Antonio Benci, Il maggio francese come “altrove”

93c1c887d0da0ed2f09f7c3e2c4ddc04.gifNon avete altro che immagini, e queste immagini creano lo spazio tra voi e quello che osservate e in quello spazio c’è conflitto.Krishnamurti Il soggetto di questo saggio è la dimensione immaginaria del maggio francese in Italia. Il suo essere un “avvenimento” capace di coinvolgere emotivamente un’intera generazione, pur non essendosi realizzato nel suo “spazio fisico” d’appartenenza. Il suo evocare nel movimento un’immagine che, come avrò modo di spiegare, conduce ad una dimensione di altrove. Il suo incrociare infine un’epoca di rapidi e radicali mutamenti tecnologici, sociali e antropologici.In questo senso il problema da porsi è innanzi tutto cosa fosse il mondo altro per la generazione del ’68, e quindi quale legame ci sia stato – e ci sia tuttora nella memoria – con quei 58 giorni che “hanno fatto tremare” la Francia. Questo condurrà a spiegare come l’ancoraggio intellettuale non sia delimitabile ad una percezione geografica di altro luogo, ma anche ad un metafisico luogo altro in cui convivevano e permangono molte componenti dell’immaginario: il sogno di un altro mondo in cui il progresso scientifico non fosse contrapposto all’arretratezza sociale; un sentimento di appartenenza generazionale condivisa con i coetanei “impegnati” e di protagonismo della propria esistenza. Un “avvenimento”, il maggio, interpretato come sintesi tra il grande mito della Rivoluzione e un’idea sublimata della Francia; una “nostalgia traslata” per un passato immaginato che diviene in tal modo serbatoio identitario da vivere per il presente[1]. Con l’aiuto di alcuni dei più felici slogan del maggio, simboli e sintomi di un altrove della memoria cercherò di chiarire questi aspetti[2].1. Frontiéres=Repression[3]. Avanguardie e cambiamenti.Gli anni sessanta, concetto prima ancora che decennio, introducono la crisi dei due sistemi usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale. L’Urss è alle prese con una sorta di restaurazione dopo le caute aperture di Krusheev, come evidenzia l’invasione della Cecoslovacchia e la crisi nei rapporti con la Cina. Gli Usa accompagnano la fine dell’era Kennedy alla disastrosa avventura in Vietnam e alle rivolte nei campus universitari e nei ghetti neri. L’Europa sullo sfondo stenta a decollare come soggetto politico autonomo anche per gli ostacoli posti da De Gaulle. Il mondo che rimane, altro o diverso, vive i grandi sogni della decolonizzazione e delle rivoluzioni popolari e culturali (Cina, Vietnam, Cuba). Uso il termine di sogno perché le percezioni soprattutto nei giovani trascendono la realtà dei fatti, come spiegherò successivamente. Questi fattori riguardano da vicino la detestata divisione del mondo in confini che reprimono la libertà e che offrono uno spiraglio: «L’allentamento del vincolo geopolitico internazionale, che caratterizza gli anni sessanta, con il disgelo che ne è la manifestazione più appariscente. Allentamento, non caduta del vincolo. Ma sarà proprio questa possibilità ad alimentare la speranza di superare la logica dei blocchi contrapposti e a consentire, come è stato scritto, “la pensabilità di un mondo alternativo”»[4].Ma cosa significava allora questo mondo alternativo? E’ indubbio che negli anni sessanta inizia un periodo particolarmente fruttuoso intellettualmente, in cui si moltiplicano quelle «tensioni d’avanguardia prodotte dall’onda mondiale dei cambiamenti di quei tempi»[5]. E non a caso, seppure avulsi dal contesto, sono presenti due termini fatali per l’esperienza del Sessantotto: avanguardia e cambiamento.Essere avanguardia esprime bene quel compiacimento di sentirsi protagonisti che coinvolgeva tutti e defalcava ogni possibile remora, come conferma un testimone del tempo: «Quello che bisognerebbe saper trasmettere è la sensazione di protagonismo che c’era. Che