Giuliano Battiston,Intervista a Zygmunt Baumann

09e2c86868474f405bb15f11f0d87c6e.jpgCAMBIA IL MONDO, CAMBIA IL VENTO dalla rivista LO STRANIERO, febbraio 2008Anche le riflessioni più originali corrono il rischio di cristallizzarsi, avverte Zygmunt Bauman, uno dei più noti intellettuali europei. Succede quando vengono trasformate in “doxa”, finendo per diventare idee che tutti pensano, ma sulle quali nessuno ragiona. Che anche alcune delle sue acute diagnosi concettuali sulle forme delle società contemporanee corrano questo rischio è il sintomo della straordinaria diffusione che hanno avuto i suoi libri, così come della facilità con la quale perfino analisi articolate possano essere ridotte a formule passepartout. Forse, però, nel caso del sociologo di origine polacca, professore emerito presso le Università di Leeds e Varsavia, quel rischio è soprattutto il frutto di un metodo preciso, consapevolmente adottato: la deduzione da ciò che è estrinseco e “volgare” di ciò che è intrinseco e “sublime”. Come se per Bauman fosse vera sociologia solo quella che nasce dall’osservazione della vita quotidiana, e che, nutrendosi di un confronto costante con essa, non perde mai la consapevolezza della sua natura provvisoria, e insieme della “natura umana, non-inevitabile, contingente e alterabile” di ogni ordine sociale. Attorno a questa consapevolezza Bauman ha costruito un lungo percorso teoretico, fatto di ricerca ma anche di autentica passione etica, di cui i tanti libri pubblicati sono solo l’aspetto più visibile, ma non l’unico. Tra quelli tradotti in italiano negli ultimi anni, ricordiamo: “Modernità e olocausto” (Il Mulino 1999), “La società dell’incertezza” (Il Mulino 1999), “Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone” (Laterza 2000), “La solitudine del cittadino globale” (Feltrinelli 2000), “Voglia di comunità” (Laterza 2001), “La Libertà” (Città Aperta 2002), “Modernità liquida” (Laterza 2002), “La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza” (Il Mulino 2002), “Intervista sull’identità” (Laterza 2003), “Lavoro, consumismo e nuove povertà” (Città Aperta 2004), “L’Europa è un’avventura” (Laterza 2006), “La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti” (Bollati Boringhieri, nuova edizione 2007), “Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido” (Laterza 2007), “Il disagio della postmodernità” (nuova edizione Bruno Mondadori 2007).b Professor Bauman, in un saggio pubblicato prima sulla rivista “Theory, Culture and Society” e poi nel libro “Modernità liquida”, lei sostiene che il compito della sociologia sia quello di “prendere le distanze, prendere tempo, al fine di separare il destino dalla sorte, di emancipare il destino dalla sorte, perché il destino possa affrontare e sfidare la sorte”. Che cosa intende? Vuol forse dire che la sociologia deve essere un antidoto alla tendenza a naturalizzare le costruzioni umani? Uno strumento per evitare di attribuire un carattere di inevitabilità agli eventi?Ha posto la questione in modo molto pertinente, ma devo dire che non posso essere sicuro di quel che pensavo quando ho scritto quel saggio: ho vissuto un tempo incredibilmente lungo, durante il quale il mio personale modo di comprendere il mondo ha attraversato fasi molto diverse, e allo stesso modo sono cambiate molte cose intorno a me. In quello stesso libro, per esempio, ho fatto riferimento al fatto che, quando ero giovane, la psicologia sociale che mi veniva insegnata tendeva a concentrarsi sugli esempi ricavati dai topi da laboratorio, che, messi in un labirinto, avevano il compito di trovare la via d’uscita più breve e sicura per ottenere come ricompensa, alla fine del labirinto, un pezzo di cibo. Una volta trovata la via, i topi dunque dovevano memorizzare la maniera più efficace per uscire dal labirinto, e la loro intelligenza era misurata sulla base della rapidità con cui svolgevano il compito. Questi esperimenti erano fondati sull’assunto che la struttura del labirinto fosse sempre la stessa, e che, in termini più generali, qualora un individuo avesse imparato cosa fare nella propria vita, sarebbe potuto andare avanti, e poi ancora avanti, senza cambiare atteggiamenti e abitudini, poiché il giorno successivo sarebbe stato come il precedente. In questi termini, all’origine di quegli esperimenti c’era un assunto di stabilità, ovvero la fiducia che l’ambiente, le circostanze, tutto ciò che circonda l’uomo sarebbe rimasto immutato per l’intero corso della sua vita, se non per un tempo infinito. In modo simile, Jean-Paul Sartre ha coniato il concetto di “projet de vie”, con il quale intendeva dire che, una volta deciso cosa fare nella vita e che tipo di persona essere, agli occhi di un individuo ogni cosa sarebbe diventata chiara, stabile e assolutamente determinata come i passi da compiere e la direzione da seguire per realizzare il proprio “projet de vie”. A questo proposito, come lei ricorderà, io ho usato la metafora del pellegrino, colui