Ermes Dorigo,”Il lanciatore di giavellotto” di Volponi

15d56d7a590432091cbd44d8d6647203.jpgUN TRADIZIONALISTA D’AVANGUARDIA(P.VOLPONI, Il lanciatore di giavellotto, Einaudi, 1981)L’apparizione dei romanzi di Volponi nel mare sostanzialmente mercificato della narrativa italiana contemporanea suscita solitamente un senso di inquietudine e di restia ammirazione, come emergesse improvvisa mente, se mi è consentito un ragionare per immagini, da acque stagnanti, la fissità inquietante delle colossali statue di pietra dell’isola di Pasqua. Una iniziale reverenza timida e infastidita; poi un progressivo attutirsi e affievolirsi d’interesse, come slontananti onde concentriche; infine il silenzio e la solitudine enigmatica della statua, carica di storia ma anche di tensione critica e civile sul presente, che subito appunto si vorrebbe rimuovere.Volponi non è uomo di potere e la sua opera ha la caratteristica di essere radicale, nel senso che pone in discussione, globalmente e dalle radici, l’ordine costituito, il conformismo dominante, la miseria dell’opportunismo. I suoi romanzi si pongono esplicitamente come operazioni conoscitive sulla realtà; e la nostra pare si voglia un’epoca cui denegare la conoscenza, se intendiamo con questo termine la ricerca continua di nuovi equilibri, di diversi spazi di libertà, di una più ampia democrazia, di una più piena e ricca identità personale e collettiva.Pur permanendo l’opposizione duale caratteristica dei romanzi precedenti, la metafora totale de Il pianeta irritabile si svolgeva come ricerca di sintesi – sulle ceneri di una esplosione catastrofica – di una soggettività che “(n)on deve avere abitudini naturali e sociali e la sua logica deve essere superiore alla stessa catena dei propri segni, libera da qualsiasi indulgenza”; di una soggettività che fosse, in uno, natura e storia, individuale e collettivo, assenza di ogni artificialità: “L’artificiale scientifico ritorna naturale… mentre il tuo artificiale resta sempre artificiale, e per reggere come tale deve continuare ad aumentare i propri artifici e a staccarsi come potere del naturale”, concludeva Roboamo rivolto a Moneta (“l’uomo alla fine dell’uomo”). Non esistevano uomini, se non come assenza/presenza negativa e oppositiva (con l’eccezione dell'”imitatore del canto degli uccelli”), ma frammenti d’un universo umano-animale che cercavano la ri-composizione unitaria in una nuova soggettività. Nel che si poteva vedere il riflesso, favolisticamente mediato, della crisi del neocapitalismo, e anche la crisi prodottasi nell’intellettuale di sinistra per il fatto che, da un lato, i nuovi soggetti sociali e i nuovi comportamenti giovanili mettevano in discussione schemi di analisi e interpretativi ormai superati; dall’altro, le speranze della grande riforma democratica s’impantanavano nei compromessi della “Società Pattuita e Consenziata”. Alla fine rimaneva solamente un’istanza, carica di tensione morale, ma assoluta e universale, di rifonda mento del soggetto, individuale e collettivo. Non comunque una adagiarsi nel canto della crisi e nel lamento contemplativo della dissoluzione del soggetto oppure nell’elogio funebre della cultura scientifica e della civiltà industriale, come faranno nichilisti e teorici del post-moderno.La crisi della società italiana (ma non solo) per Volponi non è vista come una crisi della cultura industriale, ma è individuata soprattutto nella mancata rivoluzione industriale, particolarmente nelle campagne – com’è chiaramente evidenziato nel romanzo anche dall’insistenza sulla via Flaminia, che tocca solo marginalmente la grande periferia che è l’Italia (“L’industria è minoranza e non può certo mettere in atto, trasformare, far agire tutte le potenzialità e le risorse del paese” affermava Volponi in una intervista; e ancora: “Se potessi, e ci sto anche pensando, scriverei un romanzo su una riforma agraria profonda di certe zone dell’Appennino vicino a Urbino”, dove riprende alcuni concetti già esplicitati in un’intervista del 1966: “L’industria non va vista come strumento di alienazione… ma come forza liberatrice dal bisogno, dalla fatica, dalle malattie… l’industria è uno strumento di scienza… Uno dei problemi più importanti è quello di rivoluzionare con sistemi