ti appagava»[6]. L’impressione, introducendo il tema dell’altrove, è che, in quegli anni, chi si occupava di politica, andava alle manifestazioni e alle assemblee, occupava le università e le fabbriche o semplicemente cercava di informarsi sui fatti del mondo, «aveva veramente una sensibilità [per cui] quello che accadeva nel mondo riguardava noi»[7]. Da questo punto di vista l’elemento distintivo del guardare altrove nei giovani è una visione del mondo diversa, più vicina, antitetica al confine e alle sue implicazioni claustrofobiche[8].Un’ansia di cambiamento il cui motore è un sentimento comune e condiviso di vivere in un’epoca di progresso. Se si sfoglia uno dei tanti giornali del 1968, quello che emerge è chiaramente l’idea di fuga in avanti della scienza e della tecnica. Se la meccanizzazione delle imprese, l’apparire dei primi robot, l’incremento e l’accessibilità all’utilizzo dell’auto sono elementi che cambiano stili di vita, abitudini e percezioni del presente[9], la corsa alla Luna e i trapianti di cuore realizzati a partire dal 1967 dal chirurgo Barnard sono tasselli di una contemporaneità che arriva a sfidare lo spazio fisico e quello sconosciuto e misterioso rappresentato dalla morte. Una realizzazione tangibile di questa dimensione di altrove, che innesca nuovi dubbi e domande sul concetto di neutralità del progresso, uno dei temi cardine della “cultura” del sessantotto, sta proprio qui: lo scarto tra il progresso scientifico e la sua utilizzazione, tra la scienza che permette cose inimmaginabili ed il cattivo uso che “il potere” ne può fare. 2. Nous sommes tous indesiderables[10]. Noi chi?Ma non è solo il progresso che suscita ideali di altrove. Ci sono anche ribaltamenti di visuale frutto di accorciamenti nelle distanze percepite ma anche di concrete situazioni di interscambio, conoscenza reciproca data per esempio dai viaggi. Di formazione, come saranno molti di quelli di studenti e militanti italiani in Francia durante e dopo il maggio francese, ma anche di svago che il caso portava altrove. Dove si incontrano realtà, comportamenti sociali, stili di vita altri.Ti ritrovi da un lato che il giovane del ’62, ’63, ’64 va in Olanda e incontra i provos. Sostanzialmente è la dimostrazione che fa parte di un mondo uguale a lui. Però questo stesso giovane che ritorna a Palermo o a Catania, dopo aver conosciuto i provos deve fare i conti non solo con la mancata rivoluzione sessuale, di mancanza nei rapporti tra uomini e donne, ma anche con i problemi di spagnolismo, mafia, corporazione e arretratezza che fa delle città meridionali delle énclave di povertà e sottocultura, per cui essere un provos a Catania, Caltanissetta, Palermo significa essere indicato come lo scemo del villaggio, cosa che i giovani non possono permettersi di fare. Il cambiamento che avviene con il ’68 è che poi se lo permettono[11]. «Un mondo uguale a lui». Ecco una felice sintesi tra idea di generazione e percezione di altrove. Il giovane vive una parentesi di luogo e di spazio, l’essere giovane nel tempo che ha avuto la sorte d’incrociare a vent’anni. E lo vive come un momento irripetibile e non già fase di passaggio distante dalle altre generazioni e capace di influenzare con i suoi consumi il mercato[12]. E’ un forte sentimento di appartenenza ad un gruppo, slegato da recinti di territorio, classe e censo: «La generazione che accedeva alla sfera politica e all’età adulta, in quegli anni, sentiva di vivere in un mondo più unito e interdipendente che mai in passato, aveva cominciato a definire la propria identità, e le proprie appartenenze, in termini di umanità più che di singola nazionalità»[13]. Un ideale generazionale che sovrasta quello di appartenenza a una comunità nazionale, di cui proprio il maggio diverrà simbolo e punto più alto. Detto in altri termini “figli” di un tempo più che “eredi” di un ambiente