che, conoscendo la mappa esatta della strada che conduce al luogo sacro, si limita a calcolare le risorse che gli occorrono, la forza e il numero di scarpe necessarie per coprire la distanza che lo separa dal tempio. Tutti questi esempi sono accomunati dal tacito assunto secondo il quale l’unico elemento che può cambiare nella vita di un uomo e nel mondo nel quale egli vive sia il comportamento personale, mentre tutto il resto è dotato di una granitica stabilità. Oggi, però, tutto questo è finito. Non ci è più concesso di basare le nostre credenze e le nostre azioni su un presupposto del genere, poiché le condizioni della nostra vita cambiano in continuazione, determinando quella che ho definito come una modernità liquida. Modernità liquida significa che gli elementi di ogni nuova situazione appaiono dal nulla, e che quando appaiono già sappiamo che non potranno durare a lungo, perché saranno ancora una volta sostituiti. Si tratta di un processo di modernizzazione compulsiva e ossessiva: ogni cosa viene continuamente modernizzata, e ciò che oggi è modernizzato sarà ri-modernizzato di nuovo domani, e ancora il giorno successivo. Ora, per rispondere alla sua domanda: in queste condizioni qual è il ruolo della sociologia? Si tratta di una questione complicata, ma direi che la sociologia deve intrattenere una continua conversazione con l’esperienza umana. Per tornare ancora una volta a quando ero giovane, agli anni in cui studiavo sociologia da studente, ricordo che allora i miei professori mi insegnavano che il compito della sociologia era quello di correggere il senso comune, giudicato errato e confuso. Si riteneva infatti che la gente comune non avesse né il tempo né le capacità di analizzare le cose che vedeva, e che la sociologia invece fosse in grado di investigare sugli avvenimenti. Che, in altri termini, potesse comparare tra di loro le diverse esperienze umane fino a riconoscerne la vera struttura, e che grazie a questa sua capacità fosse in grado di correggere le concezioni sbagliate derivate dall’osservazione ordinaria. Insomma, si credeva che la sociologia potesse raggiungere la verità sul mondo. Oggi mi sembra invece che i sociologi non pretendano più di godere di un accesso privilegiato alla verità, perché la verità cambia molto velocemente: il carattere liquido della modernità infatti ha relativizzato ciò che sembrava essere la verità data, l’hardcore della condizione umana e dell’essere umano nel mondo. Oggi, dunque, invece di correggere il senso comune, la sociologia deve continuamente confrontarsi con esso, in una relazione a due, che implica reciprocità. Attualmente i sociologi studiano un mondo e imparano da un mondo che è già stato pre-interpretato dalle persone comuni nella vita di tutti i giorni, e il mondo in cui agiamo è, nello stesso tempo, un mondo che continuamente interpretiamo. In questo senso la sociologia deve diventare un’ermeneutica secondaria, la cui risorsa primaria sia l’esperienza pre-interpretata dalle persone comuni, che sono degli ermeneuti a loro volta, dato che interpretano ogni giorno la loro vita e le loro esperienze, collocandole in cornici interpretative, costruendo categorie ermeneutiche e cercando di attribuire un senso alla loro vita. Ci troviamo dunque in una situazione nella quale la maggior parte dei presupposti dei sociologi sono andati distrutti, quei presupposti che facevano credere loro di essere i portatori della verità e della vera conoscenza. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, quale fosse una volta l’orientamento della sociologia verso il potere burocratico. La burocrazia era ovviamente interessata alla gestione delle persone, e i sociologi potevano suggerire ai manager del potere come gestire queste persone dal momento che conoscevano le regole che ne governavano il comportamento, e conoscendo le regole avrebbero potuto guidare il comportamento nel modo ritenuto più opportuno. Ritengo che oggi la sociologia abbia smesso di essere utile ai manager, ma che sia di un’enorme utilità potenziale per le persone comuni. Viviamo infatti in un’epoca che Anthony Giddens definisce di “life politics”, nella quale ognuno è un politico, perché deve prendere decisioni relative a come utilizzare abilità e risorse nella propria vita. Tutti siamo politici, non per scelta, ma per necessità. Dobbiamo esserlo perché molte delle funzioni che prima venivano soddisfatte dalla comunità o dallo Stato sono ora ricadute sul piano individuale, cosicché ognuno di noi è tenuto personalmente a trovare delle soluzioni ai problemi della propria vita. In questi termini la sociologia – conversando continuamente con l’esperienza, mostrando la possibilità di altre interpretazioni dell’esperienza, relativizzando ciò che pensiamo e le costruzioni umane, e indicando il meccanismo interno che connette ogni decisione individuale con alcuni scenari sopraindividuali – può offrire un aiuto e arricchire le capacità degli individui per operare