industriali tutta l’agricoltura italiana… modificare la geografia economica e sociale di queste province, attraverso una grande riforma agraria”); e, quel che è più importante e che Volponi sottolinea polemicamente con la scelta del periodo storico in cui è collocata la vicenda del Lanciatore, questa crisi non è recente (dell’ultima ora) ma è connaturata alle scelte operate dal potere politico e dal neocapitalismo italiano fin dalle sue origini (che Romano Luperini – Il Novecento, Loescher, 2°) – colloca negli anni successivi al 1926, proprio quelli in cui si svolge la vicenda di questo romanzo.Lo sfondo storico entro il quale si dipana ed amplifica l’impotenza dell’adolescente protagonista Damin – che assurge così a simbolo di una più universale cultura che non riesce a “lanciarsi” – non è quello della civiltà contadina distrutta dall’avvento dell’industria, bensì quello dell’incontro e della coesistenza di due civiltà ugualmente mortifere – quella provinciale contadina e quella terziaria urbana -, che soffocano l’affermazione della cultura industriale, veramente scientifica e organizzata, che però deve fondarsi soprattutto sul lavoro umanizzato simboleggiato dal nonno artigiano.In tale visione, viene superato il tradizionale dualismo oppositivo per un tridismo dialettico capace di porsi come sintesi reale di natura umanizza ta, vitalismo, progetto riformatore (il nonno, Damin, Occhialini). Così Volponi ha la capacità di far vibrare i nervi e la spina dorsale dell’Italia (che non è più di moda: dal grande scrittore all’untorello prevalgono ambienti esotici e sofisticati) e di indurre a riflettere sulla sua sorte (come i grandi classici), rifuggendo sia dalla chiusura provinciale su una tradizione autoctona, sia dello speculare provincialismo di chi, per dimostrarsi europeo e cosmopolita a tutti i costi, rifugge il confronto con lo ‘specifico italiano’ e si limita ad un’opera di colonizzazione culturale, mascherata sotto il nome della modernità, ma in realtà funzionale, come l’altro provincialismo, al mantenimento dello status quo.Non più quindi sovrapposizione di due strati (come aveva sottolineato Pasolini a proposito di Memoriale), bensì tensione dialettica, unificata dinamicamente dall’occhio narrante dell’autore, obiettivo non neutro e non asettico, che illustra il processo di formazione e il fallimento di una nuova soggettività, che credo possa trovare il suo referente sociologico nei nuovi soggetti giovanili metropolitani, ma non solo, che esprimono ancora e soprattutto bisogni, istanze, possibilità più che realtà (i soggetti dopo la fine del Soggetto); in questo senso, non solamente come puro artificio tecnico, si può intendere la mancanza di personaggi a tutto tondo e la loro consisten za tra oggettiva ed allucinatoria: punti d’incontro di linee di forza (come mostrerò alla fine).Il lanciatore di giavellotto si configura pertanto come una sorta di apologo tragico sul futuro prossimo venturo, sul futuro delle giovani generazioni: ciò non come dato assoluto, fatalistico e irreversibile, ma come monito profetico a cambiare il corso delle cose – la conclusione del romanzo è tutta politica – per evitare in seguito farisiaci pianti su una società che ha dissipato la sua giovane generazione. Il che si deve intendere anche come una mediata ma polemica risposta ai vari teorici della crisi e della dissoluzione del soggetto e ai vari nichilisti, che rifiutano ormai qualsiasi progettualità e, considerando la nostra la Fine dell’Epoca, non trovano di meglio che riproporre il culto del passato e l’accettazione passiva della “precarietà” del presente, in quanto il futuro sarebbe garantito dalla “automatica” evoluzione del presente.Per Volponi al contrario siamo all’inizio di una nuova epoca, che nuova dev’essere, se non si vogliono ripetere gli errori del passato – Volponi non scrive per il gusto di narrare: attraverso la descrizione della società fascista si rivela in trasparenza l’autoritarismo montante della società presente e la sua tendenza a dilatare il conformismo sociale e la terziarizza zione come strumenti per il mantenimento del potere -; ancora e sempre dominante è la tensione triadica e dialettica (passato, presente, futuro), che gli permette d’essere anche molto chiaro