano la vita al suo interno. Stupida e irresponsabile seccatrice davvero, questa infatuazione umanitaria che viene a disturbare gli affari e che, dopo aver fatto dei lavoratori un problema, ha scoperto, all’interno dello Stato, le riforme sociali e nelle colonie vuole eliminare la schiavitù contrattuale, unica possibilità di un razionale sfruttamento! Quello di una giustizia immutabile è un bel regno, ma con l’etica non si costruiscono certo ferrovie. Come fare a conquistare il mondo, se si vuole prima aspettare che la concorrenza si converta ai nuovi ideali?

L’imperialismo dissolve tutte queste illusioni solo per sostituire all’ormai sbiadito ideale della borghesia una nuova, grande illusione. Freddo e positivo finché si tratta di considerare il reale conflitto di interessi dei gruppi capitalistici e di concepire tutta la politica come affare privato di monopoli che reciprocamente si combattono, ma che possono anche unificarsi, esso diviene però improvvisamente passionale ed estatico quando si mette a parlare del proprio ideale. L’imperialista non vuole nulla per sé: non è però un illusionista o un sognatore per risolvere in uno scialbo concetto di umanità la variopinta realtà di un inestricabile groviglio di razze nei più vari gradi e con le più diverse possibilità di sviluppo. Egli osserva il guazzabuglio dei popoli con occhio duro e acuto e al di sopra di tutti fissa la propria nazione. La nazione è reale: essa si invera nello Stato che diviene sempre più potente e più grande: per farla assurgere ai più alti fasti nessuno sforzo è troppo gravoso. L’abbandono dell’interesse particolaristico per un più alto interesse comune che ogni ideologia sociale deve includere per essere vitale è con ciò consumato; lo Stato, un tempo estraneo al popolo, e la nazione stessa, formano ora una salda unità di cui l’idea nazionale posta al servizio della politica è la forza propulsiva. I contrasti tra le classi sono svaniti e superati a favore di un ideale della collettività. Al posto della lotta delle classi, pericolosa e senza via d’uscita per i padroni, subentra l’azione comune della nazione tutta, tesa alla conquista della grandezza nazionale.

Tale ideale, che sembra costituire un nuovo legame capace di tenere insieme la dilacerata società borghese, è destinato a riscuotere consensi entusiastici, perché nel frattempo il processo di disgregazione della società borghese è andato ulteriormente aggravandosi.

 
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Per lungo tempo, la sinistra si divise fra riformisti, revisionisti, rivoluzionari. All’origine delle loro divisioni stava la loro diversa idea sul futuro del capitalismo: crollo o sviluppo? Si aprì un dibattito al quale parteciparono tutti i più importanti leaders della sinistra [L. Colletti, C. Napoleoni Il futuro del capitalismo: crollo o sviluppo?, Laterza. L. Colletti Introduzione a E. Bernstein I presupposti del socialismo e i fondamenti della socialdemocazia, Laterza. G. Pietranera Rudolf Hilferding e il destino della socialdemocrazia tedesca, in R. Hilferding Il capitale finanziario, Feltrinelli, G. Procacci Introduzione a K. Kaustky La questione agraria, Feltrinelli, F. Sternberg Il socialismo tedesco da Bebel a Kaustsky, Editori Riuniti, G. Haupt La Seconda Internazionale da Kautsky a Lenin, Einaudi, Id. La Seconda Internazionale, La nuova Italia, G.D.H. Cole Storia del socialismo, Laterza, Storia del marxismo, v.  II. Einaudi, V. Vraniki Storia del marxismo, Editori Riuniti].

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“Il vecchio capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la borsa suo regolatore indispensabile, se ne va a gambe all’aria, soppiantato da un nuovo capitalismo, nel suo stadio imperialistico, che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopolio. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio. Nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Allo stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Pertanto si giunge a una sempre maggior fusione, a una simbiosi (Bukharin), del capitale bancario col capitale industriale. L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, anziché alla libertà” [Lenin].

Marx ha mostrato che una parte, e una parte in assoluto crescente, del capitale sociale complessivo deve sempre rimanere nella forma di denaro, come capitale monetario, per la continuità del processo di riproduzione. Accanto a ciò egli distingue ancora il capitale merce e il capitale produttivo, e parla di tre forme, tre cicli, tre figure del processo ciclico. Tutte e tre le forme del capitale sono necessarie e si condizionano reciprocamente. Poiché la grandezza del capitale monetario, come anche del capitale merce e del capitale produttivo, non è determinabile arbitrariamente, il capitale sociale complessivo deve essere ripartito in proporzioni determinate in tutte e tre le forme di capitale. “La grandezza del capitale esistente condiziona il volume del processo di produzione, e questo condiziona il volume del capitale merce e del capitale monetario, in quanto essi operano accanto al processo di produzione” [Marx].

Il limite per l’accumulazione di capitale subentrerebbe, secondo Marx, “non appena il capitale fosse accresciuto in una proporzione tale, rispetto alla popolazione lavoratrice, che né il tempo di lavoro assoluto fornito da questa popolazione possa essere prolungato, né il tempo di pluslavoro relativo possa essere esteso, quando dunque il capitale accresciuto producesse una massa di plusvalore soltanto equivalente o anche inferiore a quella prodotta prima del suo accrescimento”. Sotto questi presupposti è dato per l’accumulazione un limite massimo determinabile esattamente. L’ulteriore prosecuzione dell’accumulazione non avrebbe alcun senso, poiché il capitale più grande offrirebbe la stessa massa di plusvalore che in precedenza. La prosecuzione dell’accumulazione dovrebbe condurre a una svalutazione del capitale e a una forte caduta del tasso di profitto. “Nella realtà le cose si svolgerebbero in modo tale che una parte del capitale resterebbe interamente o parzialmente inattiva, mentre l’altra parte verrebbe valorizzata a un tasso di profitto ridotto in séguito alla pressione del capitale totalmente o parzialmente inattivo” [Marx].

Non il capitale monetario, ma il capitale merce è emerso dal ciclo del capitale industriale, il che non significa nient’altro se non l’esistenza di una sovraproduzione del capitale merce che è invendibile e non può perciò ritrovare la via della sfera della produzione. Ben presto dal meccanismo interno dell’accumulazione deve necessariamente originarsi una sovraccumulazione, e perciò la svolta verso la crisi. Ciò non significa altro se non che, durante la crisi, la funzione di valorizzazione del capitale è messa a dura prova; un capitale che non viene valorizzato è però un capitale eccedente, sovraprodotto. Sovraproduzione di merci e sovraproduzione di capitale sono “il medesimo fenomeno. In che consiste la bella distinzione tra sovrabbondanza di capitale e sovraproduzione di merci? I produttori non si contrappongono come semplici possessori di merci, ma come capitalisti. Sovraproduzione di capitale, non di singole merci, è perciò semplicemente sovraccumulazione di capitale, una sovraproduzione che non colpisce l’una o l’altra, o solo alcune importanti sfere della produzione, ma diviene assoluta nella sua portata, in quanto si estende a tutti i rami della produzione” [Marx]. Una sovraccumulazione di capitale per la quale manca la possibilità di valorizzazione. La valorizzazione diviene insufficiente per essere portata avanti col ritmo fino ad allora sostenuto. Diventando sempre più esteso il capitale costante, la massa del plusvalore non può essere accresciuta. Subentra qui il momento che Marx ha presente quando dice “che viene accumulato più capitale di quel che si può investire nella produzione, donde il prestito all’estero, ecc.”. Da questo momento in poi l’accumulazione, cioè la ritrasformazione di una parte del profitto in capitale addizionale, trova ostacoli. “Se mancano le sfere di investimento, e si ha di conseguenza una saturazione dei rami di produzione e un’eccessiva offerta di capitale da prestito, questa pletora di capitale monetario da prestito attesta semplicemente i limiti della produzione capitalistica” [Marx].

L’accumulazione si arresta necessariamente. Dunque, invece di accumulare il plusvalore, cioè di accrescere il capitale, questo viene reso disponibile per l’esportazione. La dimostrazione della necessità dell’esportazione di capitale e delle condizioni sotto le quali essa si origina costituisce il nucleo vero e proprio del problema (aver mostrato questo è il merito della ricerca marxiana). Da questo momento in poi si attua gradualmente una trasformazione strutturale del capitalismo. Quanto più la classe imprenditoriale non ha altra risorsa che l’esportazione di capitale, tanto più la borghesia “si allontana dall’attività produttiva, diventa sempre più, come ai suoi tempi la nobiltà, una classe che semplicemente intasca rendite” [Engels]. Il pensiero di fondo di questa concezione è la contraddizione immanente tra la capacità illimitata di espansione della forza produttiva e la limitata possibilità di valorizzazione del capitale sovraccumulato, un limite immanente della produzione – osserva Marx – che viene costantemente spezzato dal sistema creditizio. Il limite della sovraccumulazione, della valorizzazione insufficiente, viene rotto dal credito, ossia dall’esportazione di capitale e dal plusvalore addizionale che viene conseguito in questo modo. In questo senso l’esportazione di capitale è necessaria e caratteristica della fase avanzata dell’accumulazione di capitale – la fase imperialistica del capitale monopolistico finanziario. “Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci. Per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale” [Lenin]. Prendendo le mosse da qui, non si presenta alcuna difficoltà per spiegare le situazioni alterne e i movimenti ondulatori, periodicamente ricorrenti all’interno della sfera produttiva, anche sugli altri due “mercati” (mercato monetario e speculazione di borsa). Infatti i movimenti su questi mercati dipendono da ciò che avviene nella sfera della produzione.

A partire dalla sfera della produzione, grazie al funzionamento immanente dell’accumulazione capitalistica, e per la necessità del suo andamento ciclico, questo stesso movimento si propaga poi dalla sfera della produzione alla sfera della circolazione (mercato finanziario, borsa, titoli). Quella rappresenta una variabile indipendente, questa una variabile dipendente. In questo modo si è chiusa la catena delle cause. I capitali inattivi nella depressione devono trovare un investimento redditizio proprio in un periodo di ristagno. Da qui si deduce l’importanza della speculazione per il capitalismo. Con il progredire dell’accumulazione di capitale e con la crescita del numero dei grandi e piccoli capitalisti, la necessità dell’estensione della speculazione in borsa si presenta a grandi masse di capitalisti, dato che la massa del capitale inattivo che cerca investimento nella crisi e nella depressione diventa sempre più grande. La speculazione è un mezzo per supplire all’insufficiente valorizzazione dell’attività produttiva con profitti che affluiscono dalle perdite sul corso delle azioni di estese masse di piccoli capitalisti – la cosiddetta “mano debole” – ed è quindi un potente mezzo per la concentrazione del capitale monetario. Fa parte dell’essenza della speculazione di borsa che debbano esistere due gruppi di persone, i membri di borsa, adepti e competenti, e la gran massa di coloro che sono fuori, il “pubblico”, che ha bisogno di parecchio tempo prima di attuare le sue operazioni sul mercato.

La speculazione può festeggiare le sue grandi orge laddove, con il passaggio della proprietà dalla forma individuale alla forma della società per azioni, vengono gettati sul mercato immensi patrimoni accumulati da molti decenni che cadono vittime della borsa. I titoli industriali si svalorizzano poiché è anche possibile che, con la perturbazione del processo di riproduzione, “la valorizzazione del capitale reale che essi rappresentano subisca eventualmente un contraccolpo” [Marx]. La caduta del corso dei titoli però è il pretesto per il loro acquisto in massa da parte degli speculatori di borsa. Così la speculazione, il fermento della borsa, comincia con la depressione, quando si origina una sovraccumulazione, una mancanza di occasioni d’investimento, in breve un capitale disponibile. L’“investimento” in borsa, però, non crea né valore né plusvalore. Esso ha per scopo soltanto un aumento delle quotazioni e il trasferimento di capitali (quando il corso dei titoli comincia di nuovo ad aumentare). Appena la tempesta è passata questi titoli crescono di nuovo al loro livello di un tempo – dice Marx – cosicché il loro deprezzamento ha agito durante la crisi come mezzo efficace per l’accentramento dei patrimoni monetari. La centralizzazione del patrimonio finanziario attraverso l’aumento delle quotazioni di questi titoli viene ancora accelerata dal fatto che, mostrando alla lunga una tendenza all’aumento, “questa ricchezza immaginaria cresce nel processo di sviluppo della produzione capitalistica in conseguenza dell’aumento di ciascuna delle sue parti aliquote, aventi un determinato valore nominale originario” [Marx].

Il capitale privo di investimento si procura così una serie di canali di deflusso, sia all’estero con l’esportazione di capitale, sia all’interno con la speculazione di borsa, canali appropriati ad assicurarne la valorizzazione. Questi sforzi non si limitano esclusivamente al periodo di depressione. Se subentrano le controtendenze, se viene ricostituita nel processo di produzione la valorizzazione degli investimenti di capitale, si avrà di nuovo un’ulteriore accumulazione. Sulla base di questa concezione teorica si può giudicare la correttezza della caratterizzazione del capitalismo monopolistico finanziario data da Lenin con la sua acuta formulazione. Esiste infatti una grande differenza tra l’esportazione di capitale dell’odierno capitalismo di monopolio e quello dei suoi inizî, quando il fenomeno dell’esportazione di capitali era già noto. Però, dato lo scarso livello dell’accumulazione, esso rappresentava per il capitalismo di allora qualcosa di non caratteristico, era soltanto un fenomeno transitorio che sorgeva periodicamente. Ben altrimenti stanno le cose oggi. I paesi più importanti hanno già raggiunto un alto livello dell’accumulazione, in cui la valorizzazione del capitale accumulato incontra sempre maggiori difficoltà. La pletora di capitale cessa di essere un fenomeno transitorio e comincia sempre di più a dominare tutta la vita economica. In queste circostanze la sovrabbondanza di capitale può essere superata soltanto ricorrendo all’esportazione di capitale che, per tutti i paesi di avanzato sviluppo capitalistico, è divenuta un fenomeno tipico e necessario.

L’esportazione di capitale verso l’estero e la speculazione all’interno sono fenomeni paralleli e scaturiscono da una radice comune. Dato che nella sfera della produzione non è possibile alcun impiego, si ha l’esportazione verso l’estero o l’“esportazione di capitale all’interno”, cioè l’affluire nell’attività di speculazione delle somme non impiegate. Dalla legge dell’accumulazione di capitale esposta risulta senz’altro, nel corso del processo storico, un mutamento necessario nel rapporto tra capitale industriale e capitale bancario. Ai livelli inferiori dell’accumulazione, la formazione di capitale proprio dell’industria è insufficiente. L’industria è perciò costretta a far affluire credito dall’esterno, e le banche come mediatrici e dispensatrici del credito acquistano grande potere nei confronti dell’industria. Ma a un più elevato grado dell’accumulazione, l’industria si rende indipendente in misura crescente, poiché essa progredisce nell’autofinanziamento. In una terza fase, l’industria incontra sempre maggiori difficoltà per investire in modo redditizio anche soltanto i proprî utili all’interno delle aziende originarie, utilizzandoli per far rientrare altre aziende nella loro sfere d’influenza. Non si può più parlare qui, in effetti, di una dipendenza dell’industria dalle banche; è piuttosto l’industria che domina le banche, mantenendo grandi somme presso di esse o creando persino proprî istituti bancari. La tendenza del bilancio tipico della grande industria (capitale monopolistico finanziario) va nella direzione di un ingrandimento del capitale di proprietà e di una diminuzione degli obblighi verso le banche o persino di un possesso di grandi crediti bancari. Questo è anche il motivo per cui le banche stesse ricorrono in misura crescente all’investimento dei loro capitali in borsa, sostituendo il credito bancario attraverso anticipazioni su titoli. Fino alla crisi successiva, alla stretta successiva sul mercato finanziario, il gioco si ripete; però, su base mutata: la centralizzazione del patrimonio finanziario è sempre più grande, spiegando così il potere crescente del capitale finanziario.

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Particolarmente interessante, per gli sviluppi che avrebbe avuto nei decenni seguenti, fu la posizione espressa da Lenin. Un noto adagio, scrisse Lenin, dice che se gli assiomi della geometria urtassero gli interessi degli uomini, si sarebbe probabilmente cercato di confutarli. Quelle dottrine delle scienze storiche e naturali che colpiscono i vecchi pregiudizi della teologia hanno provocato e provocano tuttora una delle lotte più accanite. Nulla di strano quindi che la dottrina di Marx, la quale serve in modo diretto a educare e organizzare la classe d’avanguardia della società moderna, indica i compiti di questa classe e dimostra che, grazie allo sviluppo economico, la sostituzione dell’attuale ordinamento sociale con un ordine nuovo è cosa ineluttabile nulla di strano che questa dottrina abbia dovuto farsi strada lottando ad ogni passo.

Non parliamo della scienza e della filosofia borghesi, insegnate ufficialmente da professori ufficiali allo scopo di istupidire la giovane generazione delle classi possidenti e di “aizzarla” contro i nemici interni ed esterni. Questa scienza non vuol nemmeno sentir parlare del marxismo, dichiarandolo confutato e distrutto; e i giovani scienziati che fanno carriera confutando il socialismo, e le vecchie cariatidi che fanno la guardia a tutti i possibili e immaginabili comandamenti di “sistemi” vetusti, tutti con lo stesso zelo attaccano Marx. I progressi del marxismo, la diffusione e l’affermarsi delle sue idee in seno alla classe operaia, accrescono inevitabilmente la frequenza e la violenza di questi attacchi borghesi contro il marxismo. Questo però, dopo ogni “colpo di grazia” infertogli dalla scienza ufficiale, diventa più forte, più temprato, più vitale di prima.

Ma anche fra le dottrine che hanno un legame con la lotta della classe operaia e sono diffuse particolarmente fra il proletariato, il marxismo è ben lungi dall’aver rafforzato di colpo le sue posizioni. Nei primi cinquanta anni della sua esistenza (a partire dal decennio 1840-1850) il marxismo combattè contro le teorie che gli erano radicalmente ostili. Nella prima metà del decennio 1840-1850 Marx ed Engels aggiustarono i conti con i giovani hegeliani radicali che in filosofia erano idealisti. Verso la fine di questo decennio la lotta si porta nel campo delle dottrine economiche, contro il proudhonismo. Negli anni 1850-1860 questa lotta viene coronata dalla critica dei partiti e delle dottrine che si erano manifestate durante il tempestoso 1848. Dal 1860 al 1870 la lotta passa dal campo della teoria generale a un campo più direttamente vicino al movimento operaio: cacciata del bakunismo dall’Internazionale. All’inizio del decennio 1870-1880 in Germania si fa avanti per un breve periodo di tempo il proudhoniano Mülberger;  [1]  alla fine di questo decennio, il positivista Dühring. Ma l’influenza esercitata sul proletariato tanto dall’uno che dall’altro è già insignificante. Il marxismo ha già trionfato in modo indiscusso di tutte le altre ideologie del movimento operaio.

Nell’ultimo decennio del secolo scorso questa vittoria era, nel complesso, un fatto compiuto. Persino nei paesi latini, dove le tradizioni del proudhonismo persistettero più a lungo, i partiti operai di fatto fondavano i loro programmi e la loro tattica su una base marxista. L’organizzazione internazionale del movimento operaio, ripresa sotto forma di congressi internazionali periodici, subito e quasi senza lotta si mise in tutte le questioni essenziali sul terreno del marxismo. Ma quando il marxismo ebbe soppiantato tutte le dottrine ad esso avverse e dotate di una qualche consistenza, le tendenze che trovavano un’espressione in queste dottrine si dettero a cercare altre vie. Le forme e i pretesti della lotta mutarono, ma la lotta continuò. E il secondo cinquantennio di esistenza del marxismo si iniziò (dal 1890) con la lotta di una corrente ostile al marxismo in seno al marxismo stesso.

L’ex marxista ortodosso Bernstein ha dato il nome a questa corrente, poichè ha fatto maggior rumore e formulato nel modo più completo le correzioni da apportare a Marx, la revisione del marxismo, il revisionismo. Persino in Russia, dove naturalmente il socialismo non marxista si è mantenuto più a lungo – data l’arretratezza economica del paese e la predominanza nella popolazione dei contadini soffocati dalle vestigia del servaggio – persino in Russia, esso si trasforma sotto i nostri occhi in revisionismo. Tanto nella questione agraria (programma di municipalizzazione di tutte le terre) che nelle questioni generali di programma e di tattica, i nostri socialpopulisti sostituiscono sempre più con “correzioni” a Marx i resti morenti, in decomposizione, del loro vecchio sistema, a modo suo coerente e fondamentalmente ostile al marxismo.

Il socialismo premarxista è battuto. Esso continua la lotta non più sul suo proprio terreno, ma sul terreno generale del marxismo, come revisionismo. Vediamo dunque qual è il contenuto ideologico del revisionismo.
Nel campo della filosofia il revisionismo si è messo a rimorchio della “scienza” borghese professorale. I professori “ritornano a Kant”, e il revisionismo si trascina dietro i neokantiani. I professori ripetono le banalità pretesche, mille volte rimasticate, contro il materialismo filosofico, e i revisionisti, sorridendo con condiscendenza, borbottano (parola per parola secondo l’ultimo  Handbuch)  [2]  che il materialismo è stato da un pezzo “confutato”. I professori considerano Hegel come un “cane morto”  [3]  e predicando essi stessi l’idealismo, ma un idealismo mille volte più meschino e banale di quello hegeliano, alzano con sprezzo le spalle a proposito della dialettica, e i revisionisti si cacciano dietro a loro nel pantano dell’avvilimento filosofico della scienza, sostituendo alla dialettica “sottile” (e rivoluzionaria) la “semplice” (e pacifica) “evoluzione”. I professori si guadagnano i loro stipendi adattando i loro sistemi idealistici e “critici” alla “filosofia” medioevale dominante (cioè alla teologia), e i revisionisti si schierano al loro fianco, cercando di fare della religione un “affare privato”, non rispetto allo Stato moderno, ma rispetto al partito della classe d’avanguardia.

E’ inutile parlare del vero significato di classe di tali “correzioni” a Marx: la cosa è evidente di per sé. Notiamo soltanto che l’unico marxista che, nella socialdemocrazia internazionale, abbia criticato le incredibili banalità spacciate dai revisionisti, mantenendosi sulle posizioni del materialismo dialettico conseguente, è stato Plekhanov. Ciò è tanto più necessario sottolineare energicamente oggi, quando si fanno dei tentativi profondamente errati di far passare il ciarpame filosofico reazionario per critica dell’opportunismo tattico di Plekhanov.

Passando all’economia politica si deve notare innanzi tutto che in questo campo le “correzioni” dei revisionisti sono state molto più varie e circostanziate: si è cercato di agire sul pubblico coi “nuovi dati dello sviluppo economico”. Si è preteso che la concentrazione della  produzione  e l’eliminazione della piccola produzione da parte della grande non si verificano affatto nell’agricoltura, e che nel commercio e nell’industria si verificano con estrema lentezza. Si è preteso che le crisi si farebbero oggi più rare, meno acute e che probabilmente i cartelli e i trust offriranno al capitale la possibilità di eliminarle del tutto. Si è preteso che la “teoria del crollo” verso il quale marcia il capitalismo sarebbe una teoria inconsistente, poichè le contraddizioni di classe tenderebbero ad attutirsi, ad attenuarsi. Si è preteso infine che non sarebbe male correggere la teoria del valore di Marx secondo gli insegnamenti di Böhm-Bawerk.

La lotta contro i revisionisti a proposito di questi problemi ha dato al pensiero teorico del socialismo internazionale un impulso tanto fecondo quanto la polemica di Engels con Dühring venti anni prima. Gli argomenti dei revisionisti sono stati esaminati, fatti e cifre alla mano. E’ stato dimostrato che i revisionisti idealizzano sistematicamente la piccola produzione moderna. Il fatto della superiorità tecnica e commerciale della grande produzione sulla piccola, non soltanto nell’industria, ma anche nell’agricoltura, è dimostrato da dati inconfutabili. Ma nell’agricoltura la produzione commerciale è molto più debolmente sviluppata; e i moderni economisti e studiosi di statistica non sanno, d’abitudine, mettere in rilievo quei rami speciali (talvolta persino quelle operazioni) dell’agricoltura che attestano che l’agricoltura viene attratta sempre più nell’orbita degli  scambi  economici mondiali. La piccola produzione si mantiene sulle rovine dell’economia naturale, grazie a un peggioramento sempre più accentuato dell’alimentazione, alla carestia cronica, al prolungamento della giornata di lavoro, al peggioramento della qualità del bestiame e delle cure che gli si danno, in una parola, grazie agli stessi mezzi coi quali la produzione artigiana ha resistito alla manifattura capitalistica. Ogni passo in avanti della scienza e della tecnica scalza inevitabilmente, inesorabilmente le basi della piccola produzione nella società capitalistica; e il compito dell’economia socialista è di analizzare questo processo in tutte le sue forme, spesso complesse e ingarbugliate, di dimostrare al piccolo produttore che gli è impossibile resistere in regime capitalista, che la situazione dell’economia contadina in regime capitalista non ha vie di uscita, che il contadino deve far proprio necessariamente il modo di vedere del proletariato. Dal punto di vista scientifico in questa questione i revisionisti peccavano per la loro superficiale generalizzazione di fatti presi isolatamente, staccandoli dall’assieme del regime capitalista; dal punto di vista politico peccavano perché inevitabilmente, lo volessero o no, chiamavano il contadino o lo spingevano a far proprie le opinioni del proprietario (cioè della borghesia), invece di spingerlo a far proprie le opinioni del proletariato rivoluzionario.

Per quel che concerne la teoria delle crisi e la teoria del crollo, per i revisionisti le cose sono andate ancor peggio. Soltanto per un brevissimo periodo di tempo e solo persone di vista ben corta potevano pensare a rimaneggiare i princípi della dottrina di Marx sotto l’influenza di alcuni anni di slancio e di prosperità industriale. La realtà ha dimostrato ben presto ai revisionisti che le crisi non avevano fatto il loro tempo: alla prosperità ha tenuto dietro la crisi. Sono cambiate le forme, l’ordine, la fisionomia delle singole crisi, ma le crisi continuano a essere parte integrante del regime capitalista. I cartelli e i trust mentre hanno concentrato la produzione ne hanno aggravato nello stesso tempo, agli occhi di tutti, l’anarchia, hanno aumentato l’incertezza del domani per il proletariato e l’oppressione del capitale, inasprendo così in modo inaudito le contraddizioni di classe. Che il capitalismo vada verso il crollo – tanto nel senso delle singole crisi economiche e politiche, quanto della catastrofe completa di tutto il regime capitalista – lo hanno dimostrato in modo particolarmente evidente e in proporzioni particolarmente vaste i giganteschi trust contemporanei. La recente crisi finanziaria in America, la estensione terribile della disoccupazione in Europa, senza parlare poi della crisi industriale imminente, annunciata da sintomi numerosi – tutto questo ha fatto sí che le recenti “teorie” dei revisionisti sono state dimenticate da tutti e, a quanto pare, da molti revisionisti stessi. Occorre soltanto non dimenticare gli insegnamenti che la classe operaia ha ricevuto da questa instabilità da intellettuali. Riguardo alla teoria del valore, cconcludeva Lenin,  è sufficiente dire che, all’infuori delle allusioni e dei conati molto confusi alla Böhm-Bawerk i revisionisti non hanno dato qui assolutamente nulla e perciò non hanno lasciato traccia alcuna nello sviluppo del pensiero scientifico.