in un contesto fluido. Questo è il destino della sociologia, perché una volta che la modernità si è liquefatta, pretendere che ci siano ancora dei progetti di vita o delle strutture stabili su cui basare le proprie azioni diventa una pura illusione. Il destino della sociologia, dunque, è di dissentire rispetto alla sua vecchia pretesa di pedanteria pedagogica; di dissentire rispetto all’illusione di poter insegnare alla masse. È un destino che può essere trasformato in occasione, in una forma di vita consapevolmente scelta e praticata soltanto se si accetta il fatto che oggi il problema centrale è il disperato sforzo di trovare soluzioni a problemi di carattere sociale, sapendo però che queste soluzioni sono divenute individuali. I suoi libri sono caratterizzati da un evidente rigore analitico, ma anche dall’attenzione alla dimensione divulgativa, e non è un caso che, per dare concretezza alle analisi teoriche, lei faccia spesso riferimento a metafore molto convincenti. Per esempio, per descrivere il passaggio dalla modernità solida a quella liquida, ha sostenuto che l’attuale fase della modernità sia quella del “cacciatore”. Quali sono le principali caratteristiche di questa fase, e in che termini si differenzia da quelle precedenti?Molti anni fa ho scritto un libro, “Legislators and Interpreters”, dove suggerivo che prima dell’avvento della modernità l’atteggiamento principale verso il mondo fosse quello del guardiano. Il guardiano non intende cambiare il mondo; piuttosto, convinto che ogni cosa sia il frutto della creazione divina, e che la natura sappia prendersi cura di se stessa nel migliore dei modi, ha il solo compito di prevenire l’intervento criminale dell’uomo, facendo in modo che la natura resti in grado di difendere se stessa. Nella modernità solida, invece, l’atteggiamento dominante è quello del giardiniere, colui che ha in mente un disegno ideale per intervenire sulla realtà e sulla natura. Il fatto che abbia già in mente un disegno prima di operare significa che alcune piante possono diventare erbacce, e vadano quindi eliminate, mentre altre vanno coltivate e cresciute con cura. La differenza fondamentale tra il guardiano e il giardiniere risiede nel fatto che, mentre il giardiniere crede che senza di lui, senza il suo disegno e la sua attività ci sarebbe il caos, e che stabilire l’ordine sia una sua responsabilità, il guardiano ritiene invece che l’ordine sia già nelle cose, e che il suo unico compito sia quello di difenderlo dagli intrusi. Entrambi, però, considerano la realtà e la natura in quanto totalità, come una totalità aggregata di elementi, e in un modo o in un altro sono interessati a inserire e collocare l’individuo in questa totalità data. Tutto ciò è venuto meno, ancora una volta, ed è per questa ragione che ho introdotto la terza disposizione verso il mondo, quella che chiamo del cacciatore, colui che non si cura della totalità, ma esclusivamente dei risultati delle sue battute di caccia. Il cacciatore non si preoccupa del fatto che, se ottiene molto successo durante la caccia, la quantità di prede nella foresta può essere ridotta al punto tale da compromettere in modo pericoloso la stessa possibilità di cacciare in futuro. Non si interessa di queste cose perché, se un particolare terreno di caccia viene reso poco fruttuoso dalle sue battute, semplicemente si sposta su un altro terreno, e poi di nuovo su un altro dove possa trovare delle buone condizioni per la caccia. In questi termini, se il guardiano e il giardiniere sono sensibili nei confronti del legame che corre tra il benessere della totalità e quello dell’individuo, il cacciatore invece rompe il legame tra l’attività individuale e lo stato del mondo. Questo è ciò che accade oggi in economia, un settore in cui, una volta che un determinato luogo non sia più produttivo, si sposta semplicemente il business altrove, trasferendo il capitale con un pulsante per ottenere profitti e risultati immediati. Ma è ciò accade anche nella vita di ognuno. Mi riferisco in particolare, ancora una volta, a Giddens, che ha coniato il concetto di “pure relationships”, quelle relazioni tra esseri umani prive di legami solidi, nelle quali si entra solo per soddisfare un desiderio, soddisfatto il quale viene meno la ragione per mantenere la relazione, che viene rotta, per cercarne un’altra, altrove. Se per esempio riteniamo che la nostra compagna ci abbia dato tutto quello che poteva, e se ci sembra che tutto sia ripetitivo, che non sia più intrigante, eccitante, nuovo, o avventuroso, ma che sia noioso e che non ci soddisfi più come ci aspetteremmo, e, ancora, se al di là del nostro recinto ci sembra che ci sia erba fresca e verde, perché rimanere? Perché non muoversi verso quel giardino? Come risultato dell’atteggiamento del cacciatore, la vita si sgretola in frammenti, si smembra, diventa semplicemente episodica, un insieme di episodi da cui cerchiamo di spremere il più possibile per poi muoverci altrove: un