e non equivoco nel suo atteggia mento verso il passato. Mentre ad esempio Vattimo (Al di là del soggetto, Feltrinelli) scrive che la “continuità della storia umana – che portiamo in tracce, strutture logiche, forme a priori dell’esperienza, nel linguaggio – è l’unica possibile fonte di criteri, regole, direttive razionali che ci sia dato possedere”, e che quindi è giusto sentirsi impegnati solo “verso il passato, verso le tracce e i valori lasciati”, Volponi privilegia la rottura, la coscienza della crisi dello storicismo, e il suo risalire “per li rami” sino alla tradizione greca è senza ambiguità, senza nostalgie, come aveva ben chiarito per bocca di Roboamo nel Pianeta irritabile: “Pensa e adopera anche il passato, ma non farti legare dalle sue strisce”. Per Volponi il passato è un dato naturale, storicità, segno presente del tempo, termine di confronto ineludibile, non uno storicistico magister vitae.Su questo ampio e solido (comprese le venature utopistiche) impianto culturale e politico si struttura il romanzo, tessuto su una fitta trama di rimandi e simboli, che si ambiguano e disambiguano nel loro riflettersi, intrecciarsi e rifrangersi onnidirezionali, in cui soggetto e oggetto, natura e storia, reale e immaginario, presente e passato, memoria e progetto, vitalismo e coscienza sono percorsi da Damin nella loro zona di confine e, in tal modo, incrinati, fatti esplodere, sdoppiati e moltiplicati; il tutto unificato nel prismatico cono visivo del narratore, un occhio sempre più cinematografico, che non si limita a registrare gli eventi ma li penetra, dietro le apparenze, alla ricerca di significazione, e che monta e miscela, incastra, momenti narrativi, descrittivi e riflessivi in una costruzione dinamica e pur equilibrata, carica di tensione ma fortemente unitaria.Questa tecnica narrativa è ben esplicitata nel cap. XVII (Il disegno). Non solo l’autore lascia intravedere la sua predilezione per una scrittura che traduca il simbolo, l’allegoria, l’idea in immagini sensibili, ma rivela tutta la sua ‘modernità’ nel momento in cui non ripropone un itinerario narrativo e di formazione della coscienza su basi astrattamente illuministiche o neoidealistiche (una ragione a priori totalizzante) ma come processo materialistico di conoscenza scientifico-induttiva, per successive approssima zioni, fondata su un rapporto costante e concreto di esperienza e intelletto, particolare universale, concretezza e astrazione. Sartrianamente, un Io, anche nella crisi, pure sempre esiste e Volponi non rinuncia all’opera faticosa di dare razionalità a ciò che si vorrebbe irrazionale. La coscienza da sola non è sufficiente e neppure la conoscenza scientifica, se non si traduce in pratica organizzata di cambiamento della società. Gerolamo Aspri, protagoni sta di Corporale, muore definitivamente con la bastonatura catartica e l’esilio di Occhialini: dall’intellettuale che considera ancora il suo lavoro artigianale come separato e che , quindi, al massimo può essere “uno che sta dalla parte dei proletari”, si perviene alla coscienza della propria proletarizzazione e della necessità di essere parte integrante di quella lotta, di agire in forma organizzata in mezzo ai contadini per aiutarli “prima di tutto a riconoscersi dentro la classe dei proletari”. A questa visione del ruolo degli intellettuali si accompagna un duro contropelo a quella parte delle avanguardie, vecchie e nuove, che dietro rivoluzioni verbali e verbose (Le mosche, cap. XII) nascondono la volontà di conservazione e di restaurazione (Tarquino Marcacci imporrà al figlio l’iniziazione sessuale nel casino, “causa e simbolo del fascismo, del confronto rassicurante medio-piccolo borghese).Questo romanzo di Volponi si pone soprattutto come tensione e sforzo di distanziare e riordinare gli strati della memoria e della coscienza, costruendo linguisticamente lo spazio interiore e il vissuto individuale come storia e geografia di luoghi ‘naturali’ e immagini concrete, sottoponendo il significante alla duplice e polidirezionale tensione del simbolo e del referente, facendolo vibrare d’una significazione nuova, irrequieta e inquietante. Non per dare soddisfazione al lettore, dunque, ma per renderlo inquieto, critico, facendogli percorrere