Altrettanto interessante, per i suoi sviluppi, fu la posizione espressa da Rosa Luxemburg. Se le teorie sono immagini dei fenomeni del mondo esterno riflesse nel cervello umano, bisogna in ogni caso aggiungere, quando si tratta della teoria di Eduard Bernstein, che sono sovente immagini capovolte. Una teoria dell’instaurazione del socialismo mediante riforme sociali, dopo che sono state messe definitivamente a dormire le riforme sociali tedesche; del controllo dei sindacati sul processo produttivo, dopo la sconfitta dei, meccanici inglesi; della maggioranza parlamentare socialdemocratica, dopo la revisione della costituzione sassone e gli attentati al suffragio universale per le elezioni al Reichstag  [2]. Ma il centro di gravità delle argomentazioni di Bernstein non sta, a nostro parere, nelle sue opinioni sui compiti pratici della socialdemocrazia, bensì in ciò che egli dice sul corso dello sviluppo obiettivo della società capitalistica, con cui quelle opinioni sono in strettissimo rapporto.
Secondo Bernstein un crollo generale del capitalismo diventa sempre più improbabile a mano a mano che esso si sviluppa, perché da un lato il sistema capitalistico dimostra una sempre maggior capacità di adattamento e dall’altro la produzione si differenzia sempre di più. La capacità di adattamento del capitalismo secondo Bernstein si manifesta in primo luogo nella scomparsa delle  crisi  generali, grazie allo sviluppo dei sistema creditizio, delle organizzazioni imprenditoriali e delle comunicazioni come pure del servizio di informazioni; in secondo luogo nella tenace sopravvivenza dei ceto medio in seguito alla costante differenziazione delle branche di produzione e all’ascesa di larghi strati del proletariato nel ceto medio; in terzo luogo infine nel miglioramento della situazione economica e politica del proletariato in seguito alla lotta sindacale.
Ne deriva, per la lotta pratica della socialdemocrazia, il concetto generale che essa non debba indirizzare la propria attività alla conquista del potere politico, ma al miglioramento della situazione della classe operaia e all’instaurazione del socialismo non attraverso una crisi sociale e politica, bensì estendendo progressivamente il controllo sociale ed attuando gradualmente il principio della cooperazione.
Bernstein stesso non vede nulla di nuovo nelle cose che espone, ed anzi pensa che esse concordino tanto con singole asserzioni di Marx ed Engels, quanto con l’indirizzo generale seguito sino ad ora dalla socialdemocrazia. A nostro avviso invece sarebbe difficile negare che la concezione di Bernstein sia in realtà in assoluto contrasto con l’orientamento del socialismo scientifico.
Se tutta la revisione di Bernstein si riassumesse nella tesi che il corso dello sviluppo capitalistico è molto più lento di quanto siamo abituati ad ammettere, ciò in realtà significherebbe soltanto un differimento della conquista del potere politico da parte del proletariato rispetto a quanto si prevedeva fino ad ora, e praticamente ne potrebbe derivare tutt’al più un ritmo più calmo della lotta. Ma non si tratta di questo. Ciò che Bernstein ha messo in discussione non è la rapidità dello sviluppo, ma il corso stesso dello sviluppo della società capitalistica e conseguentemente il passaggio all’ordinamento socialista.
Se la teoria socialista ha ammesso fino ad ora che il punto di partenza della rivoluzione socialista sarebbe stato una crisi generale distruttrice, bisogna, a nostro modo di vedere, distinguere a questo proposito due cose diverse: l’idea fondamentale che vi è contenuta e la sua forma esteriore. L’idea fondamentale consiste nel ritenere che l’ordinamento capitalistico farà maturare da sé, grazie alle proprie contraddizioni, il momento in cui cadrà in sfacelo, in cui esso diventerà semplicemente impossibile. Che questo momento sia stato concepito sotto forma di una crisi economica generale e catastrofica non è accaduto naturalmente senza buone ragioni, ma nondimeno rimane per l’idea fondamentale un fatto marginale e non essenziale. La base scientifica del socialismo infatti si appoggia notoriamente su  tre  risultati dello sviluppo capitalistico: anzitutto sulla crescente  anarchia  della economia capitalistica, che porta inevitabilmente alla sua scomparsa; in secondo luogo sulla progressiva socializzazione del processo produttivo, che crea le condizioni positive del futuro ordine sociale; e in terzo luogo sulla crescente  organizzazione  e  coscienza di classedel proletariato che costituisce il fattore attivo del rivolgimento immanente.

E’ il  primo  di questi pilastri del socialismo scientifico che Bernstein elimina. Egli afferma cioè che lo sviluppo capitalistico non andrebbe incontro a un crollo economico generale. Ma con ciò egli non nega semplicemente quella certa forma di rovina del capitalismo, ma il fatto stesso della rovina. Egli dice testualmente: “Si potrebbe obiettare ora che, quando si parla del crollo della società odierna, si ha in mente qualche cosa di più di una crisi economica generalizzata e più grave delle precedenti, cioè un crollo totale del sistema capitalistico per le sue proprie contraddizioni”. E a ciò egli risponde: “Un crollo pressoché contemporaneo e totale dell’odierno sistema produttivo, non diviene, con l’evoluzione progressiva della società, più, probabile, ma più improbabile, perché tale evoluzione accresce da un lato la capacità di adattamento e dall’altro, in pari tempo, la differenziazione della industria”  [*1].
Ma sorge allora il grave problema: perché e come arriveremo noi in generale alla meta finale dei nostri sforzi? Dal punto di vista del socialismo scientifico la necessità storica della rivoluzione socialista si manifesta anzitutto nell’anarchia crescente del sistema capitalistico, che lo spinge in un vicolo cieco. Se invece si ammette con Bernstein che lo sviluppo capitalistico non va verso la propria rovina, il socialismo cessa  di  essere obiettivamente necessario.  Delle pietre basilari delle sue fondamenta scientifiche rimangono soltanto le due altre conseguenze dell’ordinamento capitalistico: la socializzazione del processo produttivo e la coscienza di classe del proletariato. Bernstein ha presente anche questo quando dice: “La concezione socialista non perde (con l’eliminazione della teoria del crollo) assolutamente nulla della sua forza persuasiva. Perché, che cosa sono, esaminati più da vicino, tutti i fattori da noi annoverati, che hanno contribuito ad eliminare o modificare le vecchie crisi? Fenomeni tutti che rappresentano al tempo stesso premesse, e in parte persino prodromi della socializzazione della produzione e dello scambio”.
Ma basta riflettere un momento per dimostrare che anche questo è un sofisma. In che consiste l’importanza dei fenomeni indicati da Bernstein come mezzi capitalistici di adattamento: i cartelli, il credito, il perfezionamento dei mezzi di comunicazione, l’elevamento della classe operaia, ecc.? Evidentemente nel fatto che essi eliminano o per lo meno attenuano le contraddizioni interne dell’economia capitalistica impedendone lo sviluppo e l’inasprimento. Così la eliminazione delle crisi significa la soppressione del contrasto tra produzione e scambio su ;base capitalistica, il miglioramento della condizione della classe operaia, in parte come tale, in parte in quanto entra a far parte del medio ceto, significa un’attenuazione del contrasto fra capitale e lavoro. Ora, se i cartelli, il credito, i sindacati, ecc. sopprimono le contraddizioni capitalistiche, e quindi salvano dalla rovina il sistema capitalistico, conservano il capitalismo – e perciò appunto Bernstein li chiama “mezzi di adattamento” – come possono rappresentare al tempo stesso “premesse e in parte addirittura prodromi” del socialismo? Evidentemente solo nel senso che essi esprimono più nettamente il carattere sociale della produzione. Ma in quanto la conservano nella sua forma  capitalistica, essi al contrario rendono in pari misura vano il passaggio di questa produzione socializzata alla forma socialista. Essi possono quindi rappresentare prodromi e premesse dell’ordinamento socialista in senso soltanto concettuale e non storico, in quanto cioè fenomeni di cui noi  sappiamo, sulla base della nostra concezione del socialismo, che gli sono affini, ma che in realtà non solo non portano alla trasformazione socialista, ma anzi la vanificano. Resta dunque unicamente come fondamento del socialismo la coscienza di classe del proletariato. Ma anch’essa è, nel caso specifico, non un semplice riflesso spirituale dei contrasti sempre più acuti dei capitalismo e della sua imminente caduta – la quale sarebbe ormai evitata dai mezzi di adattamento – ma un mero ideale, la cui forza di persuasione riposa unicamente sulla sua supposta perfezione.

In una parola ciò che noi otteniamo su questa strada è una motivazione del programma socialista mediante la “conoscenza pura”, cioè, in parole più semplici, una motivazione idealistica, mentre viene a cadere la necessità obiettiva, cioè la motivazione basata sul corso dello sviluppo materiale della società. La teoria revisionistica si trova davanti a un dilemma. O la trasformazione socialista continua ad essere la conseguenza delle contraddizioni interne dell’ordinamento capitalistico e allora insieme con quest’ordinamento si sviluppano anche le sue contraddizioni, e un crollo, in questa o in quella forma, ne consegue a un certo momento inevitabilmente, ma in questo caso i “mezzi di adattamento” sono inefficaci e la teoria del crollo è giusta. Oppure i “mezzi di adattamento” sono realmente in grado di impedire un crollo del sistema capitalistico, e quindi di rendere vitale il capitalismo e di eliminare le sue contraddizioni, ma in questo caso il socialismo cessa di essere una necessità storica, e può essere tutto ciò che si vuole, ma non un risultato dello sviluppo materiale della società. Da questo dilemma ne deriva un altro: o il revisionismo ha ragione a proposito dello sviluppo capitalistico, e allora la trasformazione socialista della società non è più che un’utopia, o il socialismo non è un’utopia, ma allora la teoria dei “mezzi di adattamento”, non può essere sostenibile.  That is the question, questo è il problema.
 
I mezzi più importanti, che secondo Bernstein determinano l’adattamento dell’economia capitalistica, sono il sistema creditizio, il miglioramento dei mezzi di comunicazione e le organizzazioni imprenditoriali.

Per cominciare dal credito, esso assolve nell’economia capitalistica molteplici funzioni, ma la più importante consiste notoriamente nell’accrescere la capacità di espansione della produzione e nel mediare e facilitare lo scambio. Perché là dove la tendenza della produzione capitalistica all’espansione illimitata urta contro i limiti della proprietà privata, contro le dimensioni ristrette del capitale privato, il credito si presenta come il mezzo atto a superare questi limiti in forme capitalistiche, a fondere in uno molti capitali privati – società per azioni – e a far sì che un capitalista possa disporre dei capitali altrui – credito industriale. D’altro lato esso accelera, come credito commerciale, lo scambio delle merci, quindi il riflusso del capitale alla produzione, e conseguentemente l’intiero ciclo del processo produttivo. E’ facile rendersi conto dell’influenza di queste due principali funzioni del credito sul determinarsi delle crisi. Se le crisi, com’è noto, traggono origine dalla contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo, il credito. per quanto si è detto, è il mezzo più idoneo a portare tanto più spesso questa contraddizione alla fase critica. Anzitutto esso accresce enormemente la capacità di espansione della produzione e costituisce la forza motrice interna, che la spinge continuamente a oltrepassare i limiti del mercato. Ma esso agisce in due sensi. Dopo avere, come :fattore del processo produttivo, provocato la superproduzione, durante la crisi, nella sua qualità di intermediario dello scambio, dà il colpo di grazia alle forze produttive, che esso medesimo ha risvegliato. Al primo segno di un ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio là dove sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora e riduce così al minimo durante la crisi la capacità di consumo.
Oltre questi due risultati più importanti, il credito agisce ancora in diversi altri modi in relazione coi determinarsi delle crisi Non soltanto esso offre il mezzo tecnico per mettere dei capitali altrui a disposizione di un capitalista, ma lo sprona ad impiegare con audacia e senza scrupoli la proprietà degli altri persino in speculazioni arrischiate. Non soltanto acuisce la crisi come mezzo infido di scambio delle merci, ma ne facilita lo scoppio e l’estensione in quanto trasforma tutto lo scambio in un meccanismo artificioso ed estremamente complesso, con una quantità minima di moneta aurea come base reale, e provoca così una perturbazione per ogni minimo motivo.
Così il credito, ben lungi dall’essere un mezzo per evitare o anche solamente per attenuare la crisi, è tutt’al contrario un fattore determinante particolarmente importante delle crisi. E dei resto, non potrebbe essere altrimenti. La funzione specifica del credito – esprimendoci in termini generali – non è altro infatti che quella di eliminare da tutti i rapporti capitalistici ciò che ancora rimaneva in fatto di stabilità, di introdurre dovunque il massimo possibile di elasticità e di rendere A massimo grado malleabili, relative e sensibili tutte le forze capitalistiche. Che in tal modo le crisi, le quali non sono altro che il cozzo periodico delle forze reciprocamente contrastanti dell’economia capitalistica, non possano essere che facilitate ed acuite, è cosa che salta agli occhi.
Ma queste considerazioni ci portano in pari tempo all’altro problema, cioè come mai il credito in generale possa apparire come un “mezzo di adattamento” del capitalismo. In qualunque condizione e sotto qualunque forma si immagini l'”adattamento” con l’aiuto del credito, l’essenza dì questo adattamento evidentemente può consistere soltanto nel comporre qualche rapporto antagonistico dell’economia capitalistica, nel toglier di mezzo o attenuare alcune delle sue contraddizioni, e nel concedere così in qualche punto libero gioco alle forze che altrimenti sarebbero soffocate. Ma invece, se esiste nella odierna economia capitalistica un mezzo capace di accrescere al massimo le contraddizioni questo è proprio il credito. Esso accresce la contraddizione tra modo di  produzione  e modo di scambio in quanto tende al massimo la produzione e paralizza per il minimo motivo gli scambi. Accresce la contraddizione tra modo di  produzione  e modo di  appropriazione  in quanto separa la produzione dalla proprietà, trasformando nella produzione il capitale in un capitale sociale, e per contro una parte del profitto in interesse del capitale, cioè in tiri mero titolo di proprietà. Aumenta la contraddizione tra i rapporti di  proprietà  e quelli di  produzione  riunendo in poche mani, mediante l’espropriazione di molti piccoli capitalisti, enormi forze produttive. Accresce la contraddizione tra il carattere  sociale  della produzione e la  proprietà privata  capitalistica, rendendo necessaria l’intromissione dello Stato nella produzione (società per azioni).

In una parola il credito riproduce tutte le contraddizioni cardinali del mondo capitalistico, le porta all’acme, accelera il cammino lungo il quale esso va incontro al proprio annientamento, al crollo. Il primo mezzo di adattamento del capitalismo nei riguardi del credito dovrebbe essere dunque quello di  abolire  il credito, di farlo retrocedere. Così com’è adesso non rappresenta un mezzo di adattamento, ma di annientamento, di valore altamente rivoluzionario. Ma proprio questo carattere rivoluzionario del credito, che trascende lo stesso capitalismo, ha indotto persino a progetti di riforma ispirati al socialismo, ed ha fatto apparire grandi rappresentanti dei credito, come Isaac Péreire in Francia, metà profeti e metà furfanti, secondo l’espressione di Marx.

Fragile del pari si dimostra, osservato più da vicino, anche il secondo “mezzo di adattamento” della produzione capitalistica, le unioni di imprenditori. Secondo Bernstein, esse, regolando la produzione, dovrebbero metter fine all’anarchia e prevenire le crisi. Lo sviluppo dei cartelli e dei  trusts  è certamente un fenomeno non ancora studiato nei suoi molteplici effetti economici. Esso costituisce anzitutto un problema, che può essere risolto soltanto con la guida della dottrina di Marx. Ad ogni modo è chiaro che si potrebbe mettere in discussione la possibilità di arginare l’anarchia capitalistica per mezzo dei cartelli solo nella misura in cui i cartelli, i  trusts, ecc. diventassero una forma di produzione dominante in modo press’a poco generale. Ma proprio questo è escluso dalla natura stessa dei cartelli. Lo scopo economico ultimo e il risultato delle unioni di imprenditori consistono nell’influire, mediante l’abolizione della concorrenza in una determinata branca della produzione, sulla ripartizione della massa dei profitti ottenuti sul mercato in modo da accrescere la quota spettante a tale branca industriale. Ma l’organizzazione può innalzare la quota dei profitti in una branca dell’industria soltanto a spese delle altre, e perciò non può assolutamente assumere carattere generale. Estesa a tutti i più importanti rami della produzione, essa elimina autonomamente la propria efficacia.

Ma anche nei limiti della loro applicazione pratica, le unioni di imprenditori agiscono in senso esattamente contrario all’eliminazione dell’anarchia industriale. Generalmente i cartelli ottengono l’aumento suaccennato della quota dei profitti sul mercato interno, in quanto fanno produrre per l’estero, con un tasso di profitto più basso, le porzioni eccedenti di capitale, che non si possono adoperare per il consumo interno, cioè vendono le loro merci all’estero a prezzo molto più basso che nel proprio paese. Ne risulta un’acuita concorrenza all’estero, una maggiore anarchia sul mercato mondiale, e cioè proprio il contrario di ciò che si voleva ottenere. Ne troviamo un esempio nella storia dell’industria internazionale dello zucchero.

Infine, come forma fenomenica del modo di produzione capitalistico, le unioni di imprenditori possono essere concepite soltanto come uno stadio transitorio, una fase determinata dell’evoluzione capitalistica, in quanto sono precisamente un mezzo adottato dal modo di produzione capitalistico per arrestare in singole branche della produzione la fatale caduta dei tasso di profitto. Ma qual è il metodo seguìto dal cartelli a questo scopo? Non è altro, in fondo, che lasciare inattiva una parte del capitale accumulato, cioè lo stesso metodo che sotto altra forma si applica nelle crisi. Ma un simile metodo di cura assomiglia alla malattia come si assomigliano due gocce d’acqua e solo fino a un determinato momento può essere considerato il male minore. Non appena il mercato comincia a contrarsi, in quanto il mercato mondiale viene sviluppato al massimo ed esaurito dai paesi capitalistici concorrenti – ed evidentemente non si può negare che un simile momento debba presentarsi presto o tardi – la forzata inattività parziale del capitale assume una tale estensione, che la medicina stessa si converte in malattia ed il capitale già reso sociale in misura sensibile dal l’organizzazione si ritrasforma in capitale privato. Nella diminuita possibilità di trovare un posticino per sé sul mercato, ogni porzione di capitale privato preferisce tentare la fortuna per proprio conto. E allora le organizzazioni devono scoppiare come bolle di sapone e far nuovamente posto a una libera concorrenza, in forma potenziata.

In definitiva dunque anche i cartelli, come già il credito, si manifestano come fasi determinate dell’evoluzione economica, che in ultima analisi non fanno che accrescere l’anarchia del mondo capitalistico e determinare il manifestarsi e il maturare delle sue interne contraddizioni. Essi acuiscono le contraddizioni tra il modo di produzione e lo scambio, portando all’acme il duello tra produttori e consumatori, come possiamo vedere particolarmente negli Stati Uniti d’America. Acuiscono inoltre la contraddizione tra il modo di produzione e n modo di appropriazione, in quanto contrappongono nella forma più brutale alla classe operaia la forza schiacciante del capitale organizzato e così accrescono al massimo l’antagonismo tra capitale e lavoro.

Acuiscono infine la contraddizione tra il carattere internazionale dell’economia capitalistica e il carattere nazionale dello Stato capitalistico, in quanto portano con sé, come fenomeno collaterale, una guerra doganale generale e così portano all’estremo gli antagonismi tra i singoli Stati capitalistici. C’è inoltre la funzione diretta, altamente rivoluzionaria, dei cartelli sulla concentrazione della produzione, perfezionamenti tecnici e così via.

Così i cartelli e  trusts  nel loro effetto finale sull’economia capitalistica, non soltanto non ci appaiono come “mezzi di adattamento” che cancellano le sue contraddizioni, ma anzi come uno dei mezzi che essa stessa ha creato per accrescere la propria anarchia, esasperare le proprie interne contraddizioni e affrettare il proprio tramonto.

Ma se il credito, i cartelli e simili non eliminano l’anarchia della economia capitalistica, come avviene che da vent’anni – dal 1873 – non abbiamo più avuto una crisi economica generale? Non è questo un segno che il modo di produzione capitalistico si è “adattato” almeno nei fatti principali alle necessità della società e che è superata l’analisi fatta da Marx?

La risposta seguì immediatamente alla domanda. Bernstein aveva appena gettato nel
1898 tra i ferri vecchi la teoria marxistica delle crisi, quando nel 1900 scoppiò una violenta crisi generale e sette anni più tardi, nel 1907, una nuova crisi dilagò dagli Stati Uniti sul mercato mondiale. Così con l’eloquenza stessa dei fatti fu distrutta la teoria dell'”adattamento” del capitalismo. E con ciò contemporaneamente si dimostrò che coloro che avevano ripudiato la teoria delle crisi di Marx solo perché essa era mancata a due pretese “scadenze”, avevano scambiato il nocciolo di questa teoria con un particolare non essenziale della sua forma esterna – il ciclo decennale. La formula dell’andamento ciclico dell’industria capitalistica moderna come di un periodo decennale non fu per Marx ed Engels negli anni tra il ’60 e l’80 altro che una semplice constatazione di fatti, che a loro volta non erano basati su alcuna legge naturale, ma su un complesso di determinate circostanze storiche, che erano in connessione con l’espansione saltuaria della sfera di attività del giovane capitalismo.

In realtà la crisi del 1825 fu il risultato dei grandi investimenti in costruzioni di strade, canali ed officine del gas, che avevano avuto luogo nel decennio precedente soprattutto in Inghilterra, come del resto anche la crisi stessa. La crisi successiva del 1836-1839 fu ugualmente conseguenza di imprese colossali per la costruzione di nuovi mezzi di trasporto. La crisi del 1847 fu notoriamente provocata dalle febbrili costruzioni di strade ferrate inglesi (tra il 1844 e il 1847, cioè in tre anni soltanto vennero assegnate dal parlamento concessioni per nuove ferrovie per circa un miliardo e mezzo di talleri!). In tutti e tre i casi furono dunque forme diverse del riassestamento della economia capitalistica, della fondazione di nuove basi per lo sviluppo capitalistico, che produssero come conseguenza le crisi. Nell’anno 1857 è l’improvvisa apertura di nuovi mercati di smercio perle industrie europee in America e in Australia in seguito alla scoperta di miniere d’oro, in Francia particolarmente è la costruzione di strade ferrate, per cui essa marcia sulle orme dell’Inghilterra (tra il 1852 e il 1856 furono costruite nuove ferrovie in Francia per un miliardo e 1/4 di franchi). Infine la grande crisi del 1872  è  notoriamente conseguenza diretta della nuova organizzazione, del primo slancio impetuoso della grande industria in Germania ed in Austria, che seguì agli avvenimenti politici del 1866 e 1871.

Fu dunque ogni volta l’improvviso  estendersi  del terreno della economia capitalistica e non il restringersi del suo campo d’azione, non il suo esaurirsi, che finora diede il via alle crisi. Che quelle crisi internazionali si siano ripetute proprio a distanza di dieci anni, è un fenomeno puramente esteriore, casuale. Lo schema marxistico dello sviluppo delle, crisi, come fu descritto da Engels nell’Antidúhring  e da Marx nel I e III libro dei  Capitale,  riguarda tutte le crisi soltanto in quanto mette in luce il loro  meccanismo intimo  e le loro  cause generali  profonde. Queste crisi possono ripetersi ogni dieci, ogni cinque, come pure ogni venti od otto anni. Ma ciò che dimostra nel modo più evidente l’inconsistenza della teoria di Bernstein è il fatto che la crisi più recente negli anni 1907-1908 ha infuriato proprio in quel paese dove sono più sviluppati i famosi “mezzi di adattamento” capitalistici: il credito, il servizio di informazioni ed i  trusts.

La supposizione che la produzione capitalistica possa “adattarsi” al commercio, parte da una di queste due premesse: o che il mercato mondiale aumenti illimitatamente e all’infinito o al contrario che le forze produttive vengano ostacolate nella loro crescita, in modo da non oltrepassare i limiti del mercato. La prima è fisicamente impossibile, all’altra si oppone il fatto che ad ogni passo avvengono trasformazioni tecniche in tutti i campi della produzione le quali svegliano ogni giorno nuove forze produttive.

Ancora un fenomeno contraddice secondo Bernstein al corso sopra delineato del capitalismo: la “falange quasi incrollabile” delle medie imprese, sulla quale richiama la nostra attenzione. In ciò egli vede un segno che lo sviluppo della grande industria non produce effetti così rivoluzionari nel senso della concentrazione capitalistica, come ci si sarebbe dovuto aspettare in base alla “teoria del crollo”. Ma anche in questo egli è vittima di un malinteso. Sarebbe un comprendere dei tutto falsamente lo sviluppo della grande industria se ci si aspettasse che le medie industrie debbano  scomparire  gradualmente dalla scena.

Nell’andamento generale dell’evoluzione capitalistica, proprio secondo l’assunto di Marx, i piccoli capitali rappresentano la parte dei pionieri della rivoluzione tecnica, da due punti di vista e cioè tanto in rapporto a nuovi metodi di produzione nelle branche antiche e consolidate, ben radicate, quanto in rapporto alla creazione di nuove branche di produzione non ancora sfruttate da grandi capitali. E’ completamente falsa l’interpretazione secondo la quale la storia della media impresa capitalistica vada in linea retta verso il suo graduale declino. Il decorso reale dell’evoluzione anche qui è piuttosto dialettico e si muove costantemente tra due opposti. Il medio ceto capitalistico, si trova, proprio come la classe operaia, sotto l’influenza di due opposte tendenze, una che tende ad innalzarlo ed una che tende ad abbassarlo.

La seconda è nel caso in questione il costante elevarsi del livello della produzione, che supera periodicamente i limiti dei capitali medi e li esclude sempre da capo dalla concorrenza. La prima è data dal deprezzamento periodico del capitale esistente, che abbassa sempre da capo per un lasso di tempo il livello della produzione a seconda della entità del necessario capitale minimo, come pure dall’estendersi della produzione capitalistica a nuove sfere. Il duello della media azienda col grande capitale non dev’essere immaginato come una battaglia regolare, nella quale la truppa della parte più debole si riduce sempre di più, direttamente e quantitativamente, ma piuttosto come una falciatura periodica dei piccoli capitali, che poi sempre rapidamente ricrescono per essere nuovamente falciati dalla falce della grande industria. Delle due tendenze che giocano a palla con il medio ceto capitalistico, in ultima analisi vince – in opposizione con lo sviluppo della classe operaia – la tendenza  depressiva.  Ma essa non ha assolutamente bisogno di manifestarsi nell’abolizione numerica assoluta della media azienda, bensì in primo luogo nell’aumento progressivo del capitale minimo, necessario alla sopravvivenza delle imprese nelle vecchie branche, in secondo luogo nel periodo di tempo sempre più breve durante il quale i piccoli capitali possono sfruttare per conto loro le branche nuove. Ne deriva per il piccolo capitale  individuale  un periodo di vita sempre più breve e un trasformarsi sempre più rapido dei metodi di produzione e dei modi d’impiego, e per la  classe nel suo complesso  un ricambio sociale sempre più rapido.

Quest’ultimo fatto Bernstein lo sa assai bene e lo stabilisce egli stesso. Ma sembra dimenticare invece che in tal modo è stabilita anche la legge medesima del movimento delle medie aziende capitalistiche. Se i piccoli capitali sono le truppe di avanguardia del progresso tecnico, e se il progresso tecnico è il polso vitale dell’economia capitalistica, i piccoli capitali costituiscono evidentemente un fenomeno collaterale inseparabile dallo sviluppo capitalistico, che può scomparire soltanto insieme con quest’ultimo. La scomparsa graduale delle medie aziende – nel senso della statistica assoluta sommaria di cui parla Bernstein – significherebbe non, come Bernstein pensa, il processo di sviluppo rivoluzionario del capitalismo, ma proprio al contrario il suo ristagnare e il suo intorpidirsi.”Il saggio del profitto, ossia l’incremento proporzionale di capitale, è particolarmente importante per tutti i capitali di nuova formazione che si raggruppano indipendentemente. E non appena la formazione di capitale diventasse monopolio di pochi grandi capitali già affermatisi ( … ) si spegnerebbe il fuoco vivificatore della produzione e  questa cadrebbe in letargo.”

Bernstein respinge la “teoria del crollo” come la via storica per la realizzazione della società socialista. Qual è la via che conduce a tale risultato, dal punto di vista della teoria dell'”adattamento del ‘capitalismo”? Bernstein risponde a questa domanda solo in modo allusivo, ma Conrad Schmidt ha tentato di farlo più esaurientemente nel senso di Bernstein  [*5]. Secondo lui, “la lotta sindacale e la lotta politica per le riforme sociali” porteranno “un controllo sociale sempre più esteso sulle condizioni della produzione” e con la legislazione “degraderanno sempre più il proprietario capitalista limitandone i diritti fino a ridurlo al ruolo di un gerente”, finché in conclusione “sottrarranno al capitalista, reso ormai umile, che vede diventare il suo possesso sempre più inutile per sé, la direzione e l’amministrazione dei suoi capitali” e cosi infine si instaurerà la gestione sociale.

Dunque, sindacati, riforme sociali ed anche, come aggiunge Bernstein, la democratizzazione politica dello Stato, sono i mezzi dell’instaurazione progressiva dei socialismo.