insieme di esperienze e avventure tenute insieme solo dal fatto di essere vissute dalla stessa persona. Potremmo dire che la vita diventa una serie di sempre nuovi inizi, e che – per usare una parola molto di moda negli Stati Uniti – gli individui diventino dei sempre nuovi “born again”, come se potessero eliminare completamente tutto ciò che viene prima e cominciare con un nuovo inizio. Questo è l’atteggiamento del cacciatore, che si manifesta in quello che ho chiamato l’episodicità della vita, una serie sconnessa di situazioni ed eventi, un movimento di avventura in avventura e di esperienza in esperienza, senza che si abbia la minima idea di quel che accadrà l’anno prossimo. Daniel Cohen, l’economista della Sorbona, ha ricordato che cinquanta anni fa, quando gli apprendisti della Ford e della Fiat cominciavano a lavorare erano sicuri che sarebbero rimasti legati a quel lavoro per i successivi quarant’anni, mentre oggi i giovani, quelli ambiziosi, energici e fortunati che si ritrovano nella Silicon Valley per cercare lavoro con i vari Bill Gates – un lavoro che sembra rappresentare uno dei più grandi sogni per i giovani – ebbene questi giovani non hanno idea di quel che accadrà loro l’anno successivo, o persino nei sei mesi successivi. Non è un caso che, secondo un calcolo fatto dal sociologo Richard Sennett, la durata media di un impiego nella Silicon Valley sia di otto mesi. È la prospettiva del cacciatore: sparare, sparare e sparare; poi, finito il gioco, muoversi altrove e ricominciare di nuovo. Secondo la sua analisi, se l’unione di potere e politica caratteristica dello Stato-nazione ha costituito il cuore della modernità solida, nella modernità liquida invece il potere avrebbe “divorziato” dalla politica. Quali trasformazioni hanno determinato questa separazione?Si tratta di un argomento sul quale ho scritto alcune cose. Nel corso della storia moderna, per circa duecento anni al livello degli Stati-nazione c’è stato un matrimonio tra potere e politica, e si riteneva che potere e politica dovessero comunque vivere insieme: l’arte politica come potere di fare cose, un potere dunque regolato, compensato e orientato dalla politica. Quello che sta accadendo ora, in un periodo caratterizzato da una globalizzazione meramente negativa, nel quale ancora non abbiamo dato vita a istituzioni politiche di carattere globale che godano delle stesse prerogative di quelle degli Stati-nazione, è che il potere evapora nel cyberspazio, in uno spazio planetario. Il vero potere, infatti, quello che decide delle nostre opportunità di lavoro e delle nostre chances di vita non si decide certo a Torino o Roma, ma altrove, nello spazio planetario senza controllo. Voglio dire, per esempio, che se ci fosse un improvviso cambiamento negli scambi monetari, o una sorta di assalto contro l’euro, le nostre possibilità di vita cambierebbero improvvisamente. La politica, d’altra parte, può fare molto poco per fermare questo processo. Perché? Perché il potere diventa globale, mentre la politica rimane locale. Da un lato c’è la politica che va a caccia, sparando per prendere il potere, e dall’altra il potere che non è più costretto dalla politica, né da altro. La politica è sempre più privata di potere, e gli Stati-nazione, di conseguenza, possono fare sempre meno rispetto a quel che facevano prima, mentre i governi, avendo meno potere per supportare gli indirizzi politici, devono rinunciare a quel che facevano prima, e non possono neanche impegnarsi responsabilmente con i cittadini per garantir loro le stesse cose che gli assicuravano in passato. Dunque, un numero sempre maggiore di quelle funzioni che una volta erano prerogativa dei governi, con le privatizzazioni e la deregulation sono state spostate altrove, trasferite al mercato, che ovviamente non è un’istituzione politica, ma un attore che si pone al di fuori del controllo della politica. Altre funzioni, invece, sono passate dal piano della politica a quello individuale, tanto che, come ha giustamente sottolineato il sociologo tedesco Ulrich Beck, oggi gli individui devono cercare soluzioni “biografiche” e personali a problemi sistemici, socialmente determinati. Le funzioni politiche, dunque, sono state o trasferite al mercato o abbassate al livello degli individui, e come risultato è avvenuto il divorzio tra potere e politica. A proposito di questo, lei ha scritto in “Modus vivendi” che “il problema e il compito spaventoso che questo secolo si troverà con ogni probabilità a dover affrontare come sfida principale consisterà nel cercare di tornare a coniugare potere e politica”, ma su un livello che sia planetario. Dovremo guardare a quell’universalismo politico di cui lei parla in “Search for Politics”? E con quali strumenti potremo costruirlo?La mia ipotesi è che il matrimonio tra potere e politica non possa più essere pensato e restaurato al livello degli Stati-nazione. È ormai troppo tardi per una cosa del genere. D’altra parte, non so quale