sociale o geografico. Ma perché proprio il maggio e non la primavera di Praga, il Messico o Berkeley diviene un crocevia emotivo fortissimo di tanti giovani italiani? Ci sono motivi oggettivi come la vicinanza storica e geografica, i sistemi economici e sociali non dissimili, l’inserimento di entrambi i paesi nella comunità europea e nella sfera occidentale. Ma vi sono, più importanti e con maggiori tracce nel tempo, rilievi immaginari, influenze sottotraccia. Già a partire dagli anni cinquanta scattano fenomeni identificativi nei giovani italiani largamente debitori di suggestioni d’oltralpe, basti pensare ai blousons noirs[14].I giovani italiani hanno perciò un’altra caratteristica propria e unica pur se in stretta connessione con “l’idea di Francia”. Sono difatti l’ultima finestra anagrafica italiana pienamente imbevuta di cultura francese. Questo a livello di letteratura come di cinema, di musica, di riferimenti intellettuali. Con i Beatles sullo sfondo e l’avanzata della cultura americana e anglofona l’ultimo lembo di francofilia è difeso nel proprio immaginario proprio da chi riceve quella mattina di primavera la notizia di Parigi con le barricate. «E’ scoppiata la Rivoluzione, è scoppiata la Rivoluzione» urlano felici gli studenti di Trento alla notizia, rigorosamente appresa tramite la radio transistor[15], che a Parigi sono riapparse le barricate. E per molti fu proprio la notizia colta al volo a innescare una passione rivoluzionaria apparsa come non mai così a portata di mano e tale da indurre un viaggio più o meno improvvisato nell’altrove della capitale mondiale della Rivoluzione: «Ricordo solo il caso delle radiocronache in diretta degli scontri tra manifestanti e polizia al centro di Parigi, cronache che, specie nelle ore notturne era possibile seguire anche in Italia, e che contribuirono all’accorrere, assolutamente disorganizzato, di un bel numero di militanti nella capitale mondiale della Rivoluzione nuovamente in marcia»[16].3. Révolution. Je t’aime[17]. Rivoluzione altrove.Una grande suggestione ”contemporanea” di questo indefinito altrove, sono infatti proprio quelli che si possono definire i venti rivoluzionari. Tra questi a pieno titolo trova posto il maggio francese. Altre suggestioni o icone dell’immaginario scandiscono da altrove il tempo della Rivoluzione. Sono Mao, Castro, Ho Chi Minh e Che Guevara. Basta la loro azione radicale e violenta a innalzarli al ruolo di eroi romantici e quindi idoli da seguire, come segnala uno studioso francese[18]?I punti di riferimento altrove sono fili da dipanare e seguire per giungere forse alla risposta che sta nella parola stessa: la Rivoluzione, vero mito e punto di arrivo cercato dal Sessantotto. La concreta possibilità di giungere ad un cambiamento radicale della società seguendo esempi di altrove in cui le esperienze realizzate (Cuba, il Vietnam, la Cina Popolare) finivano per costituire in un’ottica fideistica l’immagine della realizzazione del socialismo in terra. In un mondo accorciato dalla tecnica e dai moderni strumenti di comunicazione di massa questo è ancora più arduo da credere se non fosse che a mediare percezioni e valutazioni interveniva l’immaginario. Ecco che tutti i focolai di possibile cambiamento radicale si sommano e fanno percepire la rivolta mondiale come, se non certa, possibile: «Si aveva la percezione che i cambiamenti avvenissero nel giro di pochi giorni, mesi al più tardi»[19], rivela un testimone molto giovane al tempo ma forse proprio per questo più incline a registrare i sommovimenti dei tempi.Tentando un riassunto di questo altrove spaziale che veniva con il vento rivoluzionario da altri luoghi e altre storie, l’impressione è che i riferimenti ambientali altri fossero anche una risposta ad un conformismo indigeribile soprattutto per un giovane. E’ ciò che si può chiamare il “rifiuto dei panettoni”, visto