Per cominciare dai sindacati, la loro funzione più importante – e nessuno l’ha dimostrato meglio dello stesso Bernstein nella  Neue Zeit  dell’anno 1891 – consiste nel fatto che essi sono nelle mani del lavoratori il mezzo di realizzare la legge capitalistica del salario, cioè la vendita della forza di lavoro al prezzo vigente di volta in volta sul mercato. I sindacati giovano al proletariato in quanto sfruttano le congiunture del mercato in ogni periodo di tempo. Ma quelle stesse congiunture, cioè da un lato la richiesta di forza di lavoro condizionata dallo stadio della produzione, dall’altro l’offerta di forza di lavoro determinata dalla proletarizzazione dei medi ceti e dalla naturale moltiplicazione della classe lavoratrice, e infine anche il grado della produttività del lavoro in ogni momento, sono al di fuori della sfera di influenza dei sindacati. Perciò essi non possono rovesciare la legge dei salari; nel migliore dei casi possono mantenere lo sfruttamento capitalistico nel limiti che si considerano “normali” per un determinato periodo, ma in nessun modo possono eliminare gradualmente lo sfruttamento stesso.
Conrad Schmidt veramente designa l’attuale movimento sindacale come “un debole stadio iniziale” e si ripromette dal futuro che “i sindacati abbiano un’influenza sempre crescente sulla regolazione della produzione”. La regolazione della produzione può però essere intesa soltanto in due modi: l’ingerenza nella parte tecnica del processo produttivo e la determinazione del volume della produzione stessa. Di quale natura può essere l’influenza dei sindacati in questi due problemi?

E’ chiaro che per quanto concerne la tecnica della produzione, l’interesse dei capitalista coincide in determinati limiti coi progresso e lo sviluppo dell’economia capitalistica. t la necessità sua propria che lo sprona a miglioramenti tecnici.La posizione dei singolo lavoratore invece è esattamente opposta: ogni trasformazione tecnica contrasta con gli interessi del lavoratore direttamente toccato e peggiora la sua situazione immediata deprezzando la forza di lavoro e rendendo il lavoro stesso più intensivo, monotono, penoso. Nella misura in cui il sindacato può ingerirsi nel lato tecnico della produzione, può agire evidentemente solo in quest’ultimo senso, cioè nel senso dei singoli gruppi operai direttamente interessati, e quindi avversare le innovazioni. In questo caso però esso non agisce nell’interesse della classe operaia nel suo complesso e della sua emancipazione, il quale coincide piuttosto col progresso tecnico, cioè con l’interesse del singolo capitalista, ma tutt’al contrario agisce nel senso della reazione. E in realtà noi troviamo un’aspirazione ad influire sugli aspetti tecnici della produzione non nel futuro, dove la cerca Conrad Schmidt, ma nel passato dei movimento sindacale. Essa contrassegna la fase più antica del tradunionismo inglese (fino al decennio 1860-70), in cui esso si riannodava ancora a tradizioni medievali-corporative ed era retto in modo caratteristico dal principio antiquato del “diritto acquisito a un lavoro adeguato” . L’aspirazione dei sindacati a fissare i limiti della produzione ed i prezzi delle merci è invece un fenomeno di data recentissima. Appena negli ultimissimi tempi vediamo affiorare – e ancora soltanto in Inghilterra – tentativi in questo senso  [*7]. Tuttavia per il carattere e la tendenza queste agitazioni equivalgono interamente a quelle. A che cosa infatti si riduce necessariamente la parte attiva presa dai sindacati nello stabilire l’ampiezza ed i prezzi della produzione delle merci? A un cartello degli operai con gli imprenditori contro i consumatori e addirittura con l’impiego di misure coercitive contro gli imprenditori concorrenti che non sono in nulla da meno dei metodi delle regolari unioni di imprenditori. In fondo questa non è più una lotta tra lavoro e capitale, ma una lotta solidale del capitale e della mano d’opera contro la società consumatrice. Dal punto di vista del suo valore sociale è un atteggiamento reazionario che perciò non può costituire una tappa nella lotta del proletariato per la propria emancipazione, ma rappresenta piuttosto il contrario preciso di una lotta di classe. Dal punto di vista del suo valore pratico è un’utopia, che non può mai – come lo dimostra un momento di riflessione – estendersi a branche più vaste che producono per il mercato mondiale.

L’attività dei sindacati si limita dunque principalmente, alla lotta per i salari e per la riduzione dell’orario di lavoro, cioè semplicemente alla regolamentazione dello sfruttamento capitalistico secondo le condizioni di mercato: dalla natura stessa delle cose rimane loro preclusa ogni influenza sul processo di produzione. Anzi, tutto il corso dell’evoluzione sindacale si dirige al contrario, come ammette anche Conrad Schmidt, verso lo svincolo completo del mercato del lavoro da ogni rapporto immediato col mercato delle altre merci. A questo proposito bisogna rilevare soprattutto il fatto che persino gli sforzi di portare il contratto di lavoro almeno passivamente in rapporto immediato con la situazione generale della produzione mediante il sistema della scala mobile sono superati dall’evoluzione e le trade unions se ne staccano sempre più.

Ma anche nei limiti reali della sua azione, il movimento sindacale non va incontro, come presuppone la teoria dell’adattamento del capitale, a un’estensione illimitata. Tutt’al contrario! Se si prendono in considerazione più larghe zone dello sviluppo sociale, non si possono chiudere gli occhi davanti al fatto che nel complesso non andiamo incontro a un vittorioso spiegamento di forze -ma a crescenti difficoltà del movimento sindacale. Una volta che lo sviluppo dell’industria abbia raggiunto il culmine e che per il capitale cominci sul mercato mondiale la “curva discendente” la lotta sindacale diventa doppiamente difficile:- anzitutto peggiora per la mano d’opera la congiuntura oggettiva dei mercato, perché la domanda aumenta più lentamente e l’offerta  più  rapidamente di quanto avviene ora, e in secondo luogo il capitale stesso, per indennizzarsi delle perdite subite sul mercato mondiale, si rifarà tanto più ostinatamente sulla porzione del prodotto spettante al lavoratore. La riduzione del salario è uno dei mezzi principali di arrestare la caduta del saggio di profitto  [*9]. Già l’Inghilterra ci offre il quadro dell’incipiente secondo stadio del movimento sindacale. Per necessità esso si riduce sempre più alla semplice difesa dei risultati già ottenuti, ed anche questa diviene sempre più difficile. Contropartita di questo corso generale delle cose deve essere un nuovo vigore della lotta di classe  politica  e socialista. Conrad Schmidt commette lo stesso errore di invertire la prospettiva storica nei confronti della  riforma sociale, dalla quale si ripromette che, “dando la mano alle coalizioni sindacali operaie, detti alla classe capitalistica le condizioni alle quali soltanto le sia consentito impiegare forza di lavoro”. Nel senso della riforma sociale così concepita Bernstein chiama la legislazione di fabbrica un pezzo di “controllo sociale” e – come tale – un pezzo di socialismo. Anche Conrad Schmidt, dovunque parla della protezione statale degli operai, adopera l’espressione “controllo sociale” e dopo aver così felicemente trasformato lo Stato in società aggiunge con notevole ottimismo “cioè la classe operaia in ascesa”, e con questa operazione le innocenti norme sulla protezione degli operai del Bundesrat tedesco diventano provvedimenti socialisti di transizione presi dal proletariato tedesco.

Qui la mistificazione è palese. Lo Stato odierno non è una “società” nel senso della “classe operaia in ascesa”, ma il rappresentante della società  capitalistica, cioè uno Stato di classe. Perciò anche la riforma sociale da esso adottata non è una realizzazione del “controllo sociale”, cioè del controllo della libera società lavoratrice sul proprio processo lavorativo, ma un  controllo dell’organizzazione di classe del capitale sul processo produttivo del capitale. Qui, cioè negli interessi dei capitale, la riforma sociale trova anche i suoi limiti naturali. E’ vero che Bernstein e Conrad Schmidt anche a questo riguardo vedono nel presente solo un “debole stadio iniziale”e si ripromettono dall’avvenire una riforma sociale che si sviluppi all’infinito a favore della classe operaia. Ma compiono con ciò lo stesso errore che avevano fatto ammettendo uno spiegamento di forze illimitato dei movimento sindacale.

La teoria dell’instaurazione graduale dei socialismo a mezzo di riforme sociali presuppone –  e questo è il punto essenziale  – un determinato sviluppo obiettivo tanto della  proprietà capitalistica  quanto dello  Stato. Riguardo alla prima, lo schema dello sviluppo futuro, com’è presupposto da Conrad Schmidt, tende ad “abbassare sempre di più il proprietario del capitale, limitando i suoi diritti, fino al ruolo di un semplice gerente”.In vista della supposta impossibilità che l’espropriazione di tutti i mezzi di produzione avvenga improvvisamente in una volta sola, Conrad Schmidt crea una teoria sua dell’espropriazione graduale. A questo scopo si costruisce, come necessaria premessa, una divisione del diritto di proprietà in una “superproprietà”, che attribuisce alla “società”, che secondo lui sarebbe sempre più estesa, e in un diritto di usufrutto che nelle mani dei capitalisti si riduce sempre più, fino a divenire una semplice gestione della propria azienda. Ma questa costruzione o non è che un ingenuo gioco di parole, che non racchiude alcun pensiero importante, e perciò la teoria dell’espropriazione graduale rimane senza dimostrazione. Oppure è uno schema seriamente pensato dell’evoluzione del diritto, ma allora è completamente sbagliato. La divisione delle diverse facoltà comprese nel diritto di proprietà, alla quale si appoggia Conrad Schmidt per la sua “espropriazione graduale” del capitale, è un fenomeno caratteristico della società a economia feudale-naturale, nella quale la suddivisione del prodotto tra le diverse classi sociali avviene  in natura  e in base a rapporti personali tra i signori feudali ed i loro sudditi. La divisione della proprietà in diversi diritti parziali fu qui l’organizzazione preliminare della ripartizione della ricchezza sociale. Col passaggio alla produzione di merci e con la dissoluzione di ogni legame personale tra i singoli partecipanti al processo di produzione, si rafforzò invece il rapporto tra uomo e cosa – la proprietà privata. Non compiendosi più la ripartizione mediante rapporti personali, ma mediante lo  scambio,  i diversi diritti di partecipazione alla ricchezza sociale non si misurano più in frazioni del diritto di proprietà rispetto a un oggetto comune, ma nel  valore  portato da ciascuno sul mercato. Il primo radicale cambiamento nei rapporti giuridici, che accompagnò l’insorgere della produzione di merci nei comuni cittadini del medioevo, fu anche il nascere della proprietà privata assoluta, chiusa, nel grembo dei rapporti giuridici feudali a proprietà ripartita. Ma nella produzione capitalistica questo sviluppo procede più oltre. Quanto più il processo di produzione viene reso sociale, tanto più il processo di ripartizione si basa sul semplice scambio, tanto più intangibile e chiusa diventa la proprietà privata capitalistica e tanto più la proprietà capitalistica si trasforma da un diritto sul prodotto del proprio lavoro in un puro diritto di appropriazione rispetto al lavoro altrui. Finché il capitalista in persona dirige la fabbrica, la ripartizione si ricollega ancora, fino a un certo punto, a una partecipazione personale al processo di produzione. A misura che la direzione personale del fabbricante diviene superflua, e definitivamente nelle società per azioni, la proprietà del capitale come titolo a una pretesa nella ripartizione si separa completamente dai rapporti personali con la produzione e si manifesta nel la sua forma più pura e più chiusa. Soltanto nel capitale azionario e nel capitale creditizio industriale il diritto di proprietà capitalistica arriva al suo pieno sviluppo.

Lo schema storico dell’evoluzione del capitalista, come lo tratteggia Conrad Schmidt “da proprietario a semplice gerente” appare così come un capovolgimento dell’evoluzione reale, che al contrario conduce da proprietario e gerente a semplice proprietario. Succede così a Conrad Schmidt come dice Goethe: “Ciò che possiede, lo vede come in lontananza e ciò che è scomparso diventa per lui una realtà”.

E, come il suo schema storico dal punto di vista economico ritorna indietro dalla moderna società per azioni alla manifattura o persino alle botteghe artigiane, così dal punto di vista giuridico vuol riportare il mondo capitalistico nel guscio d’uovo dell’economia feudale naturale.

Da questo punto di vista anche il “controllo sociale”appare sotto una luce diversa da come lo vede Conrad Schmidt. Ciò che funziona oggi da “controllo sociale” – la protezione degli operai, la sorveglianza sulle società per azioni, ecc. – in realtà non ha nulla a che fare con una compartecipazione al diritto di proprietà, con una “superproprietà”. Esso si manifesta non come limitazione della proprietà capitalistica, ma al contrario come sua difesa. Oppure, per esprimerci in termini economici, esso non rappresenta un  attentato  allo sfruttamento capitalistico, ma una  regolamentazione,  un ordinamento di questo sfruttamento. E quando Bernstein pone il problema se in una legge sulle fabbriche c’è più o meno socialismo, possiamo assicurargli che nella migliore di tutte le leggi sulle fabbriche c’è altrettanto “socialismo”quanto nelle ordinanze municipali sulla pulizia delle strade e l’accensione dei fanali a gas, che sono anch’esse manifestazioni di un “controllo sociale”.
 
La seconda premessa dell’instaurazione graduale del socialismo secondo Bernstein è l’evoluzione dello Stato a società. E’ già divenuto un luogo comune che lo Stato attuale è uno Stato di classe. Ma a nostro avviso anche questo concetto, come tutto ciò che ha qualche rapporto con la società capitalistica, non dovrebbe essere preso nel suo significato rigido, assoluto, bensì nel senso fluido dell’evoluzione.
Con la vittoria politica della borghesia lo Stato è diventato uno Stato capitalistico. Naturalmente lo stesso sviluppo capitalistico altera in modo essenziale la natura dello Stato, allargando sempre più la sfera della sua attività, attribuendogli sempre nuove funzioni e, particolarmente in rapporto alla vita economica, rendendo sempre più necessaria la sua ingerenza ed il suo controllo. In questo modo si prepara gradualmente la futura fusione dello Stato con la società, cioè la devoluzione delle funzioni statali alla società. Da questo punto di vista si può anche parlare di un’evoluzione dello Stato capitalistico a società e indubbiamente in questo senso Marx dice della protezione degli operai che essa è la prima intromissione cosciente “della società” nel suo processo vitale sociale, frase alla quale si richiama Bernstein.

Ma d’altra parte nell’essenza dello Stato si compie, attraverso lo stesso sviluppo capitalistico, un’altra trasformazione. Anzitutto lo Stato odierno è un’organizzazione della classe capitalistica dominante. Se esso, nell’interesse dell’evoluzione sociale assume diverse funzioni di interesse generale, lo fa esclusivamente perché e fintantoché questi interessi e l’evoluzione sociale coincidono con gli interessi della classe dominante. La protezione degli operai p. es. è tanto nell’interesse immediato dei capitalisti come classe, quanto della società nel suo complesso. Ma questa armonia dura soltanto fino a un certo momento dello sviluppo capitalistico. Quando lo sviluppo ha raggiunto un determinato grado, gli interessi della borghesia come classe e quelli dei progresso economico cominciano a divergere, anche in senso capitalistico. Noi crediamo che questa fase sia già stata raggiunta e ciò si !manifesta nei due fenomeni più importanti della vita sociale odierna: la  politica doganale  ed il  militarismo.  Nella storia del capitalismo entrambi questi fenomeni – politica doganale e militarismo – hanno avuto una funzione indispensabile e pertanto progressista e rivoluzionaria. Senza la protezione doganale sarebbe stato quasi impossibile il sorgere della grande industria nei singoli paesi. Ma oggi le cose stanno diversamente. Oggi il dazio protettivo non serve a permettere lo sviluppo di industrie giovani, ma a mantenere artificialmente forme di produzione antiquate. Dal punto di vista dello  sviluppo  capitalistico, cioè dal punto di vista dell’economia mondiale, oggi è completamente indifferente se la Germania esporta più merci in Inghilterra o l’Inghilterra in Germania.

Dal punto di vista dello stesso sviluppo, il negro ha dunque compiuto il suo lavoro e potrebbe andarsene. Anzi,  dovrebbe  andarsene. Per la reciproca dipendenza attuale di diversi rami d’industria i dazi protettivi imposti su alcune merci devono rincarare la produzione di altre merci all’interno, e quindi inceppare nuovamente l’industria. Ma non così dal punto di vista degli interessi  della classe capitalistica.  L’industria non ha bisogno della protezione doganale per  svilupparsi,  bensì l’imprenditore per proteggere il suo  smercio.  E ciò significa che i dazi oggi non hanno più la funzione di mezzi protettivi di una produzione capitalistica in fase ascendente di fronte ad una più matura, ma di mezzi di lotta di un gruppo capitalistico nazionale contro un altro. Inoltre i dazi non sono più necessari come mezzi protettivi dell’industria, per creare e conquistare un mercato interno, bensì come mezzi indispensabili per la cartellizzazione dell’industria, cioè per la lotta del produttore capitalista con la società consumatrice. Infine, ciò che mette in rilievo nel modo più evidente il carattere specifico dell’odierna politica doganale è il fatto che ora dappertutto non è l’industria ma l’agricoltura che svolge la funzione determinante in materia di dazi, cioè che la politica doganale è divenuta addirittura un mezzo per  plasmare ed esprimere interessi feudali in forma capitalistica.

La stessa trasformazione si è verificata per il militarismo. Se noi consideriamo la storia, non come avrebbe potuto o dovuto essere, ma come fu in realtà, dobbiamo constatare che la guerra è stata il fattore necessario dell’evoluzione capitalistica. Gli Stati Uniti del Nordamerica e la Germania, l’Italia e gli Stati balcanici, la Russia e la Polonia, devono tutti alle guerre, fossero esse vittoriose o no, le premesse o l’impulso alla evoluzione capitalistica. Finché esistettero paesi, di cui bisognava superare il frazionamento interno o l’isolamento di un’economia naturale, anche il militarismo ebbe una funzione rivoluzionaria in senso capitalistico. Ma oggi anche in questo campo le cose stanno diversamente. Se la politica mondiale è divenuta teatro di minacciosi conflitti, non si tratta tanto dell’apertura di nuovi paesi per il capitalismo, quanto di antagonismi  europei  già esistenti che si sono trapiantati nelle altre parti dei mondo e là portano alla rottura. Quelli che marciano oggi l’un contro l’altro con le armi in pugno – è indifferente se in Europa o in altre parti del mondo – non sono paesi capitalistici da una parte e paesi a economia naturale dall’altra, bensì Stati che vengono spinti al conflitto proprio dall’omogeneità dei loro alto sviluppo capitalistico. Naturalmente se scoppia un conflitto in queste circostanze, esso non può non avere conseguenze fatali proprio per questo sviluppo, in quanto porterà al più profondo sovvertimento e rivolgimento della vita economica in tutti i paesi capitalistici. Ma le cose stanno diversamente dal punto di vista della  classe capitalistica.  Per essa il militarismo è divenuto oggi indispensabile sotto tre aspetti: primo, come mezzo di lotta per interessi “nazionali” concorrenti contro altri gruppi nazionali; secondo, come il principale modo di impiegare tanto il capitale finanziario quanto quello industriale e, terzo, come strumento del dominio di classe all’interno di fronte al popolo lavoratore interessi tutti che non hanno niente a che fare col progresso del modo di produzione capitalistico in sé. E ciò che meglio tradisce ancora una volta questo carattere specifico del militarismo odierno è anzitutto il suo crescere generale in tutti i paesi a gara, per così dire, per una forza propulsiva propria,- interna, meccanica, fenomeno completamente sconosciuto ancora una ventina di anni fa; e poi l’inevitabilità, la fatalità dell’esplosione che sta avvicinandosi, insieme con una completa incertezza della causa determinante, degli Stati immediatamente interessati, dell’oggetto del conflitto e di ogni altra circostanza. Per effetto della forza propulsiva dello sviluppo capitalistico anche il militarismo è diventato una malattia capitalistica.

Nel prospettato disaccordo tra lo sviluppo sociale e gli interessi della classe dominante, lo Stato si mette dalla parte di quest’ultima. Lo Stato, come la borghesia, si mette con la sua politica  in contrasto  con lo sviluppo sociale,  perde  con ciò sempre di più il suo carattere di rappresentante di tutta la società e in egual misura diventa sempre più un mero  Stato di classe.  O, meglio, per esprimerci più esattamente, queste due sue proprietà si separano l’una dall’altra e si acuiscono in una contraddizione  all’interno  dell’essenza dello Stato. E questa contraddizione diventa ogni giorno più acuta. Perché da un lato aumentano le funzioni dello Stato di carattere generale, la sua ingerenza e i suoi “controlli” nella vita sociale. D’altro lato il suo carattere classista lo costringe sempre più a spostare il centro di gravità della sua attività ed i mezzi del suo potere in campi che presentano qualche utilità soltanto per gli interessi di classe della borghesia, ma hanno solo un valore negativo nei riguardi della società, come il militarismo e la politica doganale e coloniale. In secondo luogo anche il suo “controllo sociale” viene permeato e dominato sempre più dal carattere classista (si veda come viene attuata la protezione dei lavoratori in tutti i paesi).

Al mutamento descritto nell’essenza dello Stato non contraddice, ma piuttosto corrisponde perfettamente lo sviluppo della democrazia, nella quale Bernstein vede ugualmente il mezzo di instaurare gradualmente il socialismo.

Come chiarisce Conrad Schmidt, il raggiungimento di una maggioranza socialdemocratica in parlamento dovrebbe essere addirittura la via diretta di questa socializzazione graduale della società. Ora le forme democratiche della vita politica sono indubbiamente un fenomeno che esprime al massimo grado lo sviluppo dello Stato a società e correlativamente segna una tappa verso la trasformazione socialista. Ma nel moderno parlamentarismo viene tanto più crudamente in luce il dissidio nell’essenza dello Stato capitalistico che noi abbiamo descritto. E’, vero che, formalmente, il parlamentarismo deve servire ad esprimere nell’organizzazione statale gli interessi di tutta la società. Ma d’altro lato esso è un’espressione soltanto della società capitalistica, cioè di una società nella quale sono preponderanti gli interessicapitalistici. Le istituzioni formalmente democratiche diventano con ciò sostanzialmente strumenti degli interessi della classe dominante. E questo si palesa in modo evidente nel fatto che, non appena la democrazia tende a smentire il suo carattere classista ed a -trasformarsi in uno strumento dei reali interessi del popolo, le stesse forme democratiche vengono sacrificate dalla borghesia e dalla sua rappresentanza statale. L’idea di una maggioranza parlamentare socialdemocratica appare pertanto un calcolo che rimane completamente nello spirito del liberalismo borghese, tien conto soltanto di un lato formale della democrazia, ma trascura completamente l’altro lato, il suo contenuto reale. E il parlamentarismo nel suo complesso non appare come un elemento immediatamente socialistico, che imbeve a poco a poco la società capitalistica, come ritiene Bernstein ma al contrario come un metodo specifico dello Stato di classe borghese per recare a maturità e a pieno sviluppo le contraddizioni capitalistiche.

Di fronte a questa evoluzione obiettiva dello Stato, la formula di Bernstein e di Conrad Schmidt del “controllo sociale” crescente, che dovrebbe portare direttamente al socialismo, si muta in una frase che contrasta ogni giorno di più con la realtà.

La teoria dell’instaurazione graduale del socialismo sbocca in una riforma progressiva della proprietà capitalistica e dello Stato capitalistico in senso socialista. Senonché entrambe, in forza di processi obiettivi della società attuale, si sviluppano in una direzione esattamente opposta. Il processo di produzione viene socializzato sempre di più, e sempre di più si estendono l’ingerenza e il controllo dello Stato su questo processo produttivo. Ma al tempo stesso la proprietà privata diventa ogni giorno di più una forma di puro e semplice sfruttamento capitalistico del lavoro altrui, e il controllo statale si compenetra sempre più di esclusivi interessi di classe. Così lo Stato, cioè l’organizzazione  politica, ed i rapporti di proprietà, cioè l’organizzazione  giuridica  del capitalismo, mentre diventano, via via che si sviluppano, sempre  più capitalistici  e non sempre  più socialistici, oppongono alla teoria dell’instaurazione graduale del socialismo due difficoltà insormontabili.

L’idea di Fourier, di trasformare col sistema dei falansteri tutta l’acqua marina della terra in limonata, era molto fantastica. Ma l’idea di Bernstein, di trasformare il mare dell’amarezza capitalistica, con l’aggiunta di qualche bottiglia di limonata socialriformista, in un mare di dolcezza socialista è soltanto più balorda, m per nulla meno fantastica.

I rapporti di produzione della società capitalistica si avvicinano sempre più alla forma socialistica, ma suoi rapporti politici e giuridici innalzano tra la società capitalistica e quella socialistica una barriera sempre più elevata. Lo sviluppo delle riforme sociali e della democrazia non fanno delle brecce in questa barriera, ma al contrario, l’irrigidiscono e la rafforzano. Essa potrà essere abbattuta unicamente dal colpo di maglio della rivoluzione, cioè  dalla conquista del potere politico da parte del proletariato.

Ora però come appare la teoria tradotta in pratica? A tutta prima e dal punto di vista formale,scrisse Rosa Luxemburg,  essa non si differenzia per nulla dalla prassi adottata finora nella lotta socialdemocratica. Sindacati, lotta per le riforme sociali e per la democraticizzazione delle istituzioni politiche sono la stessa cosa che ha sempre costituito il contenuto formale della attività socialdemocratica di partito. La differenza non sta dunque nel  che cosa  ma nel  come.  Attualmente la lotta sindacale e quella parlamentare vengono concepite come mezzi per guidare ed educare gradualmente il proletariato alla conquista del potere politico. Secondo la concezione revisionistica, vista l’impossibilità e l’inutilità di tale conquista, queste lotte devono essere condotte esclusivamente in considerazione dei risultati immediati, cioè il miglioramento delle condizioni materiali dei lavoratori, la limitazione graduale dello sfruttamento capitalistico e l’estensione del controllo sociale. Se prescindiamo dallo scopo del miglioramento immediato della situazione del lavoratore, che è comune a entrambe le concezioni, quella adottata comunemente finora dal partito e quella revisionistica, tutta la differenza, in poche parole, sta qui: secondo la concezione corrente il significato socialista della lotta sindacale e politica sta nel fatto che esse prepara il proletariato, cioè il fattore  soggettivo  della trasformazione socialista, a metterla in atto. Secondo Bernstein. consiste in ciò, che la lotta sindacale e la lotta politica limitano gradualmente lo stesso sfruttamento capitalistico, tolgono sempre più alla società capitalistica il suo carattere capitalistico ed aumentano quello socialistico, in una parola vogliono condurre alla trasformazione socialista in senso  oggettivo. Quando si considera la cosa più da vicino, le due concezioni sono addirittura contrapposte. Secondo la concezione usuale dei partito, il proletariato attraverso la lotta sindacale e politica, arriva a convincersi dell’impossibilità di cambiare fondamentalmente la propria situazione per mezzo di questa lotta e della conseguente imprescindibile necessità di arrivare infine alla conquista del potere politico, nella concezione di Bernstein si parte dalla premessa dell’impossibilità di conquistare il potere politico, per concludere all’instaurazione dell’ordinamento socialista unicamente per mezzo della lotta sindacale e politica.

Il carattere socialista della lotta sindacale e parlamentare sta dunque, secondo la concezione di Bernstein nel suo presunto effetto di socializzazione graduale dell’economia capitalistica. Ma quest’effetto – come abbiamo cercato di dimostrare – è in realtà pura immaginazione. Le istituzioni della proprietà e dello Stato capitalistici evolvono verso una direzione opposta. Ma con ciò la lotta pratica quotidiana della socialdemocrazia in ultima istanza perde qualunque rapporto coi socialismo. Il grande significato socialistico della lotta sindacale e di quella politica sta nel fatto che esse socializzano la  conoscenza,  la coscienza del proletariato e la organizzano come classe. Considerandoli come mezzi della socializzazione immediata dell’economia capitalistica, essi non solo rinunciano a quest’azione loro propria, ma perdono contemporaneamente anche l’altro significato: cessano di essere mezzi di educazione della classe lavoratrice per la conquista del potere da parte del proletariato.