forma prenderà questa nuova unione. Se oggi Aristotele, invitato a Roma, vedesse come funziona il parlamento, e gli venisse detto: “Ecco, questa è la democrazia”, rimarrebbe meravigliato, perché per lui democrazia significava l’insieme dei cittadini ateniesi che discutono e prendono decisioni al mercato. Nella trasformazione dalla vecchia polis greca allo Stato-nazione moderno già è avvenuto un cambiamento nella forma della democrazia, ma nonostante questo viviamo ancora in una democrazia, perché il governo è controllato dal popolo ed è rappresentativo del popolo, nella misura in cui tenta di dare voce a ognuno. Voglio dire che i requisiti fondamentali della democrazia sono ancora soddisfatti, ma la forma da essa assunta è molto differente da quella del passato. In questo senso, l’unica cosa di cui sono abbastanza sicuro è che la futura democrazia globale – che non farò in tempo a vedere perché non vivrò abbastanza a lungo – sarà diversa da quella attuale e dal modello parlamentare, perché se tutte le forme di democrazia inventate nei tempi moderni sono state pensate, disegnate e poi aggiustate per lo Stato-nazione, una democrazia di livello globale, che tenga conto di un mondo così variegato – differente in ogni suo aspetto, per modi di pensare, vedere, vivere, credere e sperare – dovrà essere differente dalla forma di democrazia che conosciamo. Ritengo che questa nuova forma di democrazia possa essere ottenuta solo con il metodo dei tentativi e degli sbagli, e che alcuni esperimenti falliranno e altri avranno invece successo. È il metodo che sta adottando il laboratorio politico europeo, visto che il processo di integrazione dell’Unione europea ha avuto basi molto differenti rispetto a quelle che hanno dato luogo ai singoli Stati-nazione. Al tempo della loro edificazione, infatti, gli Stati-nazione sono stati integrati sulla base di postulati relativi all’uniformità, un’uniformità che intendeva garantire per ogni Paese una cultura nazionale, una storia nazionale, una fede nazionale, una lingua nazionale, un calendario e via dicendo, mentre gli stranieri potevano scegliere tra l’essere assimilati, rinunciando alla propria differenza e accettando l’omologazione all’uniformità, oppure andar via. Non c’erano altre soluzioni per loro. Questo è il principio attraverso il quale è stato condotto il processo di edificazione degli Stati-nazione e sono stati concepiti gli orientamenti delle politiche nazionali. L’Unione europea invece non si sta costruendo su questo principio, ma al contrario vuole preservare le differenze, e la cosa singolare è che, nelle attuali condizioni determinate dalla globalizzazione negativa, ogni nazione ha maggiori opportunità di preservare la propria identità se concede parte della sovranità all’Unione europea piuttosto che se combatte isolatamente nel tentativo di preservarla. In quest’ultimo caso, infatti, cadrebbe vittima delle forze del mercato, che la distruggerebbero. Direi che in un certo senso l’Unione europea è unificata e integrata proprio perché difende la varietà e si sta costruendo su un principio contrario a quello che ha permesso lo sviluppo e l’integrazione degli Stati-nazione. È per questo che l’Europa rappresenta un laboratorio importante per comprendere in che modo si potrà ottenere una coesistenza pacifica tra gruppi – etnici, religiosi, linguistici – molto diversi l’uno dall’altro. Quella dell’Unione europea è un’unità ottenuta nonostante e grazie alle differenze, ed è precisamente questa la strategia che serve per costruire istituzioni politiche globali, istituzioni che non possono essere caratterizzate da forme di governo vecchio stile, e che richiedono piuttosto una qualche forma di congregazione, una congregazione che sappia rispettare la diversità, riconoscendo che le persone sono diverse, e che ognuna può compiere scelte diverse determinate da legami con tradizioni diverse. I cambiamenti che hanno investito le tradizionali cartografie politiche e i modi di esercizio del potere sono diversi, e assumono forme molto diverse. Lei ha sostenuto per esempio che, se la metafora del Panopticon poteva essere usata per descrivere il potere moderno, l’attuale fase della modernità potrebbe essere definita sicuramente come “post-panottica”. Cosa intendeva dire?Il Panotpicon ha a che fare innanzitutto con la sorveglianza. Il modello del Panopticon di Jeremy Bentham, usato da Michel Foucault come metafora del potere moderno, rimanda a una strategia di esercizio del potere in cui le persone sono divise tra chi sorveglia e guarda e chi viene sorvegliato e guardato. Tante cose però sono cambiate. Certo, abbiamo ancora a che fare con il controllo e la sorveglianza, e probabilmente oggi siamo sorvegliati e controllati più che in passato: ci sono sistemi televisivi che ci controllano a ogni semaforo, telecamere nelle strade, visori in ogni centro commerciale, apparecchi computerizzati che verificano le nostre possibilità economiche nelle banche, e