quasi come metafisica rottura con la realtà. Questo nel ricordo di un altro dei testimoni del tempo, giovane operaio che in quanto giovane (ancora il perimetro generazionale) più che in quanto operaio non era insensibile ai condizionamenti del tempo presente: «Rompi gli indugi con il tran tran quotidiano, fatto di andare al lavoro, mugugnare contro il sindacato, fare qualche riunione, visite (sporadiche) alla sezione del Pci della fabbrica, alla sezione del Pci sottocasa in cui ti annoiavi a non finire, perché si parlava solo di cooperative, del panettone da dare a Natale e quindi altro che Che Guevara e Rivoluzione»[20]. In questo senso il fascino delle notizie di Parigi con le barricate non poteva che corrispondere alla realizzazione dell’immaginario della Rivoluzione. Era in altri termini la realizzazione dell’utopia. Seppure attraverso la violenza. Una dicotomia ben sintetizzata dallo slogan che esprime le due anime della contestazione del maggio studentesco e della sua immagine per i coetanei italiani, dessous les pavés, c’est la plage: «La contestazione studentesca disselciò il pavé a fini bellici scoprendo… sabbia. Narra Daniel Cohn-Bendit che una sera di maggio vide un ragazzo chino sulla massicciata. Estraeva ciottoli per future battaglie. E lo sentì esclamare, sorpreso: “Sous le pavé, la plage”. E’ forse lo slogan più bello e intraducibile del “Mai ’68”. Sotto le pietre, la spiaggia. Ritroviamo, in quello stupore notturno, i due archetipi del sessantottismo. Violenza politica e dolce utopia»[21].Barricate e poesia. Se la prima è simbolo che diventa «coscienza collettiva e uso di massa»[22], la seconda diviene trasposizione nella protesta (la poésie est dans la rue[23]), con l’utilizzo di un linguaggio accessibile e intriso di riferimenti e suggestioni oniriche altre. 4. La barricade ferme la rue mais ouvre la voie[24]. La Francia altrove.Tentare di chiarire se la parola Rivoluzione era intesa come sorta di ansia di cambiamento oppure come introiezione di un immaginario è arduo da interpretare. La dimensione immaginaria è largamente debitrice oltre che dei simboli della battaglia – primo tra tutti la barricata che idealizza e estremizza una separazione in due campi in chiave di definizione identitaria – anche dello spazio fisico e mentale ove questa si svolge. Non solo l’”idea di Francia”, ma anche e soprattutto l’”idea della storia della Francia”. Soprattutto nei giovani militanti del Sessantotto italiano la percezione e sublimazione della Commune. Un “esperienza del passato” che è cardine di una interconnessione tra memoria individuale e collettiva e in cui il potere dei segni indica un passaggio nel corridoio della storia, come «epitaffi degli avvenimenti d’altri tempi»[25]. Ecco il potere dell’immaginario che porta durante gli eventi, con un classico uso pubblico della storia «gli insorti del maggio [ad] adottare lo stile, le tattiche di strada, la terminologia stessa dei comunardi»[26].Una sorta di nostalgismo traslato di una storia non vissuta, ma percepita come propria. E ancora non nel senso limitativo di una successione di eventi che hanno riguardato popoli e genti all’interno di un recinto-confine, ma nella visione partecipata e condivisa di una storia in cui riconoscere i propri padri ideali. Illuminante al riguardo il passaggio di una testimonianza a proposito di viaggi a Parigi e legami senza tempo e confini: «Io poi avevo da andare a vedere il mio cimitero di Père Lachaise dove c’erano tutti i miei antenati comunisti anarchici francesi e morti in esilio»[27]. Si riconoscono legami con chi non ha seguito la stessa storia patria, non parla la stessa lingua e ha usi e abitudini diverse dalle proprie. E tuttavia sono i «miei antenati» e riposano in un cimitero che è «il mio». La sovrapposizione con brandelli di storia di Francia e con l’introiezione della patria della Rivoluzione