Poggia perciò su un malinteso totale il ragionamento di Eduard Bernstein e Conrad Schmidt, quando si tranquillizzano che lo scopo finale del movimento operaio non va perduto nonostante la limitazione di tutta la lotta alle riforme sociali ed ai sindacati, perché ogni passo su questa strada trascende i suoi propri limiti e lo scopo socialistico è implicito nel movimento stesso come tendenza. Certo questo è pienamente il caso della tattica attuale della socialdemocrazia tedesca, quando cioè gli sforzi coscienti e tenaci per la conquista del potere politico orientano come stella polare la lotta sindacale e la lotta per le riforme sociali. Basta però scindere questi sforzi dal movimento e mettere la riforma sociale come scopo a sé, perché essa non solo non conduca più alla realizzazione dello scopo finale socialista, ma proprio dalla parte opposta. Conrad Schmidt si fida semplicemente del movimento per così dire meccanico che una volta messo in moto non può più fermarsi da sé e precisamente in base al semplice concetto che l’appetito vien mangiando e la classe lavoratrice non si accontenterà mai delle riforme ottenute, finché non sarà compiuta la trasformazione socialistica. L’ultima premessa è realmente giusta e ci è garante di questo l’insufficienza delle riforme sociali capitalistiche. Ma la conseguenza che ne viene dedotta potrebbe essere vera soltanto se si potesse costruire una ininterrotta catena di riforme sociali sempre maggiori e progressive dall’ordinamento odierno della società immediatamente a quello socialista. Ma questa è una fantasia; secondo la natura delle cose la catena si spezza assai presto e le vie che il movimento può seguire dopo quel punto sono molteplici.

Il risultato più vicino e probabile che ne consegue è un cambiamento di direzione nella tattica per rendere, possibili con tutti i mezzi i risultati pratici della lotta, le riforme sociali. Il netto, inconciliabile punto di vista classista, che ha senso soltanto in considerazione di uno sforzo per la conquista del potere politico, diventerebbe sempre più un semplice ostacolo non appena lo scopo principale fosse rappresentato da risultati pratici immediati. Il prossimo passo è dunque una “politica di compensazione” – in buon tedesco una politica di mercato di vacche – e un atteggiamento conciliante, diplomaticamente astuto. Ma il movimento non può rimanere fermo a lungo. Ora, poiché la riforma sociale nel mondo capitalistico è una noce vuota e tale rimarrà sempre, comunque si cambi la tattica, il passo successivo è logicamente la delusione anche sulle riforme sociali, cioè il porto tranquillo dove ora se ne stanno tranquillamente all’àncora i professori Schmoller e compagni, i quali sulle acque delle riforme sociali hanno studiato tutto il mondo grande e piccolo, per lasciare infine che tutto vada come Dio vuole  [*10]. Il socialismo, pertanto, non è il risultato che nasca di per sé e in ogni circostanza dalla lotta quotidiana della classe operaia. Esso risulta soltanto dalle contraddizioni sempre più acute dell’economia capitalistica e dal riconoscimento da parte della classe operaia della necessità assoluta della sua soppressione in virtù di un rivolgimento sociale. Quando si neghi una cosa e si rifiuti l’altra, come fa il revisionismo, il movimento operaio si riduce senz’altro a un semplice giuoco con i sindacati e le riforme sociali e in modo affatto naturale si arriva in ultima analisi all’abbandono del punto di vista di classe.

Queste conseguenze si rendono evidenti anche quando si considera la teoria revisionistica ancora da un altro lato e ci si pone la domanda: qual è il carattere generale di questa concezione? E’ chiaro che il revisionismo non è basato sul terreno dei rapporti capitalistici e non nega, come fanno gli economisti borghesi, le loro contraddizioni. Nella sua teoria esso parte piuttosto, come la concezione marxista, dalla premessa dell’esistenza di tali contraddizioni. D’altra parte però – e questo è tanto il nocciolo della sua concezione in generale quanto la sua differenza sostanziale dalla concezione socialdemocratica finora abituale – nella sua teoria esso non si basa sul  superamento  di queste contraddizioni attraverso il loro sviluppo conseguente.

La sua teoria sta a metà tra i due estremi, non vuole portare a completa maturità le contraddizioni capitalistiche e, quand’esse hanno raggiunto il culmine toglierle di mezzo con un rivolgimento rivoluzionario, ma togliere loro le punte,  smussarle. Così la mancanza delle crisi e l’organizzazione degli imprenditori smussano la contraddizione tra la produzione e lo scambio; il miglioramento della situazione del proletariato e la sopravvivenza del medio ceto quella tra capitale e lavoro; il controllo sempre crescente e la democrazia quella tra Stato di classe e società.

Naturalmente nemmeno la tattica corrente della socialdemocrazia consiste nell’attendere lo  sviluppo delle contraddizioni capitalistiche fino all’acme e un loro mutamento repentino soltanto allora. Al contrario, ci basiamo semplicemente sulla  direzione  ormai riconosciuta dello sviluppo ma poi nella lotta politica portiamo all’estremo le sue conseguenze e in ciò sta l’essenza di ogni tattica rivoluzionaria in generale. Così per esempio la socialdemocrazia combatte le dogane ed il militarismo in tutti i tempi, non solamente quando si è rivelato completamente il loro carattere reazionario. Ma Bernstein nella sua tattica si basa in generale non sull’ulteriore sviluppo p sull’acutizzazione delle contraddizioni capitalistiche, bensì sulla loro attenuazione. Egli stesso lo ha rilevato nel modo più evidente, parlando di un “adattamento” l’economia capitalistica. Dove troverebbe giustificazione un simile modo di vedere? Tutte le contraddizioni della società odierna sono semplici conseguenze del modo dì produzione capitalistico. Quando si ammetta che questo modo di produzione si sviluppi ulteriormente nella direzione seguita finora, devono ulteriormente svilupparsi tutte le conseguenze che gli sono indissolubilmente unite, e le contraddizioni devono acuirsi ed accentuarsi anziché attenuarsi. Perché si verificasse quest’ultimo caso, bisognerebbe porre al contrario come condizione che il modo di produzione capitalistico stesso venga ostacolato nel suo sviluppo. In una parola il presupposto più generale della teoria di Bernstein è un  arresto dello sviluppo capitalistico.

Ma con ciò la teoria si condanna da sé, e doppiamente. Perché anzitutto essa dimostra il suo carattere soltanto  utopistico  in rapporto allo scopo finale socialista – è evidente a priori che uno sviluppo capitalistico stagnante non può condurre, alla trasformazione socialista – e con ciò abbiamo la conferma della nostra concezione delle conseguenze pratiche della teoria. In secondo luogo essa rivela il suo carattere  reazionario  in rapporto al rapido sviluppo capitalistico che in realtà sta compiendosi. Ed ora si impone la domanda: come si può spiegare o meglio caratterizzare la concezione di Bernstein di fronte a questo reale sviluppo capitalistico?

Che le premesse economiche dalle quali parte Bernstein nella sua analisi delle condizioni sociali odierne la sua teoria dell”adattamento” capitalistico – siano infondate, crediamo di aver dimostrato nella prima parte. Vedemmo allora che né il credito né i cartelli possono essere considerati come “mezzi di adattamento” dell’economia capitalistica, né la temporanea assenza di crisi e la sopravvivenza del medio ceto possono essere considerati come sintomi dell’adattamento capitalistico. Ma alla base di tutti i suddescritti particolari della teoria dell’adattamento – prescindendo dalla loro reale falsità – sta ancora un tratto caratteristico comune. Questa teoria non concepisce tutti i fenomeni della vita economica presi in considerazione, come elementi organici dello sviluppo capitalistico complessivo, ma avulsi da questi rapporti, come fenomeni a se stanti, come  disjecta membra  (parti staccate) di una macchina priva di vita. Cosi per esempio la concezione dell’azione del  credito  come mezzo di adattamento. Quando si consideri il credito come il più alto gradino naturale dello scambio, in correlazione con tutte le contraddizioni inerenti allo scambio capitalistico, è impossibile vedere in esso un “mezzo di adattamento” meccanico, quasi fosse qualche cosa di estraneo al processo di scambio, allo stesso modo come non si possono considerare “mezzi di adattamento” il denaro ,stesso, le merci, il capitale. Il credito è, senza alcuna differenza nei confronti dei denaro, merci e capitale, un, elemento organico dell’economia capitalistica a un determinato grado di sviluppo e a questo livello forma, esattamente come gli altri elementi, una ruota indispensabile del suo ingranaggio, come pure uno strumento della sua distruzione, in quanto rafforza le sue contraddizioni interne.

Lo stesso vale ugualmente per i cartelli e per i mezzi di comunicazione perfezionati.
La stessa concezione meccanica e non dialettica si riconosce nel modo con cui Bernstein considera l’assenza delle crisi come un sintomo dell'”adattamento” dell’economia capitalistica. Per lui le crisi ‘sono semplicemente perturbazioni del meccanismo economico e quando mancano è evidente che il meccanismo può funzionare regolarmente. Ma le crisi in realtà non sono “perturbazioni” in senso proprio, o piuttosto sono perturbazioni, senza le quali però l’economia capitalistica non potrebbe assolutamente sussistere. t un fatto che le crisi, in poche parole, rappresentano i soli mezzi possibili, e perciò normalissimi, di risolvere periodicamente su base capitalistica il dissidio tra l’illimitata capacità di espansione della produzione ed i limiti ristretti del mercato di smercio, e quindi anche le crisi sono fenomeni organici inscindibili dall’economia capitalistica complessiva.

Se la produzione capitalistica progredisse “senza perturbazioni” andrebbe incontro a pericoli maggiori delle crisi stesse. Tale è infatti la caduta costante del tasso di profitto, derivante non dalla contraddizione tra produzione e smercio, ma dallo sviluppo della produttività del lavoro stesso, che ha la pericolosissima tendenza a rendere impossibile la produzione a tutti i capitali piccoli e medi e a porre così limiti alla formazione nuova ed al progresso degli impieghi di capitale. Proprio le crisi, che traggono origine dallo stesso processo da cui derivano le altre conseguenze,  svalutando  periodicamente il capitale, ribassando il prezzo dei mezzi di produzione e paralizzando una parte del capitale attivo, determinano in pari tempo l’aumento dei profitti e così fanno posto a nuovi impieghi di capitale e quindi a nuovi progressi della produzione. In questo senso esse appaiono come mezzi atti ad attizzare e ravvivare sempre da capo il fuoco dello sviluppo capitalistico e la loro assenza, non limitata a determinati momenti dello sviluppo del mercato mondiale, come noi l’ammettiamo, bensì definitiva, non farebbe fiorire l’economia capitalistica, come pensa Bernstein, ma l’affogherebbe addirittura in un pantano. Nel suo modo di pensare meccanico, denunciato da tutta la teoria dell’adattamento, Bernstein trascura completamente l’ineluttabilità tanto delle crisi quanto dei nuovi impieghi periodicamente ricorrenti di piccoli e medi capitali, per cui a costante rinascita del piccolo capitale sembra a lui segno dell’arresto capitalistico e non, com’è in realtà, del normale sviluppo capitalistico.

Esiste tuttavia un punto di vista dal quale tutti i fenomeni considerati si presentano realmente così come li concepisce la “teoria dell’adattamento” ed è precisamente il punto di vista del  singolo  capitalista, come arrivano alla sua coscienza i fatti della vita economica, deformati dalle leggi della concorrenza. Il singolo capitalista anzitutto vede realmente ogni elemento organico dell’insieme economico come un tutto a se stante ed inoltre vede questi fenomeni, a seconda del modo con cui agiscono su di lui, singolo capitalista, come semplici “perturbazioni” o semplici “mezzi di adattamento”. Per il singolo capitalista le crisi sono realmente semplici perturbazioni e la loro mancanza gli garantisce una vita più lunga; per lui ugualmente il credito è un mezzo di “adattare” le sue forze produttive insufficienti alle esigenze del mercato, per lui infine un cartello, del quale entra a far parte, elimina veramente l’anarchia della produzione.

In una parola la teoria dell’adattamento di Bernstein non è altro che una generalizzazione teorica del modo di vedere del singolo capitalista. Ma che altro è questo modo di vedere, esposto in modo teorico, se non l’essenza e la caratteristica dell’economia borghese volgare? Tutti gli errori economici di questa scuola poggiano appunto sull’equivoco per cui i fenomeni della concorrenza, visti attraverso gli occhi del singolo capitalista, vengono scambiati per fenomeni dell’economia capitalistica nel suo complesso. E come fa Bernstein per il credito, così l’economia volgare considera ancora p. es. il  denaro  come un geniale “mezzo di adattamento” alle necessità dello scambio e cerca anche negli stessi fenomeni capitalistici un contravveleno contro i mali capitalistici, crede, d’accordo con Bernstein, alla  possibilità  di regolare l’economia capitalistica e infine sbocca anch’essa, come in definitiva la teoria di Bernstein, in un’attenuazione  delle contraddizioni capitalistiche e in una cicatrizzazione delle ferite capitalistiche. cioè in altre parole in un sistema reazionario, anziché rivoluzionario, e quindi in un’utopia.
La teoria revisionistica nel suo complesso si può dunque caratterizzare nel modo seguente: è  una teoria del ristagno socialistico, motivata in termini di economia volgare con una teoria del ristagno capitalistico.
Nel campo della politica il revisionismo ha tentato di rivedere di fatto il principio fondamentale del marxismo, e cioè la dottrina della lotta di classe. La libertà politica, la democrazia, il suffragio universale distruggono le basi della lotta di classe – ci si è detto – e smentiscono il vecchio principio del  Manifesto comunista: gli operai non hanno patria. In regime democratico poichè è la “volontà” della maggioranza che regna, non sarebbe più possibile vedere nello Stato un organo di dominio di classe ne sottrarsi ad alleanze con la borghesia progressiva socialriformatrice contro i reazionari.

E’ fuori discussione che queste obiezioni dei revisionisti formavano un sistema abbastanza armonico, il sistema delle concezioni liberali borghesi da tempo conosciute. I liberali hanno sempre affermato che il parlamentarismo borghese distrugge le classi e la divisione in classi, dal momento che il diritto di voto, il diritto di partecipare agli affari dello Stato appartengono a tutti i cittadini senza distinzione. Tutta la storia dell’Europa nella seconda metà del secolo XIX, tutta la storia della rivoluzione russa all’inizio del secolo XX dimostrano all’evidenza quanto sono assurde queste concezioni. Con la libertà del capitalismo “democratico” la differenziazione economica non si attenua, ma si accentua e si aggrava. Il parlamentarismo non elimina, ma mette a nudo l’essenza delle repubbliche borghesi più democratiche come organi di oppressione di classe. Aiutando a illuminare e a organizzare masse popolari infinitamente più grandi di quelle che partecipavano prima attivamente agli avvenimenti politici, il parlamentarismo non prepara in questo modo l’eliminazione delle crisi e delle rivoluzioni politiche, ma il massimo di acutezza della guerra civile durante queste rivoluzioni. Gli avvenimenti di Parigi nella primavera del 1871 e quelli della Russia nell’inverno del 1905 hanno dimostrato chiaro come la luce del sole che è inevitabile si giunga a una tale acutezza. La borghesia francese per soffocare il movimento proletario non esitò un istante a mettersi d’accordo col nemico nazionale e coll’esercito straniero, che aveva saccheggiato la patria. Chi non comprende l’inevitabile dialettica interna del parlamentarismo e della democrazia borghese, che porta a risolvere i conflitti ricorrendo a forme sempre più aspre di violenza di massa, non saprà mai condurre nemmeno sul terreno del parlamentarismo una propaganda e un’agitazione che siano conformi ai princípi e preparino veramente le masse operaie a partecipare vittoriosamente a questi “conflitti”. L’esperienza delle alleanze, degli accordi e dei blocchi col liberalismo socialriformista in occidente e col riformismo liberale (cadetti) nella rivoluzione russa ha dimostrano in modo convincente che questi accordi non fanno che annebbiare la coscienza delle masse, non accentuano ma attenuano l’importanza effettiva della loro lotta, legando i combattenti agli elementi più inetti alla lotta, più instabili e inclini al tradimento. Il millerandismo francese, che è l’esperienza più notevole di applicazione della tattica politica revisionista su grande scala, su una scala veramente nazionale, ha dato del revisionismo un giudizio pratico che il proletariato di tutto il mondo non dimenticherà mai.

Il complemento naturale delle tendenze economiche e politiche del revisionismo è stato il suo atteggiamento verso l’obiettivo finale del movimento socialista. “Il fine non è nulla, il movimento è tutto”, queste parole alate di Bernstein esprimono meglio di lunghe dissertazioni l’essenza del revisionismo. Determinare la propria condotta caso per caso: adattarsi agli avvenimenti del giorno, alle svolte provocate da piccoli fatti politici; dimenticare gli interessi vitali del proletariato e i tratti fondamentali di tutto il regime capitalista, di tutta l’evoluzione del capitalismo; sacrificare questi interessi vitali a un vantaggio reale o supposto del momento, tale è la politica revisionista. Dall’essenza stessa di questa politica risulta chiaramente che essa può assumere forme infinitamente varie e che ogni problema più o meno “nuovo”, ogni svolta più o meno inattesa e imprevista – anche se mutano il corso essenziale degli avvenimenti in una misura infima per un brevissimo periodo di tempo – devono portare inevitabilmente all’una o all’altra varietà di revisionismo.

Ciò che rende inevitabile il revisionismo sono le sue radici di classe nella società moderna. Il revisionismo è fenomeno internazionale. Per ogni socialista più o meno accorto e pensante non può esistere il minimo dubbio che i rapporti fra gli ortodossi e i seguaci di Bernstein in Germania, fra i seguaci di Guesde e di Jaurès (ora, in particolar modo, i seguaci di Brousse) in Francia, fra la Federazione socialdemocratica e il Partito operaio indipendente in Inghilterra, fra de Brouckère e Vandervelde nel Belgio, fra integralisti e riformisti in Italia, fra bolscevichi e menscevichi in Russia, sono, dappertutto, nella loro essenza, omogenei, malgrado l’enorme differenza delle condizioni nazionali e della situazione storica di questi paesi nel momento presente. La “differenziazione” in seno al socialismo internazionale contemporaneo si produce di fatto già ora secondo una linea  unica  nei diversi paesi del mondo, attestando con ciò l’immenso progresso compiuto in confronto a 30-40 anni fa, quando nei differenti paesi lottavano fra di loro in seno al socialismo internazionale unico tendenze eterogenee. E quel “revisionismo di sinistra” che è apparso ora nei paesi latini sotto forma di “sindacalismo rivoluzionario” si adatta esso pure al marxismo “correggendolo”. Labriola in Italia, Lagardelle in Francia fanno appello ad ogni passo a un Marx ben compreso contro un Marx mal compreso.

Non possiamo qui soffermarci ad analizzare il contenuto ideologico di questo revisionismo, che è ancora ben lontano dall’essersi così sviluppato come il revisionismo opportunista, non è diventato internazionale e non ha sostenuto praticamente nessuna battaglia importante col partito socialista in nessun paese. Ci limiteremo perciò al “revisionismo di destra” che abbiamo descritto più sopra.
Che cosa rende inevitabile il revisionismo nella società capitalista? Perchè il revisionismo è più profondo delle particolarità nazionali e dei gradi di sviluppo del capitalismo? Perchè in ogni paese capitalista esistono sempre, accanto al proletariato, larghi strati di piccola borghesia, di piccoli proprietari. Il capitalismo è nato e nasce continuamente dalla piccola produzione. Nuovi numerosi “strati medi” vengono inevitabilmente creati dal capitalismo (appendici della fabbrica, lavoro a domicilio, piccoli laboratori che sorgono in tutto il paese per sovvenire alla necessità della grande industria, come quella delle biciclette e dell’automobile, per esempio). Questi nuovi piccoli produttori sono essi pure in modo inevitabile respinti nuovamente nelle file del proletariato. E’ del tutto naturale quindi che le concezioni piccolo-borghesi penetrino nuovamente nelle file dei grandi partiti operai. E’ del tutto naturale che debba essere così e sarà così sempre, sino allo sviluppo della rivoluzione proletaria, perchè sarebbe un grave errore pensare che per compiere questa rivoluzione sia necessaria la proletarizzazione “completa” della maggioranza della popolazione. Ciò che noi sperimentiamo ora spesso soltanto nel campo ideologico: le discussioni contro le correzioni teoriche di Marx; ciò che ora non si manifesta nella pratica che a proposito di certi problemi particolari del movimento operaio: le divergenze tattiche coi revisionisti e le scissioni che si producono su questo terreno tutto ciò la classe operaia dovrà inevitabilmente subirlo ancora in proporzioni incomparabilmente più grandi quando la rivoluzione proletaria avrà acutizzato tutti i problemi controversi, avrà concentrato tutte le divergenze sui punti che hanno l’importanza più diretta per determinare la condotta delle masse e ci avrà imposto, nel fuoco del combattimento, di discernere i nemici dagli amici e di respingere i cattivi alleati per infliggere al nemico colpi decisivi.

La lotta ideologica del marxismo rivoluzionario contro il revisionismo alla fine del secolo XIX non è che il preludio delle grandi battaglie rivoluzionarie del proletariato, che avanza verso la completa vittoria della sua causa, nonostante tutti i tentennamenti e le debolezze degli elementi piccolo-borghesi.

***

 Nel porsi tale dilemma, essi si inserivano in una linea di pensiero che risaliva al principe degli economisti, il banchiere David Ricardo.

Nel saggio sull’influenza del prezzo del grano suo  profitti, scritto in polemica con Robert Malthus, Ricardo sosteneva che le leggi sul grano penalizzavano l’economia inglese, spingendo i landlords alla messa a coltura delle terre meno fertili, le quali, facendo lievitare il prezzo del pane, nella sua veste di alimento base, portava ad un aumento dei salari che provocava una riduzione dei profitti. Essa, a sua volta, causava una caduta degli investimenti, quindi del reddito nazionale, considerato da Ricardo nella forma di produit net.

In termini formali, se Y è il reddito nazionale, P sono i profitti, R sono le rendite, W sono i salari

Y = P+R+W

dalla quale è facile vedere che se i salari crescono, a causa delle rendite, i profitti, calcolati come residuo, diminuiscono. Diminuendo i profitti, diminuiscono necessariamente anche gli investimenti. Nelle  parole di Ricardo.

We have seen that the price of corn is regulated by the quantity of labour necessary to produce it, with that portion of capital which pays no rent. We have seen, too, that all manufactured commodities rise and fall in price, in proportion as more or less labour becomes necessary to their production. Neither the farmer who cultivates that quantity of land, which regulates price, nor the manufacturer, who manufactures goods, sacrifice any portion of the produce for rent. The whole value of their commodities is divided into two portions only: one constitutes the profits of stock, the other the wages of labour

Supposing corn and manufactured goods always to sell at the same price, profits would be high or low in proportion as wages were low or high. But suppose corn to rise in price because more labour is necessary to produce it; that cause will not raise the price of manufactured goods in the production of which no additional quantity of labour is required. If, then, wages continued the same, the profits of manufacturers would remain the same; but if, as is absolutely certain, wages should rise with the rise of corn, then their profits would necessarily fall.

Domanda. Poteva l’uso delle macchine evitare tutto ciò? Ecco la risposta di Ricardo.

Ever since I first turned my attention to questions of political economy, I have been of opinion, that such an application of machinery to any branch of production, as should have the effect of saving labour, was a general good, accompanied only with that portion of inconvenience which in most cases attends the removal of capital and labour from one employment to another. It appeared to me, that provided the landlords had the same money rents, they would be benefited by the reduction in the prices of some of the commodities on which those rents were expended, and which reduction of price could not fail to be the consequence of the employment of machinery. The capitalist, I thought, was eventually benefited precisely in the same manner. He, indeed, who made the discovery of the machine, or who first usefully applied it, would enjoy an additional advantage, by making great profits for a time; but, in proportion as the machine came into general use, the price of the commodity produced, would, from the effects of competition, sink to its cost of production, when the capitalist would get the same money profits as before, and he would only participate in the general advantage, as a consumer, by being enabled, with the same money revenue, to command an additional quantity of comforts and enjoyments. The class of labourers also, I thought, was equally benefited by the use of machinery, as they would have the means of buying more commodities with the same money wages, and I thought that no reduction of wages would take place, because the capitalist would have the power of demanding and employing the same quantity of labour as before, although he might be under the necessity of employing it in the production of a new, or at any rate of a different commodity. If, by improved machinery, with the employment of the same quantity of labour, the quantity of stockings could be quadrupled, and the demand for stockings were only doubled, some labourers would necessarily be discharged from the stocking trade; but as the capital which employed them was still in being, and as it was the interest of those who had it to employ it productively, it appeared to me that it would be employed on the production of some other commodity, useful to the society, for which there could not fail to be a demand; for I was, and am, deeply impressed with the truth of the observation of Adam Smith, that “the desire for food is limited in every man, by the narrow capacity of the human stomach, but the desire of the conveniences, and ornaments of building, dress, equipage and household furniture, seems to have no limit or certain boundary.” As, then, it appeared to me that there would be the same demand for labour as before, and that wages would be no lower, I thought that the labouring class would, equally with the other classes, participate in the advantage, from the general cheapness of commodities arising from the use of machinery

These were my opinions, and they continue unaltered, as far as regards the landlord and the capitalist; but I am convinced, that the substitution of machinery for human labour, is often very injurious to the interests of the class of labourers.

My mistake arose from the supposition, that whenever the net income of a society increased, its gross income would also increase; I now, however, see reason to be satisfied that the one fund, from which landlords and capitalists derive their revenue, may increase, while the other, that upon which the labouring class mainly depend, may diminish, and therefore it follows, if I am right, that the same cause which may increase the net revenue of the country, may at the same time render the population redundant, and deteriorate the condition of the labourer.

A capitalist we will suppose employs a capital of the value of £20,000 and that he carries on the joint business of a farmer, and a manufacturer of necessities. We will further suppose, that £7,000 of this capital is invested in fixed capital, viz. in buildings, implements, &c. &c. and that the remaining £13,000 is employed as circulating capital in the support of labour. Let us suppose, too, that profits are 10 per cent, and consequently that the capitalist’s capital is every year put into its original state of efficiency, and yields a profit of £2,000.

Each year the capitalist begins his operations, by having food and necessaries in his possession of the value of £13,000, all of which he sells in the course of the year to his own workmen for that sum of money, and, during the same period, he pays them the like amount of money for wages: at the end of the year they replace in his possession food and necessaries of the value of £15,000, £2,000 of which he consumes himself, or disposes of as may best suit his pleasure and gratification. As far as these products are concerned, the gross produce for that year is £15,000, and the net produce £2,000. Suppose now, that the following year the capitalist employs half his men in constructing a machine, and the other half in producing food and necessaries as usual. During that year he would pay the sum of £13,000 in wages as usual, and would sell food and necessaries to the same amount to his workmen; but what would be the case the following year?

While the machine was being made, only one-half of the usual quantity of food and necessaries would be obtained, and they would be only one-half the value of the quantity which was produced before. The machine would be worth £7,500, and the food and necessaries £7,500, and, therefore, the capital of the capitalist would be as great as before; for he would have besides these two values, his fixed capital worth £7,000, making in the whole £20,000 capital, and £2,000 profit. After deducting this latter sum for his own expenses, he would have a no greater circulating capital than £5,500 with which to carry on his subsequent operations; and, therefore, his means of employing labour, would be reduced in the proportion of £13,000 to £5,500, and, consequently, all the labour which was before employed by £7,500, would become redundant.

The reduced quantity of labour which the capitalist can employ, must, indeed, with the assistance of the machine, and after deductions for its repairs, produce a value equal to £7,500, it must replace the circulating capital with a profit of £2,000 on the whole capital; but if this be done, if the net income be not diminished, of what importance is it to the capitalist, whether the gross income be of the value of £3,000, of £10,000, or of £15,000?

In this case, then, although the net produce will not be diminished in value, although its power of purchasing commodities may be greatly increased, the gross produce will have fallen from a value of £15,000 to a value of £7,500, and as the power of supporting a population, and employing labour, depends always on the gross produce of a nation, and not on its net produce, there will necessarily be a diminution in the demand for labour, population will become redundant, and the situation of the labouring classes will be that of distress and poverty.

As, however, the power of saving from revenue to add to capital, must depend on the efficiency of the net revenue, to satisfy the wants of the capitalist, it could not fail to follow from the reduction in the price of commodities consequent on the introduction of machinery, that with the same wants he would have increased means of saving—increased facility of transferring revenue into capital. But with every increase of capital he would employ more labourers; and, therefore, a portion of the people thrown out of work in the first instance, would be subsequently employed; and if the increased production, in consequence of the employment of the machine, was so great as to afford, in the shape of net produce, as great a quantity of food and necessaries as existed before in the form of gross produce, there would be the same ability to employ the whole population, and, therefore, there would not necessarily be any redundancy of people.

All I wish to prove, is, that the discovery and use of machinery may be attended with a diminution of gross produce; and whenever that is the case, it will be injurious to the labouring class, as some of their number will be thrown out of employment, and population will become redundant, compared with the funds which are to employ it.