via dicendo. Tuttavia, la questione fondamentale sta nel fatto che la funzione della sorveglianza è cambiata completamente, ed è per questo che ho parlato di un Big Brother classico e di un Big Brother 2. Se il Big Brother, nella sua versione classica, era pensato per costringere le persone “dentro”, per impedir loro di uscire, e in questo modo il potere se ne assicurava il controllo, il Big Brother 2, invece, non è interessato a trattenere “dentro” le persone, ma serve a tenere fuori la gente sbagliata. Chi non sembra poter essere un vero cliente deve restare fuori dai grandi magazzini, così come chi non è un cliente affidabile non può ottenere una carta di credito, e via dicendo. In questo senso la sorveglianza continua, ma ha a che fare con l’esclusione, non più con l’inclusione. Per restare sul modello-Panopticon, lei ha sottolineato come nella fabbrica fordista tale modello offrisse anche dei benefici, dal momento che capitale e lavoro erano costretti a negoziare regole di cooperazione condivise. Se, seguendo le sua analisi, assumiamo che la fine del “potere-Panopticon” è anche la fine della reciprocità nella relazione tra capitale e lavoro, quale forma assume oggi questa relazione?Nella fabbrica fordista il sistema del Panotpicon era sicuramente disumanizzante, ma il rapporto di dipendenza tra il capitale e i lavoratori era una vera relazione a due: i lavoratori dipendevano da Ford per la loro sopravvivenza, perché altrove non avrebbero trovato lavoro, ma allo stesso modo Ford dipendeva dai suoi lavoratori, perché tutti i suoi guadagni, la sua ricchezza e la sua influenza derivavano dalla fabbrica, e se non fosse riuscito a tenere in fabbrica gli operai non avrebbe generato profitto grazie alla produzione di automobili né ottenuto influenza. Entrambi erano perfettamente consapevoli che avrebbero dovuto convivere per un periodo molto lungo, come accadeva un tempo a coloro che si sposavano in chiesa, consapevoli che sarebbero rimasti legati a lungo. Così, come accadeva nei matrimoni, anche Ford e gli operai erano costretti a trovare un “modus vivendi”, un modo per vivere insieme che soddisfacesse entrambi; erano costretti a negoziare sulle differenze, a trovare compromessi, a rinunciare da un lato a qualcosa e a guadagnare dall’altro; erano portati a trovare un accordo che permettesse una coesistenza relativamente stabile e una vita relativamente soddisfacente per un periodo piuttosto lungo. Certo, si trattava di un modello disumanizzante, perché implicava l’abbandono di molti sogni e desideri, il loro confinamento dentro certi limiti, che andavano accettati e rispettati; ma era un modello che permetteva anche di dare forma alla vita, di ottenere sicurezza riguardo al futuro. Oggi abbiamo ottenuto molta più libertà rispetto alle costrizioni del passato, ma al tempo stesso abbiamo perso molta della sicurezza di cui godevamo. Dietro questo cambiamento c’è il fatto che, se alla base del rapporto di dipendenza tra capitale e lavoratori esisteva un rapporto tra due poli, oggi invece c’è n’è uno solo: i lavoratori sono ancora dipendenti dal capitale, mentre il capitale è libero di andare dove preferisce. Il lavoratore perde il posto e lì finisce la faccenda. Basti guardare a quel che è successo alla Fiat, o ad altri giganti industriali, che si spostano dove le condizioni per fare profitto sono migliori, mentre i lavoratori, lasciati senza mezzi di sussistenza, devono ricominciare una nuova vita dall’inizio. La relazione, ormai, è a senso unico, perché il capitale non è più dipendente dai lavoratori e può muoversi liberamente. Da quello che dice sembra di capire che, anche in questo caso, ci sia di mezzo il rapporto tra libertà e sicurezza, quel rapporto che, partendo dalle analisi di Freud, lei ha avuto modo di investigare in modo approfondito. Ce ne vuole parlare?È un punto su cui torno spesso perché lo ritengo cruciale. Esistono due valori che sono ugualmente indispensabili per una vita umana decente, perché non si può ottenere una vita umana decente senza libertà o, allo stesso modo, senza sicurezza; dunque, affinché possa essere decente, una vita deve contemplare entrambi gli elementi, elementi che però è molto complicato tenere insieme, poiché quando tentiamo di conciliarli otteniamo una volta troppa libertà e poca sicurezza, e un’altra volta l’eccessiva sicurezza confina e soffoca la libertà. Si tratta dunque di un equilibrio che cambia sempre, in un rapporto in cui non c’è nessun progresso, ma che andrebbe visto piuttosto come il movimento di un pendolo, in continua oscillazione. Per esempio, trenta, quaranta anni fa le persone reclamavano maggiori libertà, desideravano meno restrizioni sulla libertà sessuale, più opportunità, la possibilità di scegliere più liberamente la propria identità, e vedevano nella sicurezza una forma di schiavitù, mentre oggi l’orientamento sembra essere molto differente, e la gente è persino disposta a sacrificare la propria libertà pur di avere