Mario Pezzella, Miguel Abensour su Hanna Arendt

447e429a5e64bb34157f8070ec4ce8a8.jpgda IL MANIFESTOL’imprevisto che irrompe nel tempo lineare del dominioLa politica come espressione di un pensiero allargato al nostro essere in comune. Un saggio del filosofo francese Miguel Abensour dedicato a Hannah ArendtPer il filosofo Miguel Abensour «filosofia politica» è un termine paradossale, un tentativo di unire due concetti contraddittori. Ripercorrendo il pensiero di Hannah Arendt (nel suo libro Hannah Arendt. Contre la philosophie politique, Sens&Tonka, Paris 2006), egli si chiede piuttosto se «filosofia» e «politica» non appartengano a tradizioni differenziali e alternative. Arendt, come è noto, amava definirsi più uno «scrittore politico», nella linea di Machiavelli, Montesquieu e Tocqueville, che un filosofo, in grado di costruire un sistema teorico della politica. Ciò è ben visibile – secondo Abensour – nell’analisi da lei dedicata al mito della caverna di Platone, che è insieme una ripresa e una critica della lettura heideggeriana dello stesso passo della Repubblica.Gli uomini incatenati nella caverna danno un’immagine totalmente negativa della vita pubblica e della polis; ad essi il filosofo, illuminato dalla visione delle Idee, dovrebbe portare ordinamento e armonia. Ma non finisce troppo bene, secondo Arendt: perché in realtà i disgraziati e recalcitranti cittadini proprio non ne vogliono sapere di essere illuminati dall’alto di un’autorità estranea e non condivisa: come già aveva scritto Heidegger è perfino prevedibile una lotta mortale tra il «liberatore» e i prigionieri che non vogliono saperne di essere liberati.L’ostilità alla polisIn realtà l’immagine della caverna e dei prigionieri suppone già un’immagine negativa dell’agire politico. Una visione dell’essere-in-comune totalmente negativa, un’ostilità alla polis, concepita come luogo di disordine e iniquità, inducono il filosofo ad imporre dall’esterno un argine al dilagare della corruzione e della morte; come se la città e l’agire dei cittadini fossero irrimediabilmente condannati all’ignoranza e all’impotenza. Questa visione negativa della politica spinge Platone a modificare addirittura la teoria delle idee nella Repubblica: più che oggetto di visione contemplativa, esse divengono istanze normative, in base a cui dev’essere ordinata la vità della città. Come già per Heidegger, anche per Arendt si passa da una concezione delle idee «come essenze vere», a quella delle idee «come misure da applicare», e ciò essenzialmente nel contesto politico della Repubblica.Se nella lettura di Platone, Arendt mostra più di un punto di contatto con Heidegger, se ne allontana però decisamente, respingendo la sua concezione dell’«essere-per-la-morte»; la filosofia occidentale è in larga misura, secondo Arendt, condizionata e guidata dall’idea della morte, e questa è tra l’altro una delle cause che determinano la sua ostilità alla politica e alla vita indeterminata e caotica della pòlis. Questa è infatti dominata dal principio imprevedibile ed opposto dell’essere-per-la-nascita, dall’irruzione di eventi incondizionati, di inizi indominabili: l’essere inaugurale produce, secondo Abensour, «l’apertura di un’infinità di possibili, capaci di far sorgere il nuovo nel mondo». Se in Heidegger è proprio l’«essere-per-la-morte» a determinare l’apertura della dimensione del possibile, per Arendt essa resta viziata da una tale origine e si arrende infine alla potenza del fato e del destino; al contrario, Arendt cerca di circoscrivere e definire l’esperienza specifica dell’inizio, dello scaturire di un evento rivoluzionario nello spazio pubblico; questa idea dell’inizio è stata soffocata e soppressa dai totalitarismi del Novecento, e va ripensata e riscoperta. L’azione politica ha la potenza di inserire nell’essere la discontinuità salvatrice, il balenio di un possibile che prima non era, e che essa estrae alla luce del significato. L’essere-per-la nascita affiora soprattutto nel tempo sospesso di una cesura storica, nell’intervallo che segna la discontinuità tra un’epoca e l’altra, quando, come ha sostenuto Walter Benjamin, la dialettica degli eventi resta «in sospeso». Nella breccia che si apre tra un ordine in declino e un ignoto, che ancora non si è solidificato e alienato in un nuovo regime, si apre il tempo dell’azione politica vera, inaugurale e iniziale. L’azione politica introduce il nuovo e il possibile nella ripetizione sempre uguale del tempo e rompe la catena del destino e della necessità. Tra l’«essere-per-la-nascita» e l’«essere-per-la-morte» vi è dunque la stessa differenza che passa tra le modalità del possibile e del necessario. La nascita è per Arendt potenza originante, da cui scaturisce l’azione politica come affermazione di un inizio.Ma come è possibile che l’azione inaugurale, la vitalità della cesura, il potere istituente dei cittadini, si diano durata e sopravvivano ai tentativi di creare un ordine altrettanto stabile e alienato del precedente? Arendt trova soccorso in un pensatore, che non ha mai scritto una vera e propria «filosofia politica», eppure ha elaborato una notevole teoria del «senso comune»: si tratta di Kant e della sua opera apparentemente più impolitica, La critica del giudizio. Il senso comune, in quest’opera, è «una condizione di possibilità» della comunicabilità universale, l’espressione del voler essere-in-comune degli uomini; essi esprimono in tal modo il desiderio di persuadersi reciprocamente e giungere a giudizi universali e condivisi. Questa universalità è tuttavia il frutto di un’attività intersoggettiva continua, e non il risultato di principi primi inalterabili e prefissati. Kant riserva questo tipo di senso comune al giudizio estetico: ma non è possibile – si chiede Arendt – estenderne il significato all’agire della comunità politica, all’essere «cittadini» di una repubblica comune? La contingenza radicaleInterpretando in tal modo Arendt, Abensour si ricollega alle origini del giacobinismo rivoluzionario francese. Il problema è tuttavia quello di evitare il passaggio dal gioco reciproco del senso comune, gestazione della volontà generale dei cittadini, a un nuovo regime fondato sulla violenza e il terrore. Il senso comune è il principio a priori della decisione politica democratica, che si oppone al principio autoritario fondato sulla sottomissione e sulla asimmetria servo-padrone. Per praticarlo occore tuttavia la desueta virtù del coraggio civico: se la vita sotto il dominio si limita «alla ripetizione della vita e al suo ciclo ripetitivo», l’azione politica espone nello spazio pubblico dell’apparire, in cui «ogni cosa ed ogni uomo si espone alla vista dell’altro». Alla filosofia politica fondata su principi primi e sul dominio dell’Uno, Arendt oppone il pensiero allargato di Kant, più un processo e un metodo che una determinazione di contenuti: esso esprime il continuo tentativo di accordare i nostri giudizi a quelli degli altri, senza poter sapere se esso avrà successo e quale risultato finale emergerà dal confronto. L’azione politica resta esposta a una contingenza radicale, anche se guidata da una forza trascendentale e utopica. Se non è possibile dedurre il contenuto della decisione da un principio, è però opportuno lasciarsi guidare da una unità di misura (la relazione simmetrica tra uguali) e dal «pensiero allargato», che esalta il confronto delle opinioni e critica ogni forma di asservimento.

Mario Pezzella, Miguel Abensour su Hanna Arendtultima modifica: 2008-02-18T15:15:11+01:00da mangano1
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