The case which I have supposed, is the most simple that I could select; but it would make no difference in the result, if we supposed that the machinery was applied to the trade of any manufacturer,—that of a clothier, for example, or of a cotton manufacturer. If in the trade of a clothier, less cloth would be produced after the introduction of machinery; for a part of that quantity which is disposed of for the purpose of paying a large body of workmen, would not be required by their employer. In consequence of using the machine, it would be necessary for him to reproduce a value, only equal to the value consumed, together with the profits on the whole capital. £7,500 might do this as effectually as £15,000 did before, the case differing in no respect from the former instance. It may be said, however, that the demand for cloth would be as great as before, and it may be asked from whence would this supply come? But by whom would the cloth be demanded? By the farmers and the other producers of necessaries, who employed their capitals in producing these necessaries as a means of obtaining cloth: they gave corn and necessaries to the clothier for cloth, and he bestowed them on his workmen for the cloth which their work afforded him.

This trade would now cease; the clothier would not want the food and clothing, having fewer men to employ and having less cloth to dispose of. The farmers and others, who only produced necessaries as means to an end, could no longer obtain cloth by such an application of their capitals, and, therefore, they would either themselves employ their capitals in producing cloth, or would lend them to others, in order that the commodity really wanted might be furnished; and that for which no one had the means of paying, or for which there was no demand, might cease to be produced. This, then, leads us to the same result; the demand for labour would diminish, and the commodities necessary to the support of labour would not be produced in the same abundance.

If these views be correct, it follows, 1st: That the discovery, and useful application of machinery, always leads to the increase of the net produce of the country, although it may not, and will not, after an inconsiderable interval, increase the value of that net produce.

2dly. That an increase of the net produce of a country is compatible with a diminution of the gross produce, and that the motives for employing machinery are always sufficient to insure its employment, if it will increase the net produce, although it may, and frequently must, diminish both the quantity of the gross produce, and its value.

3dly. That the opinion entertained by the labouring class, that the employment of machinery is frequently detrimental to their interests, is not founded on prejudice and error, but is conformable to the correct principles of political economy.

4thly. That if the improved means of production, in consequence of the use of machinery, should increase the net produce of a country in a degree so great as not to diminish the gross produce, (I mean always quantity of commodities and not value,) then the situation of all classes will be improved. The landlord and capitalist will benefit, not by an increase of rent and profit, but by the advantages resulting from the expenditure of the same rent, and profit, on commodities, very considerably reduced in value, while the situation of the labouring classes will also be considerably improved; 1st, from the increased demand for menial servants; 2dly, from the stimulus to savings from revenue, which such an abundant net produce will afford; and 3dly, from the low price of all articles of consumption on which their wages will be expended.

Independently of the consideration of the discovery and use of machinery, to which our attention has been just directed, the labouring class have no small interest in the manner in which the net income of the country is expended, although it should, in all cases, be expended for the gratification and enjoyments of those who are fairly entitled to it.

If a landlord, or a capitalist, expends his revenue in the manner of an ancient baron, in the support of a great number of retainers, or menial servants, he will give employment to much more labour, than if he expended it on fine clothes, or costly furniture; on carriages, on horses, or in the purchase of any other luxuries.

In  both cases the net revenue would be the same, and so would be the gross revenue, but the former would be realised in different commodities. If my revenue were £10,000, the same quantity nearly of productive labour would be employed, whether I realised it in fine clothes and costly furniture, &c. &c. or in a quantity of food and clothing of the same value. If, however, I realised my revenue in the first set of commodities, no more labour would beconsequently  employed:—I should enjoy my furniture and my clothes, and there would be an end of them; but if I realised my revenue in food and clothing, and my desire was to employ menial servants, all those whom I could so employ with my revenue of £10,000, or with the food and clothing which it would purchase, would be to be added to the former demand for labourers, and this addition would take place only because I chose this mode of expending my revenue. As the labourers, then, are interested in the demand for labour, they must naturally desire that as much of the revenue as possible should be diverted from expenditure on luxuries, to be expended in the support of menial servants.

In the same manner, a country engaged in war, and which is under the necessity of maintaining large fleets and armies, employs a great many more men than will be employed when the war terminates, and the annual expenses which it brings with it, cease.

If I were not called upon for a tax of £500 during the war, and which is expended on men in the situations of soldiers and sailors, I might probably expend that portion of my income on furniture, clothes, books, &c. &c. and whether it was expended in the one way or in the other, there would be the same quantity of labour employed in production; for the food and clothing of the soldier and sailor would require the same amount of industry to produce it as the more luxurious commodities; but in the case of the war, there would be the additional demand for men as soldiers and sailors; and, consequently, a war which is supported out of the revenue, and not from the capital of a country, is favourable to the increase of population.

Determination of the war, when part of my revenue reverts to me, and is employed as before in the purchase of wine, furniture, or other luxuries, the population which it before supported, and which the war called into existence, will become redundant, and by its effect on the rest of the population, and its competition with it for employment, will sink the value of wages, and very materially deteriorate the condition of the labouring classes.

There is one other case that should be noticed of the possibility of an increase in the amount of the net revenue of a country, and even of its gross revenue, with a diminution of demand for labour, and that is, when the labour of horses is substituted for that of man. If I employed one hundred men on my farm, and if I found that the food bestowed on fifty of those men, could be diverted to the support of horses, and afford me a greater return of raw produce, after allowing for the interest of the capital which the purchase of the horses would absorb, it would be advantageous to me to substitute the horses for the men, and I should accordingly do so; but this would not be for the interest of the men, and unless the income I obtained, was so much increased as to enable me to employ the men as well as the horses, it is evident that the population would become redundant, and the labourers’ condition would sink in the general scale. It is evident he could not, under any circumstances, be employed in agriculture; but if the produce of the land were increased by the substitution of horses for men, he might be employed in manufactures, or as a menial servant.

The statements which I have made will not, I hope, lead to the inference that machinery should not be encouraged. To elucidate the principle, I have been supposing, that improved machinery is  suddenly  discovered, and extensively used; but the truth is, that these discoveries are gradual, and rather operate in determining the employment of the capital which is saved and accumulated, than in diverting capital from its actual employment.

With every increase of capital and population, food will generally rise, on account of its being more difficult to produce. The consequence of a rise of food will be a rise of wages, and every rise of wages will have a tendency to determine the saved capital in a greater proportion than before to the employment of machinery. Machinery and labour are in constant competition, and the former can frequently not be employed until labour rises.

In America and many other countries, where the food of man is easily provided, there is not nearly such great temptation to employ machinery as in England, where food is high, and costs much labour for its production. The same cause that raises labour, does not raise the value of machines, and, therefore, with every augmentation of capital, a greater proportion of it is employed on machinery. The demand for labour will continue to increase with an increase of capital, but not in proportion to its increase; the ratio will necessarily be a diminishing ratio.68*

I have before observed, too, that the increase of net incomes, estimated in commodities, which is always the consequence of improved machinery, will lead to new savings and accumulations. These savings, it must be remembered are annual, and must soon create a fund, much greater than the gross revenue, originally lost by the discovery of the machine, when the demand for labour will be as great as before, and the situation of the people will be still further improved by the increased savings which the increased net revenue will still enable them to make.

The employment of machinery could never be safely discouraged in a State, for if a capital is not allowed to get the greatest net revenue that the use of machinery will afford here, it will be carried abroad, and this must be a much more serious discouragement to the demand for labour, than the most extensive employment of machinery; for, while a capital is employed in this country, it must create a demand for some labour; machinery cannot be worked without the assistance of men, it cannot be made but with the contribution of their labour. By investing part of a capital in improved machinery, there will be a diminution in the progressive demand for labour; by exporting it to another country, the demand will be wholly annihilated.

The prices of commodities, too, are regulated by their cost of production. By employing improved machinery, the cost of production of commodities is reduced, and, consequently, you can afford to sell them in foreign markets at a cheaper price. If, however, you were to reject the use of machinery, while all other countries encouraged it, you would be obliged to export your money, in exchange for foreign goods, till you sunk the natural prices of your goods to the prices of other countries. In making your exchanges with those countries, you might give a commodity which cost two days labour, here, for a commodity which cost one, abroad, and this disadvantageous exchange would be the consequence of your own act, for the commodity which you export, and which cost you two days labour, would have cost you only one if you had not rejected the use of machinery, the services of which your neighbours

Marx sviluppò una linea di ragionamento che seguiva il solco tracciato da Ricardo. Per Marx, com’è noto, il profitto è la forma trasformata del plusvalore [I. Steedman Marx dopo Sraffa, Editori riuniti]. Come si evince dal teorema di Okishio e Morishima. c’è un proftto, se esiste un plusvalore [M. Morishima La teoria economica di Marx, Isedi]. L’ammontare del plusvalore dipende, a sua volta, dal saggio di sfruttamento, quello che gli economisti chiamano produttività del lavoro. In termini formali, il modello di Marx può essere così rappresentato.

N =f (I)
I = f(p, w)
w = f(E)
p = f (s, q)

dove N è l’occupazione, I sono gli investimenti, p il saggio di profitto, w è il saggio salariale, E è l’esercito industriale di riserva, s è i saggio di sfruttamento, q è la composizione organica del capitale. Ne derivava, per Marx, che, con il procedere del processo di accumulazione del captale, si assottigliava l’esercito industriale di riserva, vulgo, il nmero dei senza lavoro; ciò faceva aumentare i salari. L’aumento dei salari, induceva i capitalisti a sostituire i lavoratori con macchine. Ciò aumentava lo stock di capitale, in simboli, q, che a parità di saggio di plusvalore, s, determinava la caduta dio p, saggio del profitto.  Nelle parole di Marx.

A salario e a giornata lavorativa determinati, un capitale variabile, per esempio di 100, rappresenta un determinato numero di operai messi in movimento; esso è l’indice di questo numero. Supponiamo che 24.000 € rappresenti per esempio il salario di una settimana per 100 operai.

Se essi eseguono un lavoro necessario uguale al plus-lavoro, ovvero se essi svolgono ogni giorno per se stessi, cioè per riprodurre il proprio salario, un lavoro la cui durata sia identica a quella del lavoro eseguito per il capitalista, ossia per la produzione del plusvalore, il valore totale del loro prodotto sarà di 48.000 € e il plusvalore generato da essi sarà di 24.000 €. Il saggio del plusvalore (pv’) sarebbe

pv’ = pv : v = 100%

Questo saggio del plusvalore si esprimerebbe tuttavia, come si è visto, in saggi del profitto assai diversi a seconda della differente grandezza del capitale costante  (c) e quindi del capitale complessivo C, dato che il saggio di profitto (p’) è   

p’ = pv : C = pv : (c + v)

Se il saggio del plusvalore è del 100%, si avrà:

c
v
C
pv
pv%
Valore prodotto
p’
I
50
100
150
100
100
250
66,66
II
100
100
200
100
100
300
50
III
200
100
300
100
100
400
33,33
VI
300
100
400
100
100
500
25
V
400
100
500
100
100
600
20
A grado di sfruttamento del lavoro invariato, questo saggio del plusvalore si esprimerebbe in un saggio decrescente del profitto, dato che insieme alla sua entità materiale aumenta anche, seppure non nella medesima proporzione, la grandezza di valore del capitale costante e quindi del capitale complessivo.

Se si suppone inoltre che questo progressivo mutamento della composizione del capitale non si verifichi solo in alcune sfere isolate di produzione ma, in misura maggiore o minore, in tutte o almeno in quelle di maggiore importanza; se tale cambiamento modifica quindi la composizione media organica del capitale complessivo appartenente ad una determinata società, questo progressivo aumento del capitale costante in rapporto a quello variabile deve portare per forza di cose a una progressiva diminuzione del saggio generale del profitto, restando immutato il saggio del plusvalore o il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale. Tuttavia abbiamo dimostrato che, grazie ad una legge della produzione capitalistica, lo sviluppo di quest’ultima si accompagna a una relativa riduzione del capitale variabile nei confronti di quello costante, e quindi anche al capitale complessivo  messo in movimento.

Ciò significa soltanto che lo stesso numero di operai e la medesima quantità di forza- lavoro, divenuti disponibili tramite il capitale variabile di una certa grandezza, in seguito ai particolari metodi di produzione sviluppatisi nella produzione capitalistica, pongono in attività, utilizzano, consumano in maniera produttiva durante lo stesso periodo di tempo una massa sempre più grande di mezzi di lavoro, di macchine e di capitale fisso di ogni genere, di materie prime ausiliarie, e quindi un capitale costante di valore sempre maggiore.

Questa progressiva diminuzione del capitale variabile in rapporto a quello costante, e quindi di quello complessivo, è uguale al progressivo aumento della composizione organica del capitale complessivo considerato nella sua media.

Ugualmente essa è solo una nuova espressione del sempre più intenso sviluppo della produttività sociale del lavoro, che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo del crescente impiego di macchine e di capitale fisso in generale, nello stesso tempo vengono trasformate in prodotti, da un identico numero di operai, cioè con un lavoro minore, una maggiore quantità di materie prime e ausiliarie. A questo crescente incremento di valore del capitale costante — malgrado esso non rappresenti che in minima parte l’incremento della massa effettiva dei valori d’uso che formano materialmente il capitale costante — corrisponde una crescente diminuzione di prezzo del prodotto.

Ogni prodotto, preso per se stesso, contiene una somma minore di lavoro di quanto si registra nei gradi meno sviluppati della produzione, in cui la grandezza relativa del capitale investito nel lavoro nei confronti di quello investito in mezzi di produzione è molto maggiore. Ed è per questo che la tabella riportata all’inizio di questo capitolo come esempio, rappresenta l’effettiva tendenza della produzione capitalistica.

Insieme alla sempre più accentuata diminuzione relativa del capitale variabile rispetto a quello costante, tale tendenza dà luogo ad una più alta composizione organica del capitale complessivo,  ciò comporta il fatto che il saggio del plusvalore, qualora il grado di sfruttamento del lavoro resti costante oppure aumenti, trova espressione in un saggio generale del profitto che decresce continuamente (più oltre faremo vedere le ragioni per cui tale diminuzione non appare in questa forma assoluta, ma piuttosto in una tendenza alla diminuzione progressiva).

La tendenza progressiva alla diminuzione del saggio generale del profitto non è quindi che un’espressione peculiare del modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro. Ciò non significa che il saggio del profitto non possa temporaneamente diminuire anche per altri motivi, ma significa che, in conseguenza della stessa natura della produzione capitalistica e come una necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in un calo del saggio generale del profitto. Dato che la massa di vivo lavoro utilizzato diminuisce di continuo rispetto alla massa di lavoro oggettivato che essa ha posto in movimento (cioè rispetto ai mezzi di produzione consumati produttivamente), anche la parte di questo vivo lavoro che non è pagato e che si oggettiva in plusvalore dovrà essere in proporzione sempre decrescente nei confronti del valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto fra la massa del plusvalore ed il capitale complessivo impiegato costituisce però il saggio del profitto, che dovrà di conseguenza diminuire costantemente.

Per quanto la legge appaia semplice dopo le illustrazioni fin qui date, l’economia (come vedremo in una delle sezioni che seguono) sino a questo momento non è riuscita a scoprirla. Essa ha constatato la esistenza del fenomeno e si è data da fare per spiegarlo con tentativi contraddittori. Considerata l’enorme importanza che questa legge riveste nella produzione capitalistica, possiamo dire che essa costituisce il mistero da svelare alla cui soluzione si è affaticata tutta l’economia politica sin da Adam Smith; la differenza tra le diverse scuole, da Smith in poi, sta nei differenti tentativi per trovare tale soluzione. Del resto, se pensiamo che l’economia politica ha sino a questo momento cercato a tentoni di formulare la differenza fra capitale costante e capitale variabile senza riuscirvi con precisione, che non ha mai fatto distinzione fra plusvalore e profitto, né ha mai spiegato cos’è il profitto puro separato dai vari elementi che lo costituiscono che sono resi reciprocamente indipendenti come profitto industriale, commerciale, interesse, rendita fondiaria; che non ha mai fatto un’analisi esauriente delle differenze nella composizione organica del capitale e ancor meno nella formazione del saggio generale del profitto, allora non ci si deve più meravigliare del fatto che essa non sia mai riuscita a trovare soluzione a tale problema.

Proprio per questo formuliamo la legge in oggetto prima di illustrare la scomposizione del profitto in varie categorie reciprocamente indipendenti.

Quanto diciamo non tiene conto del fatto che il profitto è diviso in varie parti che spettano a diverse categorie di persone e questo sin dal primo momento sta a dimostrare l’indipendenza della legge, nel suo carattere generale, da una simile divisione e dai rapporti reciproci delle categorie di profitto che ne risultano.

Il profitto cui ci riferiamo adesso non è che un’altra denominazione dello stesso plusvalore, considerato in rapporto al capitale complessivo invece che al capitale variabile, da cui trae origine.

La diminuzione del saggio del profitto sta ad esprimere quindi il rapporto decrescente tra lo stesso plusvalore e il capitale complessivo anticipato, ed è quindi indipendente da qualsiasi ripartizione di questo plusvalore tra varie categorie.

Ora, l’errore di Marx consistette nel tenere ferma la produttività del lavoro. Se, infatti,

p = s/(C+V)

dove C è il capitale fisso e V è il capitale variabile, si vede chiaramente che la variazione di s può contrastare positivamente la variazione di c e v . Matematicamente, Marx studia la variazione e tralascia di studiare la variazione della variazione [J. Robinson Marx e la scienza economica, La nuova Italia]. Di grande interesse in questo contesto è lo studio di >plusvalore.
II. RIDUZIONE DEL SALARIO AL DI SOTTO DEL SUO VALORE .

Questo fattore viene ricordato semplicemente a titolo empirico perché in realtà, unitamente a molti altri che dovrebbero essere qui menzionati, non ha nulla a che vedere con l’analisi generale del capitale ma appartiene allo studio della concorrenza di cui non ci occupiamo in questa opera.

Esso rappresenta per altro una delle cause più importanti che frenano la tendenza alla caduta del saggio del profitto.

III. DIMINUZIONE DI PREZZO DEGLI ELEMENTI DEL CAPITALE COSTANTE.

Qui trova applicazione tutto quanto è stato detto nella prima sezione di Il capiale  sulle cause che aumentano il saggio del profitto pur rimanendo costante il saggio del plusvalore o anche indipendentemente da esso e soprattutto il fatto che, dal punto di vista del capitale complessivo, il valore del capitale costante non si accresce nella stessa proporzione del suo volume materiale.

Ad esempio, la quantità di cotone lavorata da un solo operaio filatore europeo in una fabbrica moderna si è accresciuta in proporzioni colossali rispetto a quella che un filatore europeo riusciva a produrre in tempi passati con il filatoio a ruota. Ma il valore del cotone lavorato non presenta un aumento proporzionale alla sua massa. Il medesimo fenomeno si riscontra per le macchine e per tutto il capitale fisso. In breve, la stessa evoluzione, che porta all’aumento della massa del capitale costante rispetto al variabile, tende a far diminuire, in seguito alla crescente produttività del lavoro, il valore degli elementi che lo costituiscono ed impedisce di conseguenza che il valore del capitale costante (per quanto in continuo aumento) si accresca nella stessa proporzione della sua massa materiale, cioè della massa materiale dei mezzi di produzione messi in opera da una stessa quantità di forza-lavoro. In alcuni casi particolari può anche accadere che la massa degli elementi del capitale costante si accresca mentre il suo valore rimane invariato od anche diminuisce.

Queste considerazioni hanno valore anche per quanto riguarda la svalorizzazione del capitale esistente, ossia degli elementi materiali che lo costituiscono, derivante dallo sviluppo dell’industria. Esso pure rappresenta uno dei fattori che agiscono continuamente per ostacolare la caduta del saggio del profitto, quantunque in particolari circostanze possa ridurre la massa del profitto, riducendo la massa del capitale che produce il profitto.

Resta qui ancora una volta dimostrato che le medesime cause che determinano la tendenza alla caduta del saggio del profitto agiscono al tempo stesso da freno nei suoi confronti.

IV. LA SOVRAPPOPOLAZIONE RELATIVA.

Lo sviluppo della produttività del lavoro, che si esprime in una diminuzione del saggio del profitto, crea necessariamente ed accelera condizioni di relativa sovrappopolazione che assume manifestazioni tanto più evidenti quanto più sviluppato è il modo capitalistico di produzione di un paese. Dalla sovrappopolazione relativa deriva da un lato — a causa della diminuzione di costo e dell’aumento di massa degli operai disponibili o licenziati, come pure della resistenza maggiore che, per la loro natura intrinseca, alcuni rami di produzione oppongono alla sostituzione delle macchine al lavoro manuale — il prolungarsi in molti rami produttivi della più o meno incompleta subordinazione del lavoro al capitale, la quale persiste più a lungo di quanto non lo comporti a prima vista il grado generale dello sviluppo. D’altro lato però sorgono nuove industrie, soprattutto per la produzione di beni di lusso, le quali si fondano proprio su quella popolazione relativa che si trova sovente disoccupata in seguito alla preponderanza del capitale costante in altri rami di produzione, poggiano a loro volta sulla preponderanza degli elementi del lavoro vivo e solo gradualmente percorrono la stessa evoluzione degli altri rami di produzione. In entrambi i casi il capitale variabile assume una notevole importanza rispetto al capitale complessivo ed il salario rimane al di sotto della media, cosicché in questi rami di produzione tanto il saggio quanto la massa del plusvalore risultano eccezionalmente elevati.

Poiché il saggio generale del profitto è formato dal livellamento dei saggi del profitto nei particolari rami di produzione, anche in questo caso la medesima causa che provoca la tendenza alla caduta del saggio di profitto, agisce da contrappeso a questa tendenza e ne paralizza l’effetto in grado maggiore o minore.

V. IL COMMERCIO ESTERO.

Il commercio estero, in quanto fa diminuire di prezzo sia gli elementi del capitale costante che i mezzi di sussistenza necessari nei quali si converte il capitale variabile, tende ad accrescere il saggio del profitto, aumentando il saggio del plusvalore e diminuendo il valore del capitale costante.

Esercita in generale un’azione in questo senso perché rende possibile un ampliamento della scala di produzione. Da un lato quindi accelera l’accumulazione, dall’altro invece favorisce la diminuzione del capitale variabile rispetto al costante e quindi la caduta del saggio del profitto. Parimenti, l’ampliamento del commercio estero che costituiva la base della produzione capitalistica durante la sua infanzia, ne diventa un prodotto quando essa comincia a svilupparsi, in conseguenza della necessità intrinseca di questo modo di produzione, del suo bisogno di un mercato sempre più esteso. Si mostra qui ancora una volta la stessa contraddittorietà dell’azione esercitata. (Ricardo ha completamente trascurato questo aspetto del commercio estero).

Un’altra questione — che per il suo specifico carattere esula veramente dal campo della nostra indagine — è la seguente: il saggio generale del profitto risulterà accresciuto in conseguenza del più elevato saggio del profitto prodotto da un capitale che sia investito nel commercio estero e soprattutto coloniale?

I capitali investiti nel commercio estero possono offrire un saggio del profitto più elevato soprattutto perché in tal caso fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli; il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore, quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti.

Fino a che il lavoro del paese più progredito viene in tali circostanze utilizzato come lavoro di un peso specifico superiore, il saggio del profitto aumenta in quanto il lavoro che non è pagato come lavoro di qualità superiore, viene venduto come tale.

La stessa situazione si può presentare rispetto ad un paese con il quale si stabiliscono rapporti di importazione e di esportazione: esso fornisce in natura una quantità di lavoro oggettivato superiore a quello che riceve e tuttavia ottiene la merce più a buon mercato di quanto non potrebbe esso stesso produrre.

Caso analogo a quello di un fabbricante che, sfruttando una nuova invenzione prima che sia diventata di dominio pubblico, vende a minor prezzo dei suoi con correnti e tuttavia al di sopra del valore individuale della sua merce: utilizza insomma come pluslavoro la produttività specifica superiore del lavoro da lui impiegato, realizzando così un sovrapprofitto.

Per quanto riguarda i capitali investiti nelle colonie ecc., essi possono offrire un saggio del profitto superiore sia perché di regola il saggio del profitto è più elevato in questi paesi a causa dell’insufficiente sviluppo della produzione, sia perché con l’impiego degli schiavi e dei coolies ecc. il lavoro viene sfruttato più intensa mente.

Non si comprende ora il motivo per cui i maggiori saggi del profitto prodotti da capitali investiti in certi particolari rami produttivi e fatti proseguire verso la madre patria, non debbano qui — eccettuato nel caso che incontrino l’ostacolo di monopoli — intervenire ai fini del livellamento del saggio generale del profitto, elevandolo quindi pro tanto: soprattutto quando l’investimento di capitale avviene in rami produttivi sottoposti alle leggi della libera concorrenza.

Ricardo al contrario ragionava nel modo seguente: i prezzi superiori ottenuti all’estero servono per acquistarvi delle merci che vengono inviate in patria e ivi vendute, cosicché ne può derivare al massimo un temporaneo beneficio a favore di questi rami privilegiati di produzione rispetto agli altri meno favoriti. Ragionamento tuttavia che cade non appena si faccia astrazione dalla forma monetaria. Il paese maggiormente favorito riceve un quantitativo di lavoro superiore a quello che offre in cambio, nonostante che questa differenza, questo sovrappiù, come del resto avviene in ogni scambio fra lavoro e capitale, vada a vantaggio solo di una determinata classe.

In quanto dunque il saggio del profitto è più elevato, ed in generale è più elevato in colonia, esso può accompagnarsi, qualora le condizioni naturali siano favorevoli, a un livello inferiore dei prezzi. Si stabilisce una perequazione, ma non al livello primitivo, come Ricardo pensa.

Ma lo stesso commercio estero produce a sua volta alla lunga l’effetto opposto sviluppando all’interno il modo capitalistico di produzione, provocando con ciò la diminuzione del capitale variabile rispetto al costante e dando luogo d’altro lato ad una sovrapproduzione in rapporto alla domanda estera.

E così si è visto, in generale, che le medesime cause che determinano la caduta del saggio del profitto, danno origine a forze antagonistiche che ostacolano, rallentano e parzialmente paralizzano questa caduta. E se non fosse per questa azione contrastante non sarebbe la caduta del saggio del profitto ad essere incomprensibile, ma al contrario la relativa lentezza di questa caduta. In tal modo la legge si riduce ad una semplice tendenza, la cui efficacia si manifesta in modo convincente solo in condizioni determinate e nel corso di lunghi periodi di tempo.

Prima di proseguire nella nostra indagine, al fine di evitare malintesi, vogliamo ripetere ancora una volta due principi, su cui peraltro ci siamo ripetutamente soffermati.

Primo: Il medesimo processo che determina durante lo sviluppo della produzione capitalistica la diminuzione di prezzo delle merci, produce una modificazione nella composizione organica del capitale sociale investito nella produzione delle merci ed in conseguenza la caduta del saggio del profitto. La diminuzione del costo relativo di ogni singola merce, come pure della parte di questo costo che rappresenta il logorio del macchinario, non deve dunque essere identificata con il valore crescente del capitale costante confrontato con quello del capitale variabile, quantunque inversamente ogni diminuzione del costo relativo del capitale costante, restando invariato od anche aumentando il volume dei suoi elementi materiali, — agisce sull’aumento del saggio del profitto, vale a dire sulla diminuzione pro tanto del valore del capitale costante in rapporto al capitale variabile, impiegato in proporzioni decrescenti.

Secondo: il fatto che il lavoro vivo addizionale che è contenuto nelle singole merci, la cui somma costituisce il prodotto del capitale, sta in un rapporto decrescente con i materiali di lavoro in esse incorporati e con i mezzi di lavoro in esse consumati; il fatto che una quantità sempre decrescente di lavoro vivo addizionale si trova oggettivata nelle singole merci, perché in seguito allo sviluppo della forza produttiva sociale esse richiedono per la loro produzione una massa minore di lavoro — tutto questo non altera la proporzione secondo cui il lavoro vivo contenuto nella merce si ripartisce fra lavoro pagato e non pagato. Al contrario. Benché la quantità complessiva del lavoro vivo addizionale in essa contenuta diminuisca, la parte non pagata aumenta rispetto a quella pagata in seguito alla diminuzione assoluta o relativa di questa ultima; poiché lo stesso modo di produzione, che diminuisce in una merce la massa complessiva del lavoro vivo addizionale provoca un aumento del plusvalore assoluto e relativo. La caduta tendenziale del saggio del profitto è collegata con un aumento tendenziale del saggio del plusvalore, ossia del grado di sfruttamento del lavoro. Nulla di più assurdo, allora, che spiegare la diminuzione del saggio del profitto con l’aumento del saggio dei salari, quantunque anche questo fatto possa presentarsi in via eccezionale. La statistica sarà in grado di intraprendere una vera analisi sul saggio dei salari per diverse epoche e per diversi paesi solo quando abbia compreso i rapporti che determinano il saggio del profitto.