sicurezza. Le persone sono pronte a sacrificare molte delle proprie libertà individuali, sarebbero d’accordo nel consentire il controllo delle telefonate e l’arresto di un uomo senza alcuna accusa. Diverse generazioni di persone hanno lottato e combattuto contro questa evenienza, e per assicurare la libertà umana, e invece ora la gente si chiede: “E perché no? Se qualcuno è sospettato ma non ci sono prove è meglio metterlo in prigione che lasciarlo libero”. Questo significa che abbiamo raggiunto un punto in cui le domande più urgenti delle persone comuni sono relative alla sicurezza piuttosto che alla libertà. Per riprendere la metafora del pendolo, mi pare che l’attuale situazione, che è estrema, indichi che quel movimento si è pericolosamente arrestato. Il progetto del comunitarismo, che lei ha ampiamente studiato, fonda la propria capacità attrattiva proprio sulla pretesa di poter far risorgere una comunità capace di risolvere immediatamente – e in modo definitivo – i problemi derivati dalla difficile conciliazione tra libertà e sicurezza. Lei, invece, ha spesso sottolineato come tale progetto non faccia altro che esacerbare quella dicotomia tra libertà e sicurezza che pretende di sanare…L’idea di comunità mi fa problema. La comunità è ancora qualcosa che riteniamo positiva, ma diventa sempre più una comunità “à la carte”, come nei ristoranti. La comunità tradizionale era molto potente e solida, e i suoi membri erano soggetti a regole di condotta molto rigide, che andavano accettate in tutti i loro aspetti, come fosse un pacchetto “tutto incluso”, e che, qualora fossero state trasgredite, avrebbero generato seri problemi. Essere un membro della comunità significava essere definito, pre-determinato, e implicava la rinuncia a parte della propria libertà personale. Oggi, invece, sempre più ciò di cui parlano le persone non sono comunità, ma networks, i quali, a differenza della comunità, sono costruiti sulla base di due differenti attività: il connettere e il disconnettere. Il network è caratterizzato proprio da questa facilità di disconnettersi. Ci basta prendere il nostro telefono, e possiamo tanto facilmente aggiungere un nome e un numero alla rubrica – che è il nostro network –, quanto eliminarne uno. Se non vogliamo che mister x faccia parte del nostro network, ci basta interrompere le comunicazioni, non leggere e non inviare messaggi. Il network dunque è un composto liquido, non ha una struttura chiara, definita e continua, non è qualcosa di strutturato che si eredita sin dalla nascita, come la comunità, ma qualcosa che creiamo e di cui siamo i manager: lo creiamo, poi lo ricreiamo ancora una volta, lo cambiamo ancora e ancora. Potremmo dire che, se una volta l’appartenenza veniva prima dell’identità, perché era l’appartenenza a una comunità a determinare l’identità, oggi invece accade il contrario, perché l’identità viene prima dell’appartenenza: prima ci auto-identifichiamo, decidendo che tipo di persona vogliamo essere in questo momento (visto che non possiamo sapere quel che saremo in futuro), e poi, a seconda del tipo di identità che vogliamo ottenere, includiamo nei nostri networks persone che sono rilevanti in relazione a quell’identità, escludendone invece quelle che non lo sono. In questo senso l’appartenenza è l’effetto postumo dell’auto-identificazione. Facendo riferimento ad alcune considerazioni avanzate da Michel Agier nel suo studio sui profughi nell’era della globalizzazione, lei ha sostenuto che i profughi, “l’epitome e l’incarnazione più piena dello spirito da Far West” che anima la globalizzazione, “sono senza Stato, ma senza Stato in un senso nuovo”: sono infatti “hors du nomos”, al di fuori non di questa o quella legge, “ma della legge in quanto tale”. Ritiene che lo spirito da Far West di cui parla rischi di “universalizzare” la condizione di “hors du nomos” riservata per ora ai profughi? Come dicevo prima riferendomi al Big Brother e al Panopticon, il Big Brother 2 e la moderna forma di Panopticon sono orientati verso l’esclusione: alcune persone devono essere escluse, coloro che non sono benvenuti, gli immigrati, quanti vivono per le strade, i cosiddetti sottoproletari: tutti quelli che non soddisfano i requisiti della moderna società dei consumi sono dei marginali che devono essere confinati letteralmente o metaforicamente nei campi. Sia che si tratti di un campo chiuso da sbarre, come quello dei rifugiati, sia che si tratti di un ghetto, un luogo che non ha sbarre, da cui formalmente non è vietato uscire ma nel quale è molto difficile vivere a causa della pressione sociale o economica. Questa reclusione non riguarda però la massa delle persone, ma i marginali, che devono rimanere separati e isolati. La massa, la gente comune, in apparenza è invece completamente responsabile delle proprie azioni e libera, perché nessuno sembra dirle come e cosa fare. Ma anche le persone comuni finiscono con l’essere “imprigionate”, perché devono conformarsi, adottando