catarticamente i viaggio del male di vivere e del vivente dolente in questa società, in funzione di un impegno di lotta per vivere. Senza ideologismi, ma colpendo la parola nel nervo e facendo scattare un dolore totale, non rassegnato: denuncia dalla disumanità del vivere presente ma fiducia nell’uomo, come singolo e collettività (il suicidio di Damin, lo ripeto, non è una conclusione cupa e pessimistica, rassegnata, ma una tragica premonizione).L’incipit del libro è costruito in maniera tale da produrre un effetto di straniamento del lettore, con un duplice scopo: catturare la sua attenzione e farlo entrare nella tessitura del testo, inteso come artificio; mantenere viva la presenza del contesto: si determina così lo spazio dell’intervento attivo del lettore su testo e sul contesto (in tale maniera la letteratura mantiene una sua alta funzione conoscitiva: i romanzi di Volponi si propongono al lettore come il leccio del Pianeta, sotto il quale “ogni cosa riesce a sottrarsi dall’acqua e a ritornare singola”, come zona privilegiata di autocoscienza e di conoscenza).Proprio nell’incipit vengono tracciate le coordinate entro le quali si svolgerà la vicenda e lo spazio della ricerca: la nuvola che ottunde il sole e il fico che ingiallisce delimitano uno spazio, né natura né storia, ma e natura e storia, nel quale agiscono i bisogni dell’Ego, oscillante sulla crosta della terra, sulla bocca del vaso. Damin – non puro eroe roussoviano, in quanto il suo film è già stato parzialmente impresso – rappresenta la forza della liebe, quando l’Eros si trasforma in sentimento degli altri, prima del sociale e del politico, ma oltre le pulsioni, e proietta sugli altri i bisogni umani elementari di identità, autenticità, solidarietà…, e la radicalità con cui li pone demistifica il rapporto tra scena (convenzioni e ruoli sociali attraverso i quali si agisce concretamente il potere) e realtà. Damin è il Nano del Pianeta, tornato nella società degli uomini, animalizzato e non vergognoso della sua umanità. Dall’azzeramento del Pianeta si passa ora all’alba d’una possibile civiltà che dovrebbe nascere dalle ceneri di due civiltà morenti: esplicitamente allusivi sono i due nomi della sorella di Damin: Lavinia e Vitina.Un leopardiano “silenzio nudo” accompagna Damin, mentre percorre quel sentiero mosso e oscuro, che si snoda tra marginalità e integrazione (che non è, pare di capire, solamente la zona del non essere, ma una ideale vichiana “guisa”, dalla quale sola può nascere insoddisfazione, critica, opposizione); quando questo silenzio si scontrerà col fragore volgare della festa rurale si compirà la tragedia: storica e concretamente sociale, oltre che esistenziale.Il gioco degli specchi e delle rifrazioni si fa in questo romanzo molto complesso (come si può osservare dalla Struttura delle relazioni primarie del romanzo): i personaggi non sono soggettivi, bensì grumi dell’intreccio delle loro relazioni; tipici, però, non semplicemente attanti: STRUTTURA DELLE RELAZIONI PRIMARIE DEL ROMANZO Si può osservare visivamente e immediatamente la compattezza della costruzione testuale pur nella tensione delle numerose linee di forza che la percorrono: lo sguardo narrante è strumento d’un’alchimia incessante, propria di un “mago irrequieto” come si è definito Volponi nella poesia Il giro dei debitori.Va da sè che manca nella rappresentazione grafica il coro, ora piccolo e rumoroso, ora silenzioso ma incombente, che accompagna Damin sulla scena.Per concludere, non posso non accennare alla intensa e urbinate madre Norma Coramboni, che con la sua bellezza “illuminava il raggio”, che vive il suo dramma specularmente a Damin, tramite principale della storicizzazione, col suo, del dramma del figlio. E non è chi non veda in trasparenza attraverso questo personaggio (il romanzo è dell’uomo Volponi, non di un computer) timidamente presente nel dramma di Norma, il velato dolore dell’autore per il decadimento di Urbino, “città piena di tempo e di storia, eppure aperta e viva”, che rischia di affondare nella palude della chiacchiera che monta dalla provincia.

Ermes Dorigo,”Il lanciatore di giavellotto” di Volponiultima modifica: 2008-02-11T18:43:20+01:00da mangano1
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