Il saggio del profitto diminuisce non perché il lavoro diviene meno produttivo, ma perché la sua produttività aumenta. L’aumento del saggio del plusvalore e la diminuzione del saggio del profitto non sono che forme particolari che costituiscono l’espressione capitalistica della crescente produttività del lavoro.

VI. L’ACCRESCIMENTO DEL CAPITALE AZIONARIO.

Ai cinque fattori sopra analizzati, può essere ancora aggiunto il seguente, nel quale non possiamo tuttavia per il momento addentrarci più profondamente. A misura che la produzione capitalistica, che va di pari passo con l’accumulazione accelerata, si sviluppa, una parte del capitale viene calcolata ed impiegata unicamente come capitale produttivo di interessi: non però nel senso che ogni capitalista il quale presti del capitale si accontenta degli interessi, mentre il capitalista industriale intasca il guadagno di imprenditore.

Questo non ha nulla a che vedere col livello del saggio generale del profitto, poichè per esso il profitto corrisponde: all’interesse + profitto di qualsiasi natura + rendita fondiaria, indipendentemente dalla ripartizione fra queste diverse categorie; ma nel senso che questi capitali, quantunque investiti in grandi imprese industriali, come per esempio le ferrovie, una volta dedotti tutti i costi, rendono semplicemente degli interessi più o meno considerevoli, i cosi detti dividendi.

Questi capitali non entrano nel livellamento del saggio generale del profitto, dando essi un saggio del profitto inferiore alla media: qualora vi entrassero questo saggio diminuirebbe in misura ben maggiore.

Da un punto di vista teorico si potrebbe tenerne conto e si otterrebbe allora un saggio del profitto minore di quello che esiste in apparenza e che fa in realtà decidere i capitalisti, poiché è precisamente in queste imprese che il capitale costante è più grande in rapporto al variabile.

In questo modo, Marx gettò le basi della teoria dell’imperialismo. Come scrisse infatti Lenin, uno dei tratti più caratteristici del capitalismo è costituito dall’immenso incremento dell’industria e dal rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più ampie. Gli ultimi censimenti industriali offrono ragguagli completi e esatti su tale processo.

In Germania, per esempio, su ogni mille imprese industriali si avevano, nel 1882, tre grandi aziende, cioè con più di 50 operai salariati; sei nel 1895; nove nel 1907. Erano dipendenti dalle grandi aziende, rispettivamente il 22%, il 30% e il 37% di tutti gli operai. Ma il lavoro nelle grandi aziende essendo molto più produttivo, la produzione si concentra molto più intensamente della mano d’opera, come è dimostrato dai dati che si hanno sulle macchine a vapore e sui motori elettrici. Se si tien conto di tutto ciò che in Germania si designa come industria, nel senso più ampio della parola, includendovi il commercio, i mezzi di comunicazione, ecc., si ottiene il quadro seguente:

 

Numero

Milioni
di operai

Forza-vapore
in milioni di cavalli

Elettricità in 
milioni di chilowatt

Imprese in generale

3.265.623

14,4

8,8

1,5

Grandi aziende

30.588

5,7

6,6

1,2

Percentuale

0,9

39,4

75,3

80

 

Meno di una centesima parte delle aziende dispone  di più  di tre quarti della quantità totale della forza-vapore e dell’energia elettrica! Alle 2.970.000 piccole aziende (con non più di cinque operai) che costituiscono il 91% del numero totale delle aziende, spetta in tutto il 7% della forza-vapore e dell’energia elettrica! Alcune decine di migliaia di grandi aziende sono tutto; milioni di piccole aziende, niente.

Nel 1907 v’erano in Germania 586 aziende con mille e più operai, ed esse disponevano di quasi  un decimo  (1.380.000) del numero complessivo dei lavoratori e di  quasi un terzo  (32% del totale di forza-vapore e di energia elettrica. Come vedremo, il capitale monetario e le banche rendono ancora più opprimente, nel senso letterale della parola, questa preponderanza di un piccolo gruppo di grandi aziende; cioè milioni di piccoli, medi e, in parte, perfino alcuni dei grandi “padroni” si trovano interamente alle dipendenze di poche centinaia di milionari dell’alta finanza.

Ancora più rapido è il processo di concentrazione della produzione in un altro dei paesi avanzati del moderno capitalismo, cioè negli Stati Uniti d’America. Qui la statistica distingue l’industria in senso stretto, e raggruppa le aziende secondo il valore della produzione annua. Annoverando tra le grandi aziende tutte le imprese aventi una produzione annua di oltre un milione di dollari, si ha il seguente quadro:

 

Numero

Milioni di lavoratori

Produzione annua 
in miliardi di dollari

1904:

 
 
 
Imprese in generale. . . .

216.180

5,5

14,8

Grandi aziende. . . .

1.900

1,4

5,6

Percentuale. . . .

0,9

25,6

38

 
 
 
 
1909

 
 
 
Imprese in generale. . . .

268.491

6,6

20,7

Grandi aziende. . . . . .

3.060

2,0

9,0

Percentuale . . . . . . .

1,1

30,5

43,8

Quasi la metà dell’intera produzione di tutte le imprese del paese è nelle mani di  una centesima partedel numero complessivo delle aziende! E queste 3 mila aziende gigantesche lavorano in 268 rami dell’industria. Da ciò risulta che la concentrazione, a un certo punto della sua evoluzione, porta, per così dire, automaticamente alla soglia del monopolio. Infatti riesce facile a poche decine di imprese gigantesche di concludere reciproci accordi, mentre, d’altro lato, sono appunto le grandi dimensioni delle rispettive aziende che rendono difficile la concorrenza e suscitano, esse stesse, la tendenza al monopolio. Questa trasformazione della concorrenza nel monopolio rappresenta uno dei fenomeni più importanti – forse anzi il più importante nella economia del capitalismo moderno e noi non possiamo fare a meno di esaminarla ampiamente. Ma anzitutto dobbiamo eliminare un possibile equivoco.

La statistica americana parla di 3.000 imprese gigantesche in 250 rami industriali, sicché a ciascun ramo spetterebbero 12 grandi imprese.

Ma così non è in realtà. Non in tutti i rami industriali esistono grandi aziende, e inoltre una delle più importanti caratteristiche del capitalismo giunto al suo massimo grado di sviluppo è costituita dalla cosiddetta  combinazione, cioè dall’unione in un’unica impresa di diversi rami industriali, sia che si tratti di fasi successive della lavorazione delle materie prime (per esempio, estrazione della ghisa dal minerale di ferro, produzione dell’acciaio ed eventualmente fabbricazione di prodotti diversi in acciaio), sia che si tratti di rami industriali ausiliari l’uno rispetto all’altro (per esempio, la lavorazione di cascami e di sottoprodotti, la fabbricazione di materiali da imballaggio, ecc.).

Come Hilferding aveva scritto nel 191 in Il capitale fianziario, “Peraltro la combinazione: a) livella le differenze congiunturali, garantendo così una maggiore stabilità al saggio di profitto dell’impresa combinata; b) determina l’eliminazione del commercio; c) amplia le possibilità di progresso tecnico favorendo con ciò il conseguimento di extraprofitti rispetto all’impresa non combinata; d) nella lotta concorrenziale, rafforza la posizione dell’impresa combinata contro l’impresa non associata durante i periodi di forte depressione, quando cioè la caduta del prezzo della materia prima non è proporzionale a quella del prezzo del prodotto finito”.

L’economista borghese tedesco Heymann, nel suo libro sulle imprese “miste” , cioè combinate, nell’industria siderurgica tedesca, scrive: “Le imprese semplici sono schiacciate tra l’alto prezzo dei materiali e il basso prezzo dei prodotti fabbricati… “. Si ha il quadro seguente:

“Sono rimaste superstiti da un lato le grandi compagnie carbonifere, con una produzione di milioni di tonnellate, saldamente organizzate nel loro sindacato del carbone, e dall’altro le grandi fabbriche siderurgiche, unite nel loro sindacato dell’acciaio; fra i due gruppi vi sono legami strettissimi. Queste gigantesche imprese con la loro produzione annua di 400.000 tonnellate d’acciaio, che implica un’enorme produzione degli altiforni, di carbone, di minerale di ferro, con una enorme fabbricazione di articoli di acciaio, con i loro 10.000 operai accasermati nei quartieri delle fabbriche in parte già provviste di proprie ferrovie e porti, sono le rappresentanti tipiche dell’industria siderurgica tedesca. E la concentrazione avanza sempre, senza sostare mai. Le singole aziende s’ingrandiscono incessantemente; sempre più numerose sono le aziende dello stesso ramo di industria o di rami diversi, che si fondono insieme in imprese gigantesche, aventi il loro sostegno e la loro direzione in una mezza dozzina di grandi banche di Berlino. Per quanto concerne l’industria mineraria tedesca si è dimostrata esatta la teoria di Karl Marx sulla concentrazione; vero è che ciò si riferisce ad un paese nel quale l’industria è difesa dai dazi protettivi e da speciali tariffe di trasporto. L’industria mineraria tedesca è matura per l’espropriazione”.

Questa è la conclusione, a cui è dovuto giungere un coscienzioso (in via di eccezione) economista borghese. Occorre notare che egli colloca la Germania in una categoria speciale per gli alti dazi che proteggono le sue industrie. Ma questa circostanza, tutt’al più, ha potuto accelerare la concentrazione e la formazione di consorzi monopolistici degli imprenditori, di cartelli, di sindacati, ecc. E’ di somma importanza il fatto cheanche  nel paese classico della libertà di commercio, in Inghilterra, la concentrazione dirige il monopolio, sebbene un po’ più tardi e forse in forma diversa. il professor Hermann Levy, nel suo studio intitolato Monopoli, cartelli e trust, scrive quanto segue intorno all’evoluzione economica della Gran Bretagna.

“In Gran Bretagna sono precisamente la grandezza dell’impresa e lo sviluppo della sua potenzialità le cause che racchiudono in sé la tendenza monopolistica. Da una parte la concentrazione ha portato ad investire in ogni impresa capitali enormi, perciò le nuove imprese s’imbattono in sempre maggiori necessità di capitale, e questo intralcia il loro sorgere. D’altra parte (e questo ci sembra il punto più importante) ogni nuova impresa, che voglia stare a pari con le gigantesche imprese già esistenti, formatesi con un processo di concentrazione, deve aumentare la quantità dei prodotti offerti a un punto tale che o interviene un enorme aumento della domanda il quale permetta di smerciarli con profitto, o ne deriva un abbassamento immediato dei prezzi a un livello non redditizio né per la nuova impresa, né per le vecchie combinazioni monopolistiche”.

A differenza di altri paesi, dove il movimento di concentrazione è favorito dagli alti dazi protettivi, in Gran Bretagna le unioni monopolistiche di imprenditori, i cartelli e i trust, sorgono, in linea generale, soltanto quando le principali imprese concorrenti sono ridotte a non più di un “paio di dozzine”. “Qui l’influenza della concentrazione sulla formazione dei monopoli nella grande industria appare con evidenza cristallina”.

Allorché Marx scriveva il Capitale, la grande maggioranza degli economisti considerava la libertà di commercio una “legge naturale”. La scienza ufficiale ha tentato di seppellire con la congiura del silenzio l’opera di Marx, che, mediante l’analisi teorica e storica del capitalismo, ha dimostrato come la libera concorrenza determini la concentrazione della produzione, e come questa, a sua volta, a un certo grado di sviluppo, conduca al monopolio. Oggi il monopolio è una realtà. Gli economisti scrivono montagne di libri per descrivere le diverse manifestazioni del monopolio e nondimeno proclamano in coro che il “marxismo è confutato”. Ma i fatti sono ostinati -dicono gli inglesi- e con essi, volere o no, si debbono fare i conti. I fatti provano che le differenze tra i singoli paesi capitalistici, per esempio in rapporto al protezionismo e alla libertà degli scambi, determinano soltanto differenze non essenziali nelle forme del monopolio, o nel momento in cui appare, ma il sorgere dei monopoli, per effetto del processo di concentrazione, è, in linea generale, legge universale e fondamentale dell’odierno stadio di sviluppo del capitalismo.

Per l’Europa si può stabilire con una certa esattezza l’epoca in cui il nuovo capitalismo ha sostituitodefinitivamente il vecchio: fu all’inizio del ventesimo secolo. In un recentissimo compendio della storia della “formazione dei monopoli” si legge:

“Si possono trovare esempi isolati di monopoli capitalistici già nel periodo anteriore al 1860, e in essi si può scoprire l’embrione delle forme che oggi ci sono diventate così abituali; ma questa è senza dubbio la preistoria. Il vero inizio dei moderni monopoli risale al massimo al decennio che va dal 1860 al 1870. Il primo loro grande periodo di sviluppo è connesso alla grande depressione internazionale degli anni settanta e giunge fino al 1890… Considerando soltanto l’Europa, la libera concorrenza è al suo apogeo nel 1860-1880. In questo periodo l’Inghilterra termina di organizzare il suo capitalismo vecchio stile. In Germania tale organizzazione si faceva strada impetuosamente, in lotta con l’artigianato e con l’industria domestica e cominciava a crearsi forme d’esistenza …

“Il grande rivolgimento ebbe inizio col crac del 1873 più esattamente con la depressione che gli tenne dietro; la quale, tranne un’appena sensibile interruzione all’inizio degli anni ottanta e lo slancio poderosissimo, ma di breve durata, verso il 1889, per circa 22 anni riempie la storia dell’economia europea … Nel breve periodo di ascesa del 1889-1890 fu largamente adoperata l’organizzazione dei cartelli per sfruttare la congiuntura. Una politica poco oculata spinse i prezzi rapidamente più in alto di quanto sarebbe avvenuto senza i cartelli, e quasi tutti questi cartelli andarono a finire ingloriosamente nella tomba del crac. Seguì un altro lustro di scarsa attività e di bassi prezzi, ma ormai nell’industria lo stato d’animo era mutato. Non si considerava più lo depressione come qualche cosa di naturale, bensì come un periodo di pausa precedente un nuovo periodo favorevole.

“Lo sviluppo dei cartelli entrò allora nel secondo periodo. Non sono più un fenomeno transitorio, ma una delle basi di tutta la vita economica. Essi conquistano una sfera dell’industria dopo l’altra, e anzitutto l’industria della lavorazione delle materie prime. Già all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, i cartelli avevano elaborato nel sindacato del coke, sul modello del quale fu più tardi costituito quello del carbon fossile, una tecnica consorziale oltre la quale, in fondo, il movimento di concentrazione non è mai andato, nemmeno posteriormente. Il grande slancio degli affari verso la fine del secolo e la crisi del 1900-1903 si svolsero interamente, almeno nelle industrie minerarie e siderurgiche, per la prima volta, sotto il segno dei cartelli. E se ciò allora era considerato come una novità, nel frattempo è divenuto evidente nella coscienza di tutti il fatto che grandi parti della vita economica sono state sistematicamente sottratte alla libera concorrenza “

Pertanto, i risultati fondamentali della storia dei monopoli sono i seguenti:

1) 1860-1870, apogeo della libera concorrenza. I monopoli sono soltanto in embrione.

2) Dopo la crisi del 1873, ampio sviluppo dei cartelli. Sono però ancora l’eccezione e non sono ancora stabili. Sono un fenomeno di transizione.

3) Ascesa degli affari alla fine del secolo XIX e crisi del 1900-1903. I cartelli diventano una delle basi di tutta la vita economica. Il capitalismo si è trasformato in imperialismo.

I cartelli si mettono d’accordo sulle condizioni di vendita, i termini di pagamento, ecc. Si ripartiscono i mercati. Stabiliscono la quantità delle merci da produrre. Fissano i prezzi. Ripartiscono i profitti tra le singole imprese, ecc.

In Germania il numero dei cartelli ascendeva a circa 250 nel 1896, a 385 nel 1905, e vi partecipavano circa 12.000 aziende  . Ma è generalmente ammesso che queste cifre restano al disotto del vero. Dai dati surriferiti della statistica industriale tedesca per il 1907 risulta che 12.000 grandi aziende disponevano certamente di oltre la metà dell’intera forza-vapore e dell’energia elettrica. Negli Stati Uniti d’America il numero dei trust ammontava nel 1900 a 185, nel 1907 a 250. La statistica americana suddivide tutte le imprese industriali secondo che esse appartengono a singoli, a ditte, o a corporazioni. A queste ultime apparteneva nel 1904 il 23,6% nel 1909 il 25,9%, vale a dire più di un quarto del numero totale delle imprese. Queste aziende occupavano nel 1904 il 70,6% nel 1909 il 75,6% (vale a dire i tre quarti) del numero totale degli operai, e la loro produzione ascendeva rispettivamente a 10 miliardi e 900 milioni di dollari e a 16 miliardi e 300 milioni, vale a dire al 73,7 e 79% del valore totale della produzione degli Stati Uniti.

Nei cartelli e nei trust si concentrano talora perfino i sette od otto decimi dell’intera produzione di un determinato ramo industriale. Il sindacato carbonifero renano-vestfalico nel 1893, anno della sua fondazione, forniva 1′ 86,7% e nel 1910 già il 95,4% dell’intera produzione di carbone della regione. Il monopolio, in tal guisa creatosi, assicura profitti giganteschi e conduce alla formazione di unità tecniche di produzione di enormi dimensioni. Il famoso trust del petrolio degli Stati Uniti (Standard Oil Company) fu fondato nel 1900.

“Il suo capitale autorizzato ammontava a 150 milioni di dollari. Furono emessi 100 milioni di dollari di azioni  common  (semplici) e 106 milioni di dollari di azioni  preferred  (privilegiate). A queste sono stati pagati, tra il 1900 e il 1907, i seguenti dividendi: 48, 48, 45, 44, 36, 40, 40, 40%; in tutto 367 milioni di dollari. Tra il 1882 e la fine del 1906 sugli 889 milioni di dollari di utile netto conseguiti, vennero ripartiti 606 milioni di dividendi e il resto assegnato alle riserve”  . Nel 1907, nel complesso delle imprese della United States Steel Corporation (il trust dell’acciaio) erano occupatGià nel 1902 il trust americano dell’acciaio produceva 9 milioni di tonnellate di acciaio. La sua produzione ascendeva nel 1901 al 66,3%, nel 1908 al 56,1% dell’intera produzione di acciaio degli Stati Uniti, e negli stessi anni esso estraeva rispettivamente il 43,9 e 46,3% del minerale di ferro.

Il rapporto della commissione governativa americana sui trust dice:

“La superiorità dei trust sui loro concorrenti si fonda sulla grandezza delle loro imprese e sulla loro eccellente attrezzatura tecnica. Fin dalla sua fondazione, il trust del tabacco è stato guidato dal proposito di sostituire, dovunque era possibile, le macchine al lavoro manuale. A tal fine esso ha acquistato, spendendo somme enormi, tutti i brevetti che in qualche maniera avevano rapporto con la lavorazione del tabacco. Molti di tali brevetti originariamente non erano utilizzabili, e lo divennero solo dopo esser stati perfezionati dagli ingegneri del trust. Alla fine del 1906 furono create due società filiali col solo compito di accaparrare brevetti. Allo stesso fine il trust ha impiantato proprie fonderie e officine per la costruzione e riparazione di macchine. Una di queste officine, quella di Brooklyn, impiega in media 300 operai; qui vengono sperimentate e all’occorrenza perfezionate le invenzioni per fabbricare sigarette, piccoli sigari, tabacco da fiuto, involucri di stagnola per la confezione dei pacchi.

Anche altri trust, oltre ai predetti, impiegano i cosiddetti  developing engineers  (ingegneri per lo sviluppo della tecnica), che hanno l’incarico di creare nuovi procedimenti di lavorazione e di sperimentare invenzioni e miglioramenti tecnici. Il trust dell’acciaio paga forti premi agl’ingegneri e agli operai autori di invenzioni atte a elevare l’efficienza tecnica dell’azienda o a ridurre i costi di produzione”.

La fondamentale e originaria funzione delle banche consiste nel servire da intermediario nei pagamenti; quindi le banche trasformano il capitale liquido inattivo in capitale attivo, cioè produttore di profitto, raccogliendo tutte le rendite in denaro e mettendole a disposizione dei capitalisti.

Ma, a mano a mano che le banche si sviluppano e si concentrano in poche istituzioni, si trasformano da modeste mediatrici in potenti monopoliste, che dispongono di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e piccoli industria, e così pure della massima parte dei mezzi di produzione e delle sorgenti di materie prime di un dato paese e di tutta una serie di paesi. Questa trasformazione di numerosi piccoli intermediari in un gruppetto di monopolisti costituisce uno dei processi fondamentali della trasformazione del capitalismo in imperialismo capitalista. Dobbiamo quindi, anzitutto, rivolgere il nostro esame alla concentrazione delle banche.

Negli anni 1907-1908 i depositi di tutte le banche azionarie di Germania con un capitale superiore a un milione di marchi ammontavano a 7 miliardi di marchi; dal 1912 al 1913 la somma era già arrivata a 9 miliardi e 800 milioni con un aumento del 40 % in cinque anni. Inoltre di questi 2,8 miliardi di aumento, 2,75 spettavano a 57 banche, le quali disponevano ognuna di oltre 10 milioni di marchi di capitale.

Il prof. Liefmann ha consacrato un gigantesco “studio” di circa mezzo migliaio di pagine a descrivere le moderneSocietà di compartecipazione e finanziamento, nel quale però, disgraziatamente, ha accompagnato la materia grezza con considerazioni “teoriche” di assai scarso valore. A quale risultato, nel senso della concentrazione, conduca questo sistema di “partecipazioni”, è dimostrato meglio che altrove nell’opera dello “specialista” bancario Riesser sulle grandi banche tedesche. Ma prima di passare ai suoi dati, vogliamo recare un esempio concreto del sistema della “partecipazione”.

Il “gruppo” della Deutsche Bank, che prendiamo a considerare, è tra i più grandi gruppi bancari, se non addirittura il più grande. Per tener conto dei principali fili che collegano tutte le banche di questo gruppo, occorre distinguere una “partecipazione” di primo, secondo e terzo grado o, ciò che è lo stesso, una dipendenza di primo, secondo e terzo grado delle piccole banche dalla Deutsche Bank. Si ottiene il seguente specchietto.

 

Dipendenza
di I grado

Dipendenza
di II grado

Dipendenza
di III grado

La DeutscheBank 
partecipa 
permanentemente

a 17 banche

di cui 9 partecipano 
ad altre 34

di cui 4 partecipano 
ad altre 7

per un tempo
indeterminato

a 5 banche

 
 
di tanto in tanto

a 8 banche

di cui 5 partecipano 
ad altre 14

di cui 2 partecipano 
ad altre 2

Totale

a 30 banche

di cui 14 partecipano 
ad altre 48

di cui 6 partecipano
ad altre 9

 

Alle otto banche “dipendenti in primo grado”, soggette “di tanto in tanto” alla Deutsche Bank, appartengono tre banche straniere: una austriaca, il Wiener Bankverein, e due russe (Banca commerciale della Siberia e Banca russa per il commercio estero). In complesso appartengono al consorzio della Deutsche Bank, direttamente o indirettamente, totalmente o parzialmente, ben 87 banche, ed esso dispone così di un capitale complessivo, tra il proprio e l’altrui, da due a tre miliardi di marchi.

Evidentemente una banca che si trovi alla testa di un simile gruppo e concluda accordi con mezza dozzina di altre banche poco meno grandi, per operazioni finanziarie particolarmente ragguardevoli e vantaggiose, quali per esempio i prestiti statali, ha già smesso la funzione di “intermediaria” e si è trasformata in una lega di un pugno di monopolisti.

Con quale rapidità si sia compiuta in Germania, precisamente tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX, la concentrazione bancaria, si può rilevare dai seguenti dati di Riesser, che qui si espongono in modo abbreviato:

 

Sei grandi banche di Berlino avevano

Anno

Filiali 
in Germania

Casse di deposito 
o agenzie di cambio

Partecipazione permanente 
a banche azionarie tedesche

Totale di 
tutte le aziende

1895

16

14

1

42

1900

21

40

8

80

1911

104

276

63

450

 

Si vede con quanta rapidità si formi una fitta rete di canali che abbracciano tutto il paese, centralizzano tutti i capitali ed entrate in denaro e trasformano migliaia e migliaia di aziende economiche sparpagliate in un’unica azienda capitalistica nazionale e poi in un’azienda capitalistica mondiale. Quel “decentramento” di cui nel surriferito passo paria Schulze-Gaevernitz, a nome della economia politica borghese dei ‘nostri giorni, in realtà non è altro che la sottomissione ad un unico centro di un numero sempre maggiore di unità economiche, prima relativamente “indipendenti” o, meglio, localmente circoscritte. Pertanto in realtà esso rappresenta una  centralizzazione, un elevamento della funzione dell’importanza, della potenza dei giganti monopolistici.

Questa “rete bancaria” è ancora più fitta nei paesi di più antico capitalismo. In Inghilterra (e Irlanda), nel 1910 il numero delle filiali di tutte le banche ascendeva a 7.151. Le quattro massime banche avevano ciascuna oltre 400 filiali (da 447 a 689), quattro altre banche più di 200 filiali e altre undici più di 100.

Nel 1870 la Deutsche Bank era ancora nell’infanzia, e possedeva in tutto un capitale di 15 milioni di marchi, mentre la Disconto-Gesellschaft ne aveva 30. Nel 1908 la prima aveva un capitale di 200 milioni, la seconda di 170. Nel 1914, la Deutsche Bank accrebbe il proprio capitale a 250 milioni di marchi e la Disconto-Gesellschaft, fondendosi con un’altra grande banca di prim’ordine, lo Schaffhausenscher Bankverein, a 300 milioni. E naturalmente questa lotta di egemonia procede di conserva con “accordi” sempre più frequenti e stabili fra le due banche. Quali conclusioni impone questo processo evolutivo agli specialisti di cose bancarie, che considerano le questioni economiche da un punto di vista non oltrepassante in alcun modo i quadri di un riformismo borghese moderatissimo e ordinatissimo?

“Altre banche seguiranno la stessa via -scriveva a proposito, appunto, dell’elevamento del capitale della Disconto-Gesellschaft a 300 milioni di marchi, la rivista tedesca  Die Bank- e delle trecento persone che oggi governano economicamente la Germania, col tempo, non ne imarranno che cinquanta, venticinque o anche meno. Né è da credere che il nuovissimo movimento di concentrazione si arresterà alle banche. Naturalmente gli stretti rapporti esistenti tra le singole banche portano anche a un avvicinamento tra i consorzi industriali trovantisi sotto il loro patronato… e un bel giorno ci si risveglierà soffregandoci gli occhi: intorno a noi nient’altro che trust e davanti a noi la necessità di sostituire ai monopoli privati il monopolio dello Stato. E tuttavia, in sostanza, non avremo altro da rimproverarci, che di aver lasciato libero corso allo sviluppo delle cose, soltanto un po’ accelerato dal sistema delle azioni”.

Abbiamo qui un esempio tipico dell’inettitudine del giornalismo borghese, dal quale la scienza borghese si differenzia solo per minore schiettezza e per la tendenza a celare l’essenza delle cose, a nascondere la foresta dietro gli alberi. Infatti, “stupirsi” degli effetti della concentrazione, “muovere rimproveri” al governo della capitalistica Germania o in generale alla “società capitalistica” (“noi”), mostrarsi spaventati dell’ “acceleramento” della concentrazione per effetto dell’introduzione delle azioni, o -come fa uno specialista tedesco in materia di cartelli, il Tschierschky- mostrarsi spaventati dei trust americani e “preferire” i cartelli tedeschi, perché questi ultimi “accelerano il progresso tecnico ed economico meno dei trust” non è forse inettitudine?

Ma i fatti rimangono fatti. In Germania non vi sono trust, bensì “solo” cartelli, ma la Germania è amministrata da non più di trecento magnati del capitale, il cui numero si restringe sempre più. In tutti i paesi capitalistici, qualunque sia la loro legislazione bancaria, in ogni caso si rafforza e si accelera di mille doppi, per opera delle banche, il processo di concentrazione del capitale, di costituzione dei monopoli.