come “propria” prosegue sempre nel corso della stessa intervista in cui è chiara la mitizzazione del maggio come stretto parente della commune e di una idealizzazione della Francia depositaria delle memorie e delle speranze rivoluzionarie. Ancora oggi ogni volta che lo dico, mi viene un groppo, vedere il muro della comune di Parigi con i fiori freschi, per me è uno dei ricordi più belli della mia vita. Trovare che c’erano i fiori freschi a mazzi, io non me l’aspettavo … allora pensai: la Francia è ancora quella che mi sono sognata.E qual è la Francia che ti eri sognata?La continuità tra la comune di Parigi e quello che era successo nel maggio ’68, che qui in Italia vedevi si era interrotta bruscamente[28]. La rappresentazione del maggio ha innescato un processo molto rapido di mitizzazione dell’evento che ha intralciato e continua a farlo una corretta definizione storica di problemi e svolgimenti[29]. C’è un oggettivo sentimento di identificazione ai confini del reducismo in chi percepisce come propria quell’esperienza e che fa del maggio un portato della propria storia personale, del proprio percorso attraverso quegli anni, delle proprie esperienze fondanti all’interno di una generazione.Non ci sono solo icone, simboli e suggestioni storiche alla base di questo. L’entrata a forza del maggio nell’immaginario è indubbiamente mediata da tali simboli, dall’esplosività di una situazione non più confinata e limitabile all’ambiente universitario. Ma i simboli sono anche la spiegazione e la soluzione del problema dell’appartenenza.Chi si mobilita quando si è in tanti? Giovani, lavoratori, famiglie, gente normale, le persone cioè che subiscono una qualche forma di rapporto oppressivo più o meno pesante, più o meno articolato. Quindi è in condizioni obiettive esistenziali che sono eteronome, e manifestando le vuole rompere, e vuole affermare e rivendicare una propria identità autonoma. Perciò non c’è proprio nulla di strano se ci sono gli slogan, i simboli, i linguaggi altisonanti, i finti attacchi a questi o quelli, le contestazioni con parole selvagge: si tratta dei primi momenti, mossi dal fatto di essere massa, di autorealizzazione di una soggettività, e al tempo stesso di rottura di un’ingabbiatura introiettata[30]. Questi primi momenti che convivono e coincidono con la memoria della barricata, dello scontro con la polizia, dei leaders studenteschi, dei cortei, costituiscono anche l’evento fondante del ricordo della propria appartenenza e della effettiva condivisione del ricordo di un vissuto. Sono e sciolgono l’appartenenza ad una storia e ad un altrove immaginato che è poi parte dell’auto-identificazione in una generazione.5. Le rêve est realité [31]. ConclusioniAvvicinandosi alla memoria dell’altrove maggio, le suggestioni immediate sono comunque ascrivibili e riferibili soprattutto all’aspetto delle giornate parigine più dense di rappresentazioni visive. Il fatto è che se l’immaginario è obbligato ad usare i simboli per esistere in quanto non è “l’immagine di” quanto una serie di figure, forme ed immagini che formano una rappresentazione di qualche cosa[32], allora è possibile archiviare il maggio come l’”avvenimento” maggiormente simbolico del Sessantotto come illustra con una felice espressione uno studioso: «E’ a Parigi in maggio che il 1968 diventa il “sessantotto”. Senza il maggio di Parigi, che riassume e ingigantisce ciò che è precedentemente accaduto nel resto d’Europa e del Mondo, l’anno non sarebbe stato lo stesso, il movimento non avrebbe acquistato la fugace forma di una Rivoluzione»[33]. Questo al di là dell’essere francese, appartiene alla memoria di una parte della generazione sessantottina proprio in virtù della sua straordinaria rappresentatività di simboli e come mitica rappresentazione in sé stessa. Per questa ragione, il maggio è già a distanza di pochi mesi non più francese. E’ solo il maggio! Prefigura un principio, uno stato d’animo, quasi un’ideologia. E’ quindi un altrove perché mediando con la propria soggettiva visuale esso sta per situazione pre-rivoluzionaria, marcia verso il potere, movimento di massa, insurrezione latente e molti altri termini ancora. Ovvero come immagine figurata che rimanda ad un concetto. In questo senso illuminante il parere dello studioso (prim’ancora che dell’ex militante e testimone) Attilio Mangano:Ma allora qual è l’immaginario del maggio francese? Perché dici sessantotto e la prima o seconda cosa che esce è: maggio francese?E’ sempre quello. Il maggio francese è la sintesi cinematografica del processo rivoluzionario sconfitto. E’ il paradigma della rivoluzione, perché nell’arco di un mese dalla scintilla allo sciopero generale, manca solo la presa del Palazzo d’Inverno. Hai dentro tutta la tipologia e la metodologia dei processi che partono dal basso e finiscono nella rivoluzione politica[34]. Il maggio non è più una lezione, un esempio, un modello da riproporre o un esperimento politico migliorabile. E’ oggi più che mai un “elaborato teatro mentale” che rimanda ad un altrove costituito da memorie di militanti, attori e reduci del sessantotto che lo identificano come paradigma della Rivoluzione e archetipo dell’Uomo in rivolta. Ma la dimensione immaginaria oltre che del simbolo, del luogo e dell’immagine, è largamente debitrice della mistica dell’”avvenimento che spinge a distanza di tempo i militanti italiani a recarsi a Parigi per vedere i luoghi del maggio, ma anche quelli della commune assieme. Egualmente il maggio un secolo dopo diventa parte di un immaginario condiviso che annulla lo spazio che separa Parigi dal resto della Francia e del mondo e fa condividere l’”avvenimento” a tutti[35]. Un altrove mediato dagli splendidi affiches dell’Atelier Populaire, dagli slogan che rimangono anch’essi come sintesi di uno stato d’animo transnazionale della generazione del Sessantotto, dai canti delle manifestazioni, dalle scritte murali mai banali. Tutti ripresi se non copiati anche senza essere italianizzati[36].Lo sforzo immaginativo di cercare e individuare questa metafisica realtà altrove è presente con le suggestioni rivoluzionarie coeve, con la dimensione altra di una musica diversa, con la rivelazione di nuove forme aggregative. La percezione diffusa di ricerca di un altro spazio in contrasto con il proprio, in un mondo in pieno “progresso”, trova una chiave di lettura nel maggio che identifica e illustra questa richiesta di altrove.L’impressione che rimane è che il suo essere la traslazione di un sogno immaginato ed un fenomeno storico costellato di simboli, il suo incrociare una certa idea della Francia e della sua storia, infine la sua notevolissima componente immaginata, fanno del maggio per la generazione del Sessanttotto un evento che rimane un altrove della propria storia, o per usare un’altrui felice espressione «del proprio patrimonio»[37].[1] A. Cavalli, C. Leccardi, Le culture giovanili, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, Tomo II, Einaudi, 1997, p. 776.[2] Un’approfondimento del tema dell’altrove del maggio francese in Italia, è contenuto nella mia tesi di laurea in storia della società europea. Cfr. A. Benci, Il Vento di Parigi. Percezione, trasposizione e memoria del maggio francese in Italia. Università di Venezia, A.A. 2005/2006. In particolare l’ultimo capitolo, pp. 161-202.[3] «Frontiere=Repressione». Da un affiche [manifesto, ndr] dell’Atelier Populaire (ex scuola delle Belle Arti occupata il 14 maggio 1968 e così ribattezzata).[4] N. Gallerano, Il sessantotto e la politica in P.P.Poggio (a cura di), Il sessantotto. L’evento la storia, Fondazione Micheletti, 1988-89, p. 32. La citazione virgolettata è di A. Cavalli, Passato e futuro dei movimenti, “Rinascita. Il contemporaneo” , IX, 1988, p. 23.