Mezzo secolo fa Marx scriveva (Il Capitale, III, 2) che “le banche creano la forma di una contabilità generale e di una distribuzione generale dei mezzi di produzione su scala sociale, ma soltanto la forma”. I dati da noi riferiti intorno all’incremento del capitale bancario, all’aumento del numero delle filiali e delle agenzie delle maggiori banche, del numero dei conti correnti, ecc., ci mostrano in modo concreto questa “contabilità generale” dell’intera classe dei capitalisti, e anzi non di essi soli, perché le banche raccolgono in sé -sia pure transitoriamente- tutte le possibili entrate in denaro, così dei piccoli proprietari come degli impiegati e di un piccolo strato elevato della classe lavoratrice. La “ripartizione generale dei mezzi di produzione”: ecco ciò che  risulta  -se si considera la cosa sotto l’aspetto formale- dallo sviluppo delle grandi banche moderne, le più importanti delle quali, in numero da 3 a 6 in Francia e da 6 a 8 in Germania, dispongono di miliardi e miliardi; ma se si considera la  sostanza, questa ripartizione dei mezzi di produzione non è “sociale”, bensì privata, cioè conformata agli interessi del grande capitale e in particolare del più grande, del capitale. monopolistico che agisce in questa maniera mentre le masse popolari vivono mezzo affamate, mentre lo sviluppo dell’agricoltura ritarda irreparabilmente in confronto con quello dell’industria, e, nell’industria stessa, l’ “industria pesante” raccoglie i tributi di tutti gli altri rami industriali.

Nella socializzazione dell’economia capitalistica le casse di risparmio e le casse postali cominciano adesso a far concorrenza alle banche, perché sono più “decentrate”, vale a dire penetrano in un maggior numero di località, specialmente nelle località remote e nei larghi strati popolari. Ecco alcuni dati raccolti dalla Commissione americana intorno alla questione dell’aumento relativo dei depositi nelle banche e nelle casse di risparmio.

In altri termini, scrisse Lenin: l’antico capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la Borsa, suo regolatore indispensabile, se ne va a carte quarantotto, soppiantato da un nuovo capitalismo che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopolio. Naturalmente sorge imperiosa la domanda:  verso che cosa  dunque “si avvia” questo modernissimo capitalismo? Ma i dotti borghesi non osano porre tale quesito.

“Trent’anni fa gli industriali, in regime di libera concorrenza, fornivano nove decimi di quel lavoro economico che non appartiene alla sfera del lavoro fisico di spettanza degli “operai”. Oggi sono dei  funzionari  quelli che fanno i nove decimi di questo lavoro economico intellettuale. Le banche stanno alla testa di questa evoluzione”.

Questa ammissione di Schulze-Gaevernitz riconduce ancora una volta alla domanda: verso che cosa il recentissimo capitalismo, nel suo stadio imperialista, costituisce transizione?

Naturalmente tra le poche banche che ancora si mantengono alla testa della economia capitalistica in seguito al processo di concentrazione, diventa sempre più forte la tendenza a entrare in reciproci accordi monopolistici, a formare un  trust delle banche. In America non già nove banche ma  due  delle maggiori, quelle dei miliardari Rockefeller e Morgan, dominano un capitale di 11 miliardi di marchi. LaFranklurter Zeitung, il giornale degli interessi borsistici, accompagna con queste parole l’assorbimento dello Schaffhausenscher Bankverein per opera della Disconto.

“Con l’intensificarsi dei processo di concentrazione si va continuamente restringendo la cerchia degli istituti ai quali si può rivolgere la domanda di crediti e quindi cresce la dipendenza della grande industria da alcuni pochi gruppi bancari. Dato l’intimo nesso tra industria e finanza, ne resta compressa la libertà di movimento delle società industriali costrette a ricorrere al capitale bancario. Pertanto la grande industria segue con sentimenti contrastanti la crescente trustizzazione delle banche; infatti tra i singoli grandi consorzi bancari si notano certi segni di accordi, che tendono a limitare la gara di concorrenza”. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio.

Ma precisamente nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Quando la banca sconta le cambiali di un dato industriale, gli apre un conto corrente, ecc., queste operazioni, considerate isolatamente, non scemano in nulla l’indipendenza di quell’industriale, e la banca resta nei limiti di una modesta agenzia di mediazione. Ma non appena tali operazioni diventano frequenti e si consolidano, non appena la banca “accumula”capitali enormi, non appena la tenuta del conto corrente di un dato imprenditore mette la banca in grado di conoscere, sempre più esattamente e completamente, la situazione economica del suo cliente -e questo appunto si va verificando- allora ne risulta una sempre più completa dipendenza del capitalista-industriale dalla banca.

Nello stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei Consigli di amministrazione delle imprese industriali e commerciali e viceversa. L’economista tedesco Jeidels ha raccolto dati precisi su tale specie di concentrazione di capitali e d’imprese. Le sei maggiori banche di Berlino erano rappresentate per mezzo dei loro direttori in 344 società industriali, e per mezzo dei membri dei loro Consigli di amministrazione in altre 407, vale a dire in tutto in 751 società. In 289 società le suddette banche avevano due membri del Consiglio di amministrazione oppure il posto di presidente. Queste imprese svolgono la loro attività nei più diversi rami della produzione: assicurazioni, mezzi di comunicazione, ristoranti, teatri, industrie artistiche ecc. A loro volta nei Consigli di amministrazione di quelle sei banche sedevano (nel 1910) cinquantun grandi industriali, tra cui il direttore della Krupp, quello della Hapag (Hamburg-Amerika-Linie), una gigantesca società di navigazione, ecc. ecc. Ciascuna di queste sei banche, dal 1895 al 1910, ha partecipato all’emissione delle azioni e obbligazioni di varie centinaia di società industriali (da 281 a 419)  .

L'”unione personale” delle banche con l’industria è completata dall'”unione personale” di entrambe col governo.

“Volentieri si assegnano posti di Consiglieri di amministrazione a persone dal nome sonoro -scrive Jeidels- e anche ad ex funzionari statali, che nei rapporti con le autorità possono ottenere più di un’agevolazione[!!]….

“Nel Consiglio di amministrazione di una grande banca siedono ordinariamente membri del Parlamento o del Consiglio comunale di Berlino”.

Pertanto i grandi monopoli capitalistici si producono e si sviluppano, a tutto vapore, per tutte le vie “naturali” e “soprannaturali”. Si forma sistematicamente una certa divisione del lavoro tra poche centinaia di finanzieri, veri re della moderna società capitalistica.

“Con quest’ampliamento del campo d’attività di singoli grandi industriali [che entrano nelle direzioni delle banche, ecc.], e con l’assegnazione dei direttori provinciali delle banche a un determinato ed esclusivo distretto industriale, avviene un certo sviluppo della specializzazione dei dirigenti delle grandi banche in particolari rami d’affari … In generale, essa è possibile soltanto quando l’impresa bancaria assume grandi proporzioni e, in particolare, se i rapporti con le industrie sono molto estesi. Tale divisione dei lavoro si verifica in due sensi: il complesso dei rapporti con l’industria è assegnato a un direttore come suo speciale campo d’azione, e inoltre ciascun direttore, in qualità di membro del Consiglio di amministrazione, assume la sorveglianza di una o più imprese affini per qualità o per interessi [il capitalismo è ormai a buon punto per esercitare una  sorveglianza  organizzata sulle singole imprese]. L’uno si specializza nell’industria germanica o addirittura soltanto nell’industria della Germania occidentale [la Germania occidentale è la parte più industriale dell’Impero tedesco]; i rapporti con gli Stati e con l’industria esteri, la raccolta delle notizie personali sui singoli industriali, ecc., gli affari di Borsa, ecc., costituiscono la specialità d’altri. Inoltre spesso avviene che ciascun direttore riceve l’incarico di amministrare una particolare industria o un particolare territorio: l’uno è di preferenza nei Consigli d’amministrazione delle società d’elettricità; l’altro nelle fabbriche di prodotti chimici, di birra o di zucchero; altri ancora si trovano nei Consigli di amministrazione di poche imprese industriali isolate, e contemporaneamente in quelli delle società di assicurazione … E’ certo, in una parola, che a mano a mano che aumenta l’ampiezza e la varietà degli affari delle grandi banche, si sviluppa, tra i dirigenti di esse, una crescente divisione del lavoro, allo scopo e col risultato di sollevarli in certo modo dai semplici affari bancari, rendendoli più competenti, più esperti nelle questioni generali dell’industria e in quelle particolari delle singole branche e quindi più capaci di far pesare l’influenza della banca nell’industria. Questo sistema delle banche è integrato dalla tendenza a chiamare nei loro Consigli di amministrazione persone competenti nelle cose dell’industria: industriali, ex funzionari, specialmente dell’amministrazione ferroviaria o mineraria” ecc.

“Una parte sempre crescente del capitale dell’industria non appartiene agli industriali, che lo utilizzano. Essi riescono a disporne solo attraverso le banche, le quali, nei loro riguardi, rappresentano i proprietari del denaro. Gli istituti bancari devono d’altronde fissare nell’industria una parte sempre crescente dei loro capitali, trasformandosi quindi vieppiù in capitalisti industriali. Chiamo capitale finanziario quel capitale bancario, e cioè quel capitale sotto forma di denaro che viene, in tal modo, effettivamente trasformato in capitale industriale”.

Questa definizione è incompleta, in quanto vi manca l’accenno a uno dei fatti più importanti, cioè alla crescente concentrazione della produzione e del capitale in misura tale da condurre al monopolio. Tuttavia la funzione dei monopoli capitalistici è, in generale, messa in rilievo in tutto il libro di Hilferding, e particolarmente nei due capitoli precedenti a quello da cui è stata tratta la precedente definizione.

Concentrazione della produzione; conseguenti monopoli; fusione e simbiosi delle banche con l’industria: in ciò si compendia la storia della formazione del capitale finanziario e il contenuto del relativo concetto

L’esperienza dimostra che basta possedere il quaranta per cento di tutte le azioni per dominare l’andamento degli affari di una società per azioni, giacché una parte dei piccoli azionisti, disseminati qua e là, non ha la possibilità di intervenire alle assemblee generali, ecc. La “democratizzazione” dei possesso di azioni, dalla quale i sofisti borghesi e gli opportunisti socialdemocratici si ripromettono (o fingono di ripromettersi) la “democratizzazione del capitale”, l’aumento d’importanza e di funzione della piccola produzione, ecc., nella realtà costituisce un mezzo per accrescere la potenza dell’oligarchia finanziaria. E’ precisamente per questo che nei più progrediti o più antichi ed “esperti”paesi capitalistici la legislazione permette l’emissione delle azioni più piccole. In Germania la legge non permette azioni al disotto di 1.000 marchi, e i magnati della finanza tedesca guardano con invidia all’Inghilterra, ove sono legalmente ammesse azioni da una sterlina. Nella seduta del Reichstag del 7 giugno 1900, Siemens, uno dei maggiori industriali e dei maggiori “re della finanza” di Germania, dichiarò “l’azione da una sterlina essere la base dell’imperialismo britannico”. Questo mercante sembra possedere sulla natura dell’imperialismo una concezione più profondamente “marxista” che un certo indegno scrittore, ritenute fondatore del marxismo russo, il quale tuttavia crede che l’imperialismo sia soltanto la cattiva particolarità d’un certo popolo.

Così, Lenin nel 1916. Un anno prima, Nicolai Bucharin aveva pubblicato Economia mondiale e imperialismo con una prefazione di Lenin.

The struggle between  national  states, which is nothing but the struggle between the respective groups of’ the bourgeoisie, is not suspended in the air. One cannot picture this gigantic conflict as the conflict of two bodies in a vacuum. On the contrary, the very conflict is conditioned by the special medium in which the  national economic organisms  live and grow. The latter, however, have long ceased being a secluded whole, an  isolated economy  à la Fichte or Thünen. On the contrary, they are only parts of a much larger sphere, namely, world economy just as every individual enterprise is part of the  national  economy, so every one of these  national economies  is included in the system of world economy. This is why the struggle between modern  national economic bodies  must be regarded first of all as the struggle of various competing parts of world economy-just as we consider the struggle of individual enterprises to be one of the phenomena of socio-economic life. Thus the problem of studying imperialism, its economic characteristics, and its future, reduces itself to the problem of analysing the tendencies in the development of world economy, and of the probable changes in its inner structure, scrisse Bucharin.

Sia in Lenin che in Bucharin mancava però un’analisi del modo di funzionamento delle grandi imprese. A tale mancanza cercarono di ovviare Baran e Sweezy in Monopoly capital. L’analisi di Baran e Sweezy è suggestiva, ma è, nello stesso tempo, tutt’altro che esauriente. Essa infatti è piuttosto approssimativa. Inoltre, trascura inopinatamente gli aspetti finanziari che oggi sono quelli sui quali è focalizzata la nostra attenzione. Se vogliamo capire il capitalismo del nostro tempo, dobbiamo focalizzare la nostra attenzione sul funzionamento del Finanzkapital e, per suo tramite, della moderna grande impresa. Prima di addentrarci nei meandri  del Finanzkapital, dobbiamo, però, terminare il discorso sul capitale monopolistico.

Ecco come lo raffigurava il manuale di economia politica dell’Urss.  117

Il capitalismo monopolistico di Stato rappresenta l’unificazione delle forze dei monopoli con le forze dello
Stato borghese in un unico meccanismo, la cui funzione è arricchire ulteriormente i monopoli, schiacciare i
movimenti operaio e di liberazione nazionale, salvare l’ordinamento capitalista, preparare e scatenare guerre di aggressione.
Il fondamento oggettivo per la trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico
di Stato si ha quando le forze produttive raggiungono un livello di sviluppo talmente elevato da configgere
violentemente e in modo antagonistico con la proprietà privata capitalista: sono la riproduzione della merce
sempre più ampia, la costruzione di sistemi industriali sempre più co mplessi e imponenti e l’attuale rivoluzione scientifico-tecnologica a esigere il mutamento della proprietà dei mezzi di produzione da privata a sociale.
Accade allora che, per salvare allora l’ordinamento capitalista e dare al contempo a una cricca di monopolisti la possibilità di appropriarsi dei frutti del progresso sociale e di ricavarne enormi profitti, lo Stato borghese intervenga attivamente in economia758. Sempre maggiore diffusione conoscono lo sviluppo programmato della produzione, il finanziamento statale della ricerca scientifica e del progresso scientifico, le commesse militari, la regolamentazione dei processi di mercato e l’edificazione di aziende statali. La totalità di queste misure economiche fa gli interessi di tutta la classe dei capitalisti ma, anzi tutto, dell’elite monopolistica. In condizioni economiche favorevoli esse possono avere un certo effetto, ma da sole non bastano tuttavia a eliminare le contraddizioni radicalmente profonde insite nel capitalismo. La regolamentazione statale dell’economia759 può ritardare l’ultima ora del capitalismo, ma non lo può salvare.
Il capitalismo monopolistico di Stato 760 porta all’inasprimento delle contraddizioni imperialiste, che
indeboliscono il capitalismo e ne avvicinano l’ora finale.

Ecco cosa scrisse invece Rudolf Hilferding. Ostile allo statalismo, la borghesia fu – un tempo – in lotta contro il mercantilismo economico e l’assolutismo politico. Il liberalismo era allora realmente distruttivo, implicava di fatto il sovvertimento del potere statale e la rottura di antichi vincoli. Tutto il sistema dei rapporti gerarchici dello Stato – faticosamente costruito – ed i legami corporativi cittadini con la loro complicata sovrastruttura di privilegi e monopoli, vennero spazzati via. La vittoria del liberalismo provocò un immediato e considerevole indebolimento dell’autorità dello Stato. La vita economica avrebbe dovuto essere – almeno in teoria – definitivamente sottratta al controllo dello Stato, che doveva limitarsi a garantire la sicurezza e l’uguaglianza borghesi.
Il liberalismo diveniva così la negazione pura e semplice dello Stato del primo periodo mercantilistico del capitalismo, il quale, in principio, voleva regolare tutto, ed era anche in netto contrasto con tutti i sistemi socialistici, i quali, non in senso distruttivo, ma costruttivo, vogliono porre al posto dell’anarchia e della libertà della concorrenza un sistema consapevolmente regolato, creando una società che organizzi la propria vita economica e quindi anche se stessa. È perciò appena naturale che i princìpi liberali si siano realizzati più precocemente in Inghilterra, dove erano sostenuti da una borghesia tutta per il libero scambio, una borghesia che, anche durante i periodi di più acuto contrasto con il proletariato, si lasciò spingere ben raramente a chiedere l’intervento dello Stato e, comunque, lo fece solo per brevi periodi. Anche in Inghilterra, però, la realizzazione del liberalismo urtò non solo contro la resistenza della vecchia aristocrazia che appoggiava una politica protezionistica ed era, quindi, recisamente contraria ai princìpi liberali, ma anche, in parte, contro quella del capitale commerciale, e del capitale bancario che aspiravano ad investimenti all’estero e pretendevano soprattutto il mantenimento dell’egemonia sui mari, pretesa, questa, che veniva avanzata e con estrema energia anche dagli ambienti interessati alle colonie. Sul continente la concezione liberale dello Stato riuscì ad imporsi solo parzialmente e con grandi compromessi. Abbiamo qui un tipico esempio di contraddizione tra ideologia e realtà: mentre infatti i continentali, in ogni campo della vita politica e spirituale, con acume e rigida consequenzialità, riuscirono a trarre tutte le possibili conseguenze teoriche dai princìpi liberali a cui i Francesi avevano impresso la classica configurazione (giacché lo sviluppo più tardo li aveva forniti di strumenti di indagine scientifica più perfezionati di quelli inglesi) elaborando perciò sulla base della filosofia razionalistica una formulazione del liberalismo ben più vasta ed esauriente di quella inglese, che rimase chiusa entro l’ambito ristretto della scienza economica, sul piano pratico invece le realizzazioni politiche furono sul continente molto meno radicali di quelle inglesi.
Del resto, non è neppure pensabile che proprio la borghesia continentale – che aveva bisogno dello Stato come della più potente leva della propria ascesa, e che non intendeva, quindi, eliminare lo Stato ma trasformarlo da ostacolo a veicolo del proprio sviluppo – fosse in grado di procedere all’esautoramento del potere statale richiesto dal liberalismo. Ciò di cui la borghesia continentale aveva soprattutto bisogno era la eliminazione delle più piccole formazioni statali, la sostituzione del piccolo Stato impotente con lo strapotente Stato unitario. L’esigenza della creazione dello Stato nazionale spingeva la borghesia su posizioni favorevoli alla conservazione dello Stato. Nel continente, poi, non era in gioco solo il dominio sul mare, ma anche il dominio sulla terraferma. L’esercito moderno ha, peraltro, un’importanza ben maggiore della flotta, nel determinare i rapporti tra la società civile e il potere dello Stato.
Quest’ultimo, una volta caduto in mane a coloro che possono disporre dell’esercito, – e ciò avviene inevitabilmente ove esista un forte esercito di terra – assume una completa autonomia. Il servizio militare obbligatorio, che ha armato le masse, doveva d’altronde convincere ben presto la borghesia della necessità di imporre all’esercito (che altrimenti sarebbe potuto divenire una minaccia al suo potere) un’organizzazione rigidamente gerarchica creando una casta di ufficiali capace di funzionare da docile strumento in mano allo Stato. Mentre da un lato quindi in paesi come la Germania, l’Austria e l’Italia, il liberalismo non riusciva a realizzare le proprie premesse teoriche riguardanti lo Stato, esso vedeva dall’altro bloccarsi il proprio sviluppo in tal senso persino in Francia, giacché la borghesia francese, per ragioni di politica commerciale, non poteva rinunciare allo Stato. Ciò anche perché era inevitabile che la vittoria della rivoluzione finisse col complicarsi in una guerra su due fronti: e infatti, da un lato le conquiste rivoluzionarie dovevano essere difese contro il feudalesimo del continente, mentre, dall’altro, la creazione di un nuovo Stato capitalistico moderno minacciava l’antica posizione egemonica dell’Inghilterra sul mercato mondiale. La Francia dovette così ingaggiare simultaneamente una lotta contro il continente ed una contro l’Inghilterra, per l’egemonia sul mercato mondiale. La sconfitta della Francia rafforzò in Inghilterra la posizione della proprietà fondiaria, del capitale commerciale, bancario e coloniale, e con ciò il potere statale, a scapito del capitale industriale, ritardando così l’inizio della definitiva egemonia del capitale industriale inglese, e la vittoria del libero scambio. La vittoria inglese, inoltre, spinse il capitale industriale europeo su posizioni favorevoli al protezionismo, frustrando completamente gli sforzi dei sostenitori del libero scambio, e creando, al tempo stesso, quelle condizioni che erano destinate a favorire, sul continente, il più rapido sviluppo del capitale finanziario. L’adeguazione dell’ideologia e della concezione dello Stato borghese alle esigenze del capitale finanziario trovò perciò in Europa ostacoli tutt’altro che inamovibili. Il fatto poi, che l’unificazione della Germania fosse avvenuta in senso controrivoluzionario, non poté non rafforzare straordinariamente, nella coscienza del popolo tedesco il rispetto per lo Stato, mentre in Francia la disfatta militare fece sì che tutte le energie si concentrassero sul problema della ricostituzione del potere statale. Le esigenze del capitale finanziario favorirono in tal modo la nascita e la diffusione di elementi ideologici che il capitale finanziario poté poi facilmente utilizzare per elaborare una nuova ideologia adeguata ai propri interessi. Quest’ultima è però in netto contrasto con quella del liberalismo. Il capitale finanziario non chiede libertà, ma dominio: non tiene in alcun conto l’autonomia del singolo capitalista, anzi ne pretende  l’assoggettamento; aborrisce l’anarchia della concorrenza e promuove l’organizzazione solo per poter condurre la concorrenza in ambiti sempre più vasti. Per riuscire in ciò, per poter conservare ed aumentare il proprio prepotere, esso ha però bisogno dello Stato il quale, con la sua politica doganale, deve garantirgli il mercato interno e facilitargli la conquista di quelli esteri. Il capitale finanziario ha bisogno di uno Stato politicamente forte che, nei suoi atti di politica commerciale, non sia costretto ad usare alcun riguardo agli opposti interessi di altri Stati.
È quindi necessario uno Stato forte, capace di far valere i suoi interessi finanziari all’estero e di servirsi della propria potenza per estorcere agli Stati meno potenti vantaggiosi trattati di fornitura e favorevoli transazioni commerciali; uno Stato che possa spingersi in ogni parte del globo per fare del mondo intero zona di investimento del proprio capitale finanziario; uno Stato, infine, sufficientemente forte per condurre una politica espansionistica e per potersi incorporare nuove colonie. Mentre il liberalismo era contrario ad una politica di forza dello Stato e voleva garantirsi il controllo sugli strumenti del potere dell’aristocrazia e della burocrazia, cercando di sottrarre a queste ultime gli organi dello Stato, ora la politica di forza diviene una precisa ed incondizionata richiesta del capitalismo finanziario; ciò avviene comunque anche senza tener conto del fatto che le esigenze dell’esercito e della flotta assicurano proprio ai più forti settori capitalistici uno smercio imponente con utili per lo più monopolistici.
L’aspirazione ad una politica espansionistica rivoluziona però anche tutta la “Weltanschauung” della borghesia, che allontana definitivamente gli ideali pacifisti ed umanitari. I vecchi liberoscambisti credevano nel libero scambio non solo come la politica economica più giusta, ma anche come il presupposto della nascita di un’era di pace. Il capitale finanziario ha perduto da tempo questa speranza. Esso non si illude più che gli interessi capitalistici possano venire armonizzati, ma sa che la lotta concorrenziale si trasformerà sempre più in una lotta per la potenza politica. L’ideale della libertà di scambio dilegua; al posto dell’umanitarismo subentra l’esaltazione della grandezza e della potenza dello Stato. Lo Stato moderno è sorto come realizzazione dello sforzo unitario della nazione. Il pensiero nazionale che ha toccato i suoi limiti naturali nel costituirsi della nazione a fondamento dello Stato (giacché in questo modo esso ha riconosciuto a tutte le nazioni il diritto di creare proprie formazioni statali facendo coincidere i confini dello Stato con i confini naturali della nazione) viene ora soppiantato dall’ideale dell’esaltazione della propria nazione al di sopra delle altre. [Si veda: Otto BAUER. “Marx-Studien” II, par. 30, pp. 491 e sgg.  Der Imperialismus un das Nationalitätsprinzip  (L’imperialismo e il principio di nazionalità)]
La massima aspirazione è ora quella di assicurare alla propria nazione il dominio sul mondo, un’aspirazione non meno illimitata di quella del capitale al profitto, da cui anzi scaturisce. Il capitale parte alla conquista del mondo e ad ogni nuova conquista esso non fa che toccare nuovi confini che sarà spinto a valicare. Questa espansione incessante è ora una inderogabile necessità economica, perché rimanere indietro significa caduta del profitto del capitale finanziario, diminuzione della sua capacità concorrenziale e, come ultimo effetto, subordinazione del territorio economico rimasto più piccolo rispetto a quello divenuto più esteso. Questa aspirazione espansionistica causata da esigenze economiche, viene giustificata ideologicamente mediante uno strabiliante capovolgimento dell’idealità nazionale, la quale ora non riconosce più ad ogni nazione il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza politica e non esprime più il dogma democratico dell’uguaglianza sul piano internazionale di tutto ciò che è umano. Al contrario, le aspirazioni economiche del monopolio si rispecchiano nella posizione di privilegio che esso pretende per la propria nazione. I privilegi appaiono più di ogni altra cosa come frutto di predestinazione. Poiché l’assoggettamento di nazioni straniere avviene con la violenza e, quindi, in un modo molto naturalistico, sembra che la nazione dominante debba questa sua egemonia alle sue specifiche caratteristiche naturali, e cioè alle sue qualità razziali. L’ideologia della razza, quindi, non è altro che il tentativo di fondare scientificamente, con un camuffamento biologico, la volontà di potenza del capitale finanziario che intende in tal modo presentare i suoi movimenti come ineluttabili e condizionati da leggi naturali. Al posto dell’ideale egualitario democratico subentra ora un ideale egemonico oligarchico. Laddove sul terreno della politica estera, questo ideale ha come oggetto, nell’apparenza, l’intera nazione, su quello della politica interna esso diviene accettazione ed accentuazione del punto di vista padronale che tenta di subordinare al proprio quello della classe operaia.
La forza crescente dei lavoratori stimola al contempo il capitale a rafforzare ulteriormente il potere statale per garantirsi contro le richieste dei proletari. L’ideologia dell’imperialismo sorge quindi come superamento della vecchia ideologia liberale. Essa si fa beffe dell’ingenuità di quest’ultima. È pura illusione credere ad un’armonia di interessi nel mondo della lotta capitalistica, dove a decidere è solo la superiorità delle armi; illusione attendere il regno della pace perenne e predicare un diritto dei popoli, quando è solo la potenza a decidere della loro sorte; follia voler trasportare al di là dei confini dello Stato il sistema dei rapporti giuridici che regolano la vita al suo interno. Stupida e irresponsabile seccatrice davvero, questa infatuazione umanitaria che viene a disturbare gli affari e che, dopo aver fatto dei lavoratori un problema, ha scoperto, all’interno dello Stato, le riforme sociali e nelle colonie vuole eliminare la schiavitù contrattuale, unica possibilità di un razionale sfruttamento! Quello di una giustizia immutabile è un bel regno, ma con l’etica non si costruiscono certo ferrovie. Come fare a conquistare il mondo, se si vuole prima aspettare che la concorrenza si converta ai nuovi ideali?
L’imperialismo dissolve tutte queste illusioni solo per sostituire all’ormai sbiadito ideale della borghesia una nuova, grande illusione. Freddo e positivo finché si tratta di considerare il reale conflitto di interessi dei gruppi capitalistici e di concepire tutta la politica come affare privato di monopoli che reciprocamente si combattono, ma che possono anche unificarsi, esso diviene però improvvisamente passionale ed estatico quando si mette a parlare del proprio ideale. L’imperialista non vuole nulla per sé: non è però un illusionista o un sognatore per risolvere in uno scialbo concetto di umanità la variopinta realtà di un inestricabile groviglio di razze nei più vari gradi e con le più diverse possibilità di sviluppo. Egli osserva il guazzabuglio dei popoli con occhio duro e acuto e al di sopra di tutti fissa la propria nazione. La nazione è reale: essa si invera nello Stato che diviene sempre più potente e più grande: per farla assurgere ai più alti fasti nessuno sforzo è troppo gravoso. L’abbandono dell’interesse particolaristico per un più alto interesse comune che ogni ideologia sociale deve includere per essere vitale è con ciò consumato; lo Stato, un tempo estraneo al popolo, e la nazione stessa, formano ora una salda unità di cui l’idea nazionale posta al servizio della politica è la forza propulsiva. I contrasti tra le classi sono svaniti e superati a favore di un ideale della collettività. Al posto della lotta delle classi, pericolosa e senza via d’uscita per i padroni, subentra l’azione comune della nazione tutta, tesa alla conquista della grandezza nazionale.
Tale ideale, che sembra costituire un nuovo legame capace di tenere insieme la dilacerata società borghese, è destinato a riscuotere consensi entusiastici, perché nel frattempo il processo di disgregazione della società borghese è andato ulteriormente aggravandosi.

Arrivati a questo punto, dobbiamo fare un passo indietro. Come scrisse Herman Levy,  La storia economica dei tempi moderni mostra che sulla soglia del moderno capitalismo industriale non vi fu la concorrenza individuale. Al contrario, il periodo iniziale del moderno capitalismo industriale fu caratterizzato da monopoli in molte delle « nuove » produzioni, e da un dominio capitalistico sulle corporazioni attraverso una delle tante specie del sistema del lavoro per commissione (putting-out system). Ciò mutò solo con la comparsa delle fabbriche… Il desiderio di « concentrarsi » scomparve e in suo luogo si affermò il sistema concorrenziale.
A sua volta, questa situazione subì un cambiamento quando, dal penultimo decennio del secolo scorso in poi, si delineò una nuova rivoluzione dei mercati, determinata da progressi rivoluzionari nei mezzi di trasporto e di comunicazione… Divenne possibile produrre beni industriali, ed anche di altro genere, dovunque le condizioni fossero economicamente più favorevoli, quasi senza riguardo al costo di trasporto a lunghe distanze. Ciò significò la possibilità di concentrare la produzione in certi punti, di attuare un accentramento là dove aveva precedentemente prevalso il decentramento, per rifornire mercati concentrati, o per disporre di rifornimenti da zone concentrate di produzione.
Nell’industria moderna, dunque, secondo Levy, all’inizio si ha una situazione in cui prevalgono piccole formazioni monopolistiche, molte delle quali s’innestano su forme produttive di origine anteriore; si passa quindi attraverso un lungo stadio concorrenziale (che originariamente è stato teorizzato dagli economisti classici); e si ritorna, nel tempo recente, ad una fase in cui si afferma la concentrazione industriale e in cui prevalgono grandi formazioni produttive che Levy chiama « quasi-monopolistiche ». Si tratta, fondamentalmente, di un processo spinto dalla ricerca di una crescente efficienza tecnica ed economica. Esso ha assunto e assume, nei vari paesi, forme diverse. Non sempre, è vero, la concentrazione è stata il risultato della ricerca di una crescente efficienza: interventi politici di ogni genere, particolarmente politiche protezionistiche, hanno dato luogo a formazioni di tipo monopolistico, non necessariamente connesse con la concentrazione. Ma, accanto a queste formazioni monopolistiche « artificiali », si sono andati sempre più diffondendo complessi produttivi il cui potere di mercato deriva dall’evoluzione della struttura industriale. D’altra parte, dietro gl’interventi politici, che hanno costituito o rafforzato posizioni monopolistiche, non vi sono meramente « teorie », giuste o errate che siano; di regola, vi sono potenti coalizioni d’interessi, che non possono essere considerate indipendentemente dal processo di concentrazione. Ed il fatto stesso che la concentrazione si sia affermata in tanti diversi paesi, con istituzioni e politiche differenti, perfino in paesi che avevano antiche tradizioni liberistiche, può mostrare che non si tratta di una serie di trasformazioni accidentali, bensì, appunto, di un processo.
2. Origini del processo di concentrazione industriale. — È stato ampiamente citato Levy; ma le vedute di questo studioso, benché originali sotto molti aspetti, non sono affatto diverse, riguardo alle vicende concrete e alla cronologia del processo di concentrazione, da quelle degli altri storici economici. Tutti riconoscono, in particolare, che il processo di concentrazione si affermò in modo netto a partire dall’ottavo e dal nono decennio del secolo scorso, pur avendo, beninteso, origini precedenti.
Perché si affermò allora e non prima?
A causa della rivoluzione dei mezzi di trasporto e di comunicazione, risponde Levy. Questa risposta, che Levy elabora ed approfondisce nella più recente delle due opere ricordate dianzi, è degna di riflessione per l’economista.
Il progresso dei moderni mezzi di trasporto risale ovviamente ad un periodo anteriore al 1870-1880. Ma da quest’epoca i nuovi mezzi di trasporto (particolarmente: ferrovie e navi a vapore) raggiungono uno sviluppo tale da consentire l’unificazione dei mercati non solo sul piano nazionale, ma anche sul piano continentale e addirittura mondiale. Storicamente, forse, la concorrenza potrebbe essere concepita come una tendenza principalmente stimolata e incessantemente — per un lungo periodo — creata e ricreata dalla riduzione nei costi di trasporto e dalla conseguente distruzione di barriere locali. Unità produttive che avevano un certo potere monopolistico su aree circoscritte vedevano via via cadere la protezione offerta naturalmente dagli elevati costi di trasporto: nuove imprese potevano sorgere e le più vigorose fra le imprese già esistenti potevano espandersi, invadendo mercati che fino allora erano stati ad esse preclusi.
Ma lo stesso processo che andava distruggendo i monopoli locali andava via via creando — da un certo periodo in poi in modo tumultuoso — situazioni monopolistiche o oligopolistiche molto più stabili, abbraccianti paesi interi.
3. Indagini statistiche. — II processo di concentrazione è stato studiato da statistici, oltre che da economisti e da storici economici, specialmente con riferimento all’Inghilterra e agli Stati Uniti. Uno studio statistico non solo consente una maggiore conoscenza del fenomeno, ma costringe a precisarne meglio il contenuto: ciò è molto utile, considerata la mancanza di rigore con cui spesso si usa il termine «concentrazione».
Un tale studio indica la necessità di distinguere tre tipi di concentrazione: la concentrazione riferita agli stabilimenti (che si potrebbe chiamare « concentrazione tecnica »), quella riferita alle imprese (« concentrazione economica ») e quella riferita a imprese producenti beni disparati o a gruppi d’imprese collegati fra loro principalmente da partecipazioni azionarie (« concentrazione finanziaria »). In generale, la concentrazione può essere studiata con riferimento; (a) al numero dei lavoratori impiegati, (b) al valore della produzione e (c) al valore dei beni patrimoniali. Il primo e il secondo criterio (segnatamente il primo, che permette fra l’altro di evitare il problema delle variazioni dei prezzi) sono rilevanti sopra tutto per lo studio della « concentrazione tecnica » e di 8 quella « economica ». Il terzo criterio è particolarmente rilevante per lo studio della « concentrazione finanziaria ».
Com’è comprensibile, usando lo stesso criterio per il calcolo dei primi due tipi di concentrazione, in una determinata industria la concentrazione economica di regola risulta maggiore di quella tecnica. Per la concentrazione del terzo tipo, invece, il riferimento all’« industria » (intesa in senso empirico) non è possibile; si può invece calcolare la concentrazione del valore dei patrimoni (o dei capitali sociali) di una determinata specie di imprese, per esempio di quelle costituite come società per azioni, rispetto a tutte le imprese della stessa specie.
Sono stati proposti vari indici di concentrazione. Non è questa la sede per discutere tale problema. Se, come in questa monografia, si vuole studiare il nesso fra processo di concentrazione e forme di mercato, conviene adottare un indice che si discosti il meno possibile dalla nozione di senso comune di concentrazione delle unità economiche. Un tale indice è il « rapporto di concentrazione » di Gini; gli svantaggi che esso presenta riguardano casi molto particolari e sono largamente superati dai vantaggi, specialmente da quello della semplicità.
S’incontrano notevoli difficoltà nella raccolta dei dati, sopra tutto se si vogliono studiare le variazioni della concentrazione in un periodo molto lungo: i dati più facilmente disponibili sono quelli della distribuzione degli stabilimenti secondo il numero degli operai — o, in generale, dei lavoratori — impiegati. Inoltre, in certi casi mutano i criteri di classificazione usati nei diversi censimenti industriali.
Fortunatamente, la « concentrazione tecnica », riferita al numero dei lavoratori impiegati, ha la maggiore rilevanza per il problema che c’interessa. Nell’appendice, alla fine di questa parte, si riportano alcuni indici di concentrazione calcolati dallo scrivente, con riferimento all’industria americana, in base ai diversi criteri e seguendo il procedimento suggerito da Gini. I commenti sono brevissimi; ma quei risultati confermano e precisano l’opinione della maggioranza degli economisti: che cioè non solo la concentrazione industriale è molto elevata negli Stati Uniti, ma che essa è andata sistematicamente crescendo negli ultimi decenni. È necessario avvertire che alcuni economisti statistici americani hanno pubblicato di recente opere tendenti a dimostrare: (I) che il processo di concentrazione si è pressoché arrestato negli Stati Uniti da circa mezzo secolo, pur avendo raggiunto un alto livello dopo le gigantesche fusioni che si svolsero alla fine del secolo scorso e al principio di questo; (II) che il « grado di monopolio » negli Stati Uniti, pur essendo ragguardevole, è rimasto pressoché invariato dal principio del secolo ad oggi. Su questa seconda tesi non è il caso di soffermarci; Nutter, che appunto la sostiene (5), calcola il «grado di monopolio» in un modo completamente arbitrario e pressoché privo di significato scientifico. Più interessante è la prima tesila quale apparirebbe in contrasto con l’opinione prevalente fra gli economisti e coi risultati della ricerca compiuta dallo scrivente. Tale tesi è sostenuta da Adelman (6). Questo economista chiama « rapporto di concentrazione industriale » la percentuale del valore della produzione di un numero fisso e ristretto di imprese. Egli riconosce che « il rapporto di concentrazione industriale, e tutti gli altri rapporti fondati su piccoli numeri [di stabilimenti o di imprese] hanno il difetto d’introdurre un arbitrario elemento di scelta dei numeri, ed inoltre disperdono tutte le notizie disponibili circa la struttura del gruppo » (p. 271). Ma poi dimentica la sua stessa lezione e usa il suo rapporto addirittura per confronti di lunghi periodi, ove esso può risultare più ingannevole (p. 291). Il rapporto di Gini non è soggetto a questa critica, appunto perché con esso si tiene conto della distribuzione di tutte le unità economiche che interessano.
Tuttavia lo studio di Adelman non è sterile. Non v’è contraddizione fra i risultati ottenuti dallo scrivente, sulla concentrazione riferita all’intero gruppo di imprese che costituiscono una determinata « industria », e i risultati cui perviene Adelman sulla concentrazione riferita a un numero ristretto di imprese. Più oltre, in questo studio, apparirà chiaro che il processo di concentrazione rilevante per le forme di mercato è quello indicato dalla concentrazione generale, riferita a tutte o alla maggior parte degli stabilimenti e delle imprese delle diverse « industrie ». Ma i risultati di Adelman possono suggerire che quel processo è perfettamente compatibile con variazioni irregolari e non necessariamente in aumento della quota relativa delle tre o quattro maggiori imprese. La spiegazione (che interessa l’economista più che lo statistico) può essere questa: che alcune imprese medie o grandi, ma non ancora grandissime, ampliandosi per sviluppo interno o, più spesso  attraverso fusioni, possono entrare a far parte del gruppo — ristretto, ma non composto di un numero fisso — delle imprese grandissime. Un tale sviluppo è certamente accaduto, per esempio, nell’industria americana del ferro e dell’acciaio. È evidente che esso non contraddice affatto l’affermazione che il processo di concentrazione è andato costantemente avanzando; ma la qualifica in un modo molto interessante, su cui l’economista deve meditare.
Tuttavia, l’argomento merita uno studio approfondito, che ancora non è stato compiuto.
Rispetto al problema che c’interessa, il rapporto di Gini cessa di essere rilevante se il numero delle imprese (o degli stabilimenti) è molto piccolo: tre o quattro, per esempio. Ma in questo caso non occorre più un indice di concentrazione per descrivere, empiricamente ed economicamente, la struttura di una data industria: empiricamente, basta indicare il numero assoluto delle unità; sotto l’aspetto economico, l’industria si trova ovviamente in condizioni di oligopolio. Anche in questo caso — ma in un senso particolare, che va specificato — si può dire che l’industria è « concentrata ».
4. Rapporti fra concentrazione e forme di mercato. — Quali
rapporti esistono fra il processo di concentrazione industriale e le forme di mercato?
La risposta è: quel processo genera o accresce il potere di mercato delle maggiori imprese. Perché ed in quale modo?
Le spiegazioni sono diverse.
Si ripete un’osservazione, che addirittura già Adamo Smith aveva espressa (9): quando il numero degli imprenditori è o è divenuto assai piccolo, riesce facile ad essi accordarsi per regolare i prezzi. Ciò naturalmente implica che il processo di concentrazione abbia raggiunto uno stadio molto avanzato: solo in un tale stadio si può ammettere che un numero molto ristretto di grandi imprese venga a trovarsi in condizioni da controllare buona parte della produzione. La qualificazione è più 11 interessante dell’osservazione principale: essa mette in guardia dal confondere o anche solo dall’assimilare il processo di concentrazione con quello di monopolizzazione: il primo non necessariamente comporta il secondo.
Si osserva inoltre che la tecnica moderna, in molti rami industriali, ha fatto via via crescere, in termini assoluti e relativi, il volume del capitale minimo necessario per avviare la produzione a costi sufficientemente bassi: ciò crea un ostacolo « naturale » alla concorrenza. A questa osservazione, già sostanzialmente espressa da Marx, si può obiettare che, se è vero che il capitale minimo è cresciuto, sono anche cresciute — grazie allo sviluppo della borsa e delle banche — le possibilità di ottenere mezzi finanziari: non è detto che le maggiori necessità di finanziamento di oggi non possano essere compensate dalle maggiori possibilità offerte dal sistema creditizio: il risultato, rispetto alle forme di mercato, è per lo meno dubbio.
L’obiezione non è decisiva. Si sa bene che le difficoltà di ottenere prestiti e comunque di disporre di fondi sono molto minori nel caso delle grandissime imprese già affermate che nel caso di imprese medie o piccole o di nuove imprese; ciò che appunto crea un ostacolo alla concorrenza. Tuttavia, un certo peso tale obiezione lo conserva.
Si ammette senza difficoltà che, a differenza della concorrenza pura, le variazioni della produzione delle grandissime imprese operanti in industrie concentrate determinano variazioni dei prezzi; e si ritiene che questa osservazione legittimi senz’altro il rinvio alla teoria dell’oligopolio. Ma questa teoria, come si vedrà, è in uno stato fluido, per non dire caotico. Pertanto, sul piano teorico il potere di mercato delle grandissime imprese di industrie concentrate rimane problematico.
Tutto sommato, l’analisi dei rapporti fra processo di concentrazione e forme di mercato è in condizioni quanto mai insoddisfacenti, in pieno contrasto con l’analisi di quelle forme di mercato, diverse dalla concorrenza, che non hanno alcuna necessaria connessione col processo di 12 (12) La citazione è tratta dal testo italiano dell’articolo «The Laws of Returns under Competitive Conditions » (Nuova Collana di Economisti, vol. IV, p. 597).
concentrazione, ma che anzi, in certi casi (per esempio in quello del commercio al minuto) addirittura la escludono. Paradossalmente, con la
« scatola di strumenti teorici » oggi disponibile è più facile elaborare un’analisi rigorosa delle conseguenze economiche che ha il potere di mercato di cui gode ciascuno dei nostri fornitori — i quali, nella loro sfera, sono da considerare come piccolissimi monopolisti — di quanto sia elaborare un’analisi altrettanto rigorosa delle conseguenze economiche che ha il potere di mercato goduto dalla U.S. Steel Corporation.
Come si è creata una situazione siffatta?
5. L’analisi moderna delle forme di mercato diverse dalla concorrenza. — Nel tempo in cui Piero Sraffa pubblicò la sua famosa critica alla teoria marshalliana, la situazione era, in un certo senso, opposta: il carattere monopolistico dei trust e delle grandissime imprese operanti in industrie altamente concentrate era ammesso da tutti, compreso Marshall, come ovvio. Il problema appariva più meritevole di studi storici ed empirici che di analisi teoriche elaborate. Gli economisti guardavano proprio al numero delle imprese operanti in un ramo produttivo per dedurre la forma di mercato prevalente in una data attività, forma approssimantesi al monopolio o alla concorrenza secondo che il numero fosse relativamente piccolo o relativamente grande.
La novità e l’importanza della critica di Sraffa stette proprio in ciò, che essa distruggeva l’idea che « quando la produzione è nelle mani di un gran numero di aziende interamente indipendenti, quanto a controllo, l’una dall’altra, le conclusioni proprie della concorrenza possono essere applicate, anche se il mercato in cui le merci vengono scambiate non è assolutamente perfetto, poiché le sue imperfezioni sono costituite in genere da attriti che possono semplicemente ritardare o leggermente modificare gli effetti delle forze attive della concorrenza, ma sui quali queste in ultima analisi e sostanzialmente finiscono per prendere il sopravvento ».
« Questa opinione — affermava Sraffa — sembra essere fondamentalmente inaccettabile. Molti degli ostacoli che spezzano quell’unità del mercato, che è la condizione essenziale della concorrenza, non hanno la natura di « attriti », ma sono essi stessi forze attive, che producono effetti permanenti e perfino cumulativi; inoltre spesso sono dotati di stabilità sufficiente perché se ne possa fare oggetto di un’analisi basata su condizioni statiche ».Il risultato globale, ossia sociale, della moltitudine delle piccolissime formazioni monopolistiche può essere anche più rilevante e forse molto più rilevante di grandiose e, a prima vista, evidenti formazioni monopolistiche. Questo è apparso subito, a molti economisti, giusto, importante e degno dello studio più approfondito.
Essi però, intenti nell’analisi di quel che non è ovvio e che è stato merito grandissimo di Sraffa di far vedere, hanno finito col trascurare l’analisi dell’ovvio, ossia del potere di mercato delle grandissime imprese industriali. Così che, fuori da quelle osservazioni piuttosto primitive, che già Smith e Marx avevano espresse, non è dato trovare un’analisi teorica che possa considerarsi soddisfacente.
L’ovvio, oramai, ha bisogno di analisi. La debolezza o addirittura l’inconsistenza dell’analisi teorica riguardante il potere di mercato delle grandissime imprese è apparsa quando alcuni economisti hanno attaccato la nozione comune, ossia ovvia, secondo cui quelle grandissime imprese, appunto perché grandissime, hanno poteri monopolistici. Questi economisti, in sostanza, hanno applicato, rovesciandola, l’osservazione di Sraffa dianzi ricordata: se è vero che un gran numero di imprese in un certo ramo di attività in sè non costituisce né la prova e neppure la presunzione che in quell’attività prevale la concorrenza, è anche vero il contrario: un numero anche limitato di imprese non significa che queste imprese abbiano potere monopolistico. In una tale situazione si deve riconoscere e si riconosce che la produzione di ciascuna singola impresa influisce in modo sensibile sul prezzo, ciò che esclude la concorrenza pura. Ma una tale nozione di concorrenza — si è detto — ha valore formale o si riferisce semplicemente a condizioni statiche. Quello che sostanzialmente conta è il risultato; e il risultato considerato dal punto di vista dinamico, può essere eguale o simile o perfino « migliore » di quello che si attribuisce alla concorrenza pura. Se è necessario, si ridefinisca in senso più realistico la nozione di concorrenza, ma non si vada ripetendo acriticamente che i grandi complessi industriali hanno poteri monopolistici, In embrione, questa reazione critica può già trovarsi in certe qualificazioni che Marshall aveva introdotte a proposito del potere monopolistico dei grandi complessi:
È vero che quando quasi tutto un ramo produttivo è nelle mani di poche imprese gigantesche nessuna di esse può propriamente essere considerata « rappresentativa ». Se queste imprese sono fuse in un trust o sono strettamente combinate fra loro, l’espressione « spese normali di
produzione» non ha più un significato preciso. E, come si sosterrà compiutamente in un volume successivo, una combinazione o un trust va riguardato, prima facie, come un monopolio: e il suo modo di procedere va analizzato sulle linee indicate nel XIV capitolo del V libro [« La teoria dei monopoli »]; benché gli ultimi anni del secolo decimonono e i primi anni di questo secolo abbiano mostrato che perfino in questi casi la concorrenza abbia una forza molto maggiore e l’uso del termine « normale » sia meno inappropriato di quanto sembrasse probabile a priori.
Queste qualificazioni sono evidentemente incerte e contraddittorie: ciò che a prima facie o a priori è nero a posteriori diventa bianco. Alcuni economisti moderni, più coerentemente, hanno optato per il bianco.
7. Concorrenza imperfetta, oligopolio differenziato e oligopolio concentrato. — Vi sono dunque due problemi, che si presentano come distinti. Il primo riguarda la situazione prospettata da Sraffa: molte piccole imprese, apparentemente in concorrenza fra loro, in realtà dotate di poteri di mercato ben definiti.
V’è poi la situazione di industrie che producono beni sufficientemente omogenei (o scarsamente differenziati) e che sono caratterizzate da un’elevata concentrazione: un numero ristretto (variante nel tempo ma sempre molto piccolo) di imprese controlla la maggior parte della produzione.
La prima situazione, la cui analisi è stata approfondita dai teorici della concorrenza imperfetta e (o) monopolistica, si riscontra specialmente nella produzione di prodotti manifatturati consumabili e nelle attività commerciali. In questa situazione i prodotti sono differenziati rispetto ai consumatori: il concetto di « industria » perde, a rigore, il suo significato (Sraffa, Robinson) e il concetto di « mercato » può esser valido solo se si distingue fra il mercato « particolare » dei prodotti di ciascuna impresa e il mercato « generale », che comprende, insieme con quei prodotti, quelli più direttamente sostituibili ad essi. L’ampiezza del « mercato generale » non è definibile in via assoluta, ma dipende dalla sostituibilità o, più 15 esattamente, dall’altezza del grado di « elasticità indiretta » della domanda che si vuoi considerare.
Una ulteriore specificazione è stata aggiunta da Kaldor, il quale ha esattamente osservato che « ciascun venditore è in diretta concorrenza soltanto con pochi altri venditori; che questi altri venditori sono essi stessi in concorrenza con un piccolo numero di diverse imprese; e che la catena di questi gruppi oligopolistici compone l’intero mercato ». « L’oligopolio [è], in realtà, la condizione più comune » .
L’osservazione di Kaldor è importante. Essa suggerisce che i mercati in cui vige la concorrenza imperfetta non sono del tutto spezzettati; che l’unità rilevante per l’analisi teorica non è tanto l’impresa singola, quanto il gruppo di quelle imprese che sono in diretta concorrenza fra loro ; in breve, che la teoria dell’oligopolio costituisce, rispetto alla teoria della concorrenza imperfetta, un’ulteriore approssimazione alla realtà.
Per designare questa prima situazione, in cui ha pur sempre rilevanza una certa differenziazione di prodotti, parleremo appunto di « oligopolio differenziato » (potremmo anche parlare, e forse l’espressione sarebbe più precisa, di « oligopolio imperfetto »).
È però l’analisi della seconda situazione — la situazione di industrie caratterizzate da un’elevata concentrazione — che ha bisogno di maggiore approfondimento. Ad essa sostanzialmente si riferisce J. Galbraith quando, richiamando le conclusioni di vari studi empirici sulla struttura dell’industria americana, afferma che « l’oligopolio è l’assunzione appropriata nel trattare i mercati industriali degli Stati Uniti ». Designeremo questa seconda situazione con l’espressione « oligopolio concentrato » L’oligopolio, dunque, non appare come un caso teorico particolare, ma come la forma di mercato più frequente, se pure variamente configurata, nella moderna realtà economica.
8. Conclusione. — Prima di porre termine a questa parte introduttiva, dobbiamo ritornare un momento sull’opinione, ricordata al principio e suffragata dalle ricerche di valorosi storici economici: che cioè, mentre nel passato prevaleva la concorrenza, oggi tendono a prevalere forme di mercato diverse, essenzialmente forme oligopolistiche.
Questa opinione va debitamente qualificata. Forme monopolistiche e oligopolistiche sono sempre esistite, anche nel periodo « aureo » della concorrenza: si tratta di meno e di più; ma si tratta anche di forme di mercato nuove. In quali attività?
Non in quelle agricole, ove tuttora prevale la concorrenza — o, meglio, prevarrebbe, se lo Stato non fosse intervenuto. Non in quelle commerciali. Già John Stuart Mill, in un capitolo dei suoi Principî avente per titolo « Della concorrenza e della consuetudine » (libro II, cap. IV, 3), osservava:
II commercio all’ingrosso delle merci più importanti è veramente sotto il dominio della concorrenza… Ma, nel commercio al minuto, il prezzo pagato dal reale consumatore sembra risentire molto lentamente e imperfettamente l’effetto della concorrenza; e quando la concorrenza esiste, spesso, invece di ridurre i prezzi, semplicemente suddivide i guadagni di un alto prezzo fra un gran numero di commercianti.
E Wicksell nel 1901, esprimendo con piena chiarezza alcuni punti essenziali della moderna teoria della concorrenza imperfetta, scriveva:
… Non dobbiamo dimenticare che praticamente ogni commerciante al minuto possiede, nella sua cerchia immediata, quel che possiamo chiamare un effettivo monopolio nelle vendite, perfino se, come vedremo fra breve, esso si fonda solamente sull’ignoranza e la mancanza di organizzazione degli acquirenti.
Naturalmente, a differenza di un vero monopolista, egli non può rialzare i prezzi a suo piacimento (solo in luoghi remoti dai centri commerciali può aver luogo un considerevole aumento locale nei prezzi); ma se egli mantiene gli stessi prezzi e le stesse qualità dei suoi concorrenti, egli può quasi sempre contare sui clienti che sono nelle sue immediate vicinanze. Il risultato è, non di rado, un eccesso di commercianti al minuto, apparentemente con vantaggio, ma in realtà con danno dei consumatori. E prosegue dando una dimostrazione di tale tesi, oggi resa familiare dalle opere di Robinson e di Chamberlin, con una efficacia per nulla inferiore, e forse superiore, a quella delle analisi di questi due economisti.
Dunque, la concorrenza imperfetta e l’oligopolio differenziato nelle attività commerciali al minuto sono forme di mercato antiche assai.
Dov’è allora la novità?
La novità essenziale, che permette di parlare di due stadi distinti nell’evoluzione del capitalismo moderno, dipende dal processo di concentrazione industriale. Sotto l’aspetto teorico, la nuova forma di mercato è quella dell’« oligopolio concentrato ».
Sebbene questa forma di mercato ed il processo che la genera si presentino sopra tutto nell’industria, nei paesi evoluti, in un periodo più recente, un processo simile si è svolto anche nel commercio di prodotti di largo consumo, grazie allo sviluppo dei grandi magazzini e dei negozi a catena. Ma cronologicamente e logicamente la concentrazione commerciale (intesa appunto nel senso tecnico-organizzativo) segue la concentrazione industriale: è questo il fenomeno principale. E’ da osservare che i nuovi grandi organismi commerciali, pur avendo un potere dì mercato perfino più elevato di quello delle minuscole imprese commerciali, segnano, rispetto a queste, un enorme progresso; quanto alla forma di mercato, essi si avvicinano di più al tipo dell’« oligopolio concentrato ». [P. Sylos Labini Oligopolio e progresso tecnico, Giuffrè]

L’avvento dell’oligopolio e, più in generale, delle altre forme di mercato non concorrenziali, pose in un nuovo contesto il problema del futuro del capitalismo, accentuando la sua tendenza alla creazione, come misero in luce Baran e Sweezy, di un eccesso di capacità produttiva, dovuta la modo in cui le grandi imprese gestivano loro politica dei prezzi [P. Baran Il surplus economico e la teoria marxista dello sviluppo Feltrinelli. Id Riflessioni sul sottoconsumo, Saggi marxisti, Einaudi, P. Baran P, Sweezy Il capitale monopolistico, Einaudi].

In altre parole, secondo Baran e Sweezy, il punto di rottura delle grandi imprese si poneva ben al di sotto di quello che rappresentava il pieno utilizzo della capacità produttiva. Analoghe preoccupazioni erano presenti in Kalecki. Secondo Kalecki, infatti, le decisioni di investimento dipendevano, nel lungo periodo, a parità di condizioni, dal grado di monopolio delle imprese. Ciò portava Kalecki a concludere che lo sviluppo di lungo periodo non faceva parte della natura del capitalismo [M. Kalecki Teoria della dinamica economica, Einaudi]
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Corrado Bevilacqua, Il futuro del capitalismoultima modifica: 2013-01-27T19:42:41+01:00da mangano1
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