[5] G. C. Marino, Biografia del sessantotto.Utopie, conquiste, sbandamenti, Bompiani, 2004, p. 61.[6] Testimonianza di Basilio Rizzo [nel 1968 impegnato con il Movimento Studentesco di Scienze a Milano, nda] in A. Benci, Il vento di Parigi, cit., p. 79 dell’Appendice.[7] Testimonianza di Franco Calamida [nel 1968 ingegnere presso la Philips di Milano ed ivi impegnato con l’attività dei Cub – Comitati Unitari di Base, nda] in A. Benci, Il vento di Parigi, cit., p. 69 dell’Appendice.[8] Cfr. P.Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, 1998, pp. 35-57.[9] Cfr. M. Flores e A. De Bernardi, Il Sessantotto, Il Mulino, 1998, pp. 140-152.[10] «Noi siamo tutti indesiderabili». Da un affiche dell’Atelier Populaire (a proposito dell’espulsione di Daniel Cohn Bendit).[11] Testimonianza di Attilio Mangano [nel 1968 leader del movimento studentesco di Palermo, nda] in A. Benci, Il vento di Parigi, cit., p. 43 dell’Appendice.[12] G. De Luna, Il 1968 in A. Agosti (a cura di), Enciclopedia della sinistra nel XX secolo, Editori Riuniti, 2000, pp. 771-772. Qui sintetizza un’interpretazione di Eric Hobsbwam.[13] P.Ortoleva, I movimenti, cit., pp. 45-46.[14] Cfr. G.C. Marino, Biografia, cit., p. 64.[15] Da una testimonianza in A. Ricci, I giovani non sono piante, SugarCo, 1978, p.167.[16] P.P. Poggio, Alcune considerazioni sui diversi modi di archiviare il sessantotto, in P.P.Poggio (a cura di), Il sessantotto, cit., p. 96.[17] «Rivoluzione. Ti amo». Segnalato sui muri dell’Università di Nanterre nel maggio 1968.[18] Cfr. R. Frank, Imaginaire politique et figures symboliques, in G. Dreyfus-Armand, R. Frank, M.-F. Lévy, M. Zancarini-Fournel (a cura di), Les années 68. Le temps de la contestation, Editions Complexe, 2000, pp. 31-47.[19] Testimonianza di Giorgio Riolo [nel 1968 militante in una Comunità di Base cattolica di Milano, nda] in A. Benci, Il vento di Parigi, cit., p. 47 dell’Appendice.[20] Testimonianza di Emilio Molinari [nel 1968 impegnato presso i CUB della Borletti, fabbrica del milanese, nda] in A. Benci, Il vento di Parigi, cit., p. 62 dell’Appendice.[21] E. Benedetto, Maggio 68, tutti figli di quelle barricate, “La Stampa”, 29 aprile 1998.[22] B. Giorgini (a cura di), I fiori di maggio, Samonà e Savelli, 1978, p. 17.[23] «La poesia è nella strada». Apparso al Teatro Odéon, occupato dagli studenti il 16 maggio 1968.[24] «La barricata sbarra la strada ma apre la via». Apparso presso il campus di Censier fuori Parigi nel maggio 1968.[25] M. Halbwachs, La memoria collettiva, Unicopli, 1987, p. 65[26] P. Ortoleva, I movimenti, cit., p. 69.[27] Testimonianza di Adriana Dadà [nel 1968 leader del Movimento Studentesco di Firenze a Magistero, nda] in A. Benci, Il vento di Parigi, cit., p. 36 dell’Appendice.[28] Ibidem.[29] Cfr. B. Bongiovanni, Attraverso le interpretazioni del maggio francese, in in A. Agosti, L. Passerini, N. Tranfaglia (a cura di), La cultura e i luoghi del ‘68, Franco Angeli, 1991, pp. 103-123.[30] Testimonianza di Luigi Vinci [fondatore nel 1968 del gruppo Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia, nda] in A. Benci, Il vento di Parigi, cit., p. 59 dell’Appendice.[31] «Il sogno è realtà». Segnalato a Censier nel giugno 1968.[32] Cfr. C. Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Laterza, 1998, p. 193[33] M. Flores, Il secolo-mondo. Storia del novecento, Il Mulino, 2002, pp. 461-462.[34] A. Mangano in A. Benci, Il vento di Parigi, cit., p. 45 dell’Appendice.[35] Cfr. P. Nora, Il ritorno dell’avvenimento, in P. Nora e J.J. Le Goff (a cura di), Fare storia, Einaudi, 1981, pp. 139-158.[36] Cfr. A. Benci, Il vento di Parigi, cit., pp. 140-155.[37] B. Rizzo, in A. Benci, Il vento di Parigi, cit., p. 79 dell’Appendice.

Antonio Benci, Il maggio francese come “altrove”ultima modifica: 2008-02-23T13:35:52+01:00da mangano1
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