i comportamenti che regolano la società dei consumi nella quale viviamo. Diversi anni fa Pierre Bourdieu ha sottolineato come, invece delle repressione, della coercizione e del controllo normativo, le società si stessero muovendo verso la seduzione. Si è sedotti dalla e alla conformità, non si è più forzati, trattenuti o costretti. Si tratta di una diversa tecnologia: la seduzione alla conformità. È cambiata la strategia della dominazione, ma la dominazione è ancora lì, perché non siamo mai veramente liberi di parlare e agire liberamente. Ci sembra di esserlo, ma lo siamo solo fintanto che non oltrepassiamo le leggi fondamentali della società in cui viviamo. Per esempio, ci sembra di poter scegliere liberamente la merce che preferiamo, ma il fatto di dover scegliere non è più una questione di libertà, perché dobbiamo scegliere, e in questo senso non siamo veramente liberi. Come succedeva in altre forme di società, dunque, ci sono ancora delle strutture che dominano la vita individuale, e che ci portano ad adottare un comportamento conformista. Come dicevo, sono le strategie di dominazione a essere cambiate: non si tratta più del lavaggio del cervello, di coercizione, della punizione legata alla legge e così via, ma, piuttosto, della creazione di nuove condizioni di incertezza, con le quali dobbiamo fare i conti e che ci rendono permeabili alla seduzione, aperti alle offerte che pretendono di risolvere i nostri problemi. Sfogliando i giornali, guardando la tv, le pubblicità cosa promettono? Di risolvere le nostre difficoltà, di aiutarci a trovare una compagnia nella vita, di diventare belli e desiderabili. Ascoltiamo e finiamo per accettare le offerte. D’altra parte è così facile. Andiamo in un negozio pensando che, comprando un certo prodotto, potremo risolvere i nostri problemi. Dunque, si tratta di seduzione, non più di coercizione, perché non esiste alcun organo di polizia che ci costringa a comprare quel prodotto, dicendoci “Compralo!”. Lo facciamo, invece, in modo responsabile. Non è un caso che lei abbia sottolineato come il più grande pericolo per la società capitalistica sia il “consumatore tradizionale”…È vero. Il consumatore tradizionale è colui che, soddisfatti i propri bisogni, si ferma. Mangia, beve, dorme, si veste, e lì finisce la questione. Ma è in questo finire che sta la tragedia. Infatti, se le persone fossero guidate nel loro “comportamento da shopping” esclusivamente dai propri bisogni, la società dei consumi sarebbe condannata all’estinzione. Ciò che è veramente importante, invece, è che la gente continui a rimanere aperta e permeabile ai desideri, ai desideri momentanei: andiamo in un negozio a comprare un dentifricio, ma lungo la strada vediamo in vetrina qualcosa. “Bellissimo! Non posso non averlo! Devo comprarlo!”, ci diciamo, e finiamo per portarlo a casa. Lì, lo guardiamo di nuovo, e ci chiediamo: “E ora, che dovrei farmene? È stata proprio una stupida idea quella di spendere tanti soldi per questo aggeggio”. La cosa eccitante, infatti, sta nell’ottenere quell’oggetto, non nell’usarlo una volta ottenuto. È proprio in questa direzione che bisogna indirizzare le persone, addestrandole affinché siano aperte a questa momentanea sensazione prodotta dalla seduzione. Questo è il motore della società dei consumi. Proviamo ora ad allontanarci dal campo della pubblicità e della seduzione, per entrare in quello dell’etica e della morale, visto che il suo lavoro non è segnato solo dal rigore scientifico, ma anche da una forte tensione etica. Ci vuole spiegare cosa intende dire, quando scrive, in un’affermazione che evoca lo starec Zosima di dostoevskijana memoria, che “dobbiamo prenderci la responsabilità per la nostra responsabilità”?Quello che voglio dire è che, ci piaccia o no, che lo riconosciamo o meno, che ne traiamo o meno le conseguenze, siamo tutti responsabili per ogni altro essere umano: siamo responsabili perché, trovandoci in un pianeta sovrappopolato, dipendiamo l’uno dall’altro, tanto che, qualunque cosa io ottenga, qualcun altro la perde o rischia di perderla, e ciò che faccio influenza e condiziona le prospettive e le possibilità di vita di altre persone. In questo senso siamo tutti responsabili. Tuttavia, la strada che ci conduce dall’essere responsabili oggettivamente all’essere responsabili soggettivamente è molto lunga, perché assumersi responsabilità per la propria responsabilità è un passo molto complicato e difficile da compire. In genere agiamo così in famiglia, dove calcoliamo gli effetti delle nostre azioni prendendo in considerazione anche l’interesse degli altri, dei fratelli, dei genitori, oppure dei figli, anche se a volte non lo facciamo neanche in famiglia: se vogliamo divorziare da nostra moglie perché è noiosa e non più attraente come prima, finiamo infatti con il dimenticarci l’interesse dei nostri bambini, che ovviamente preferirebbero che i genitori rimanessero insieme. Comunque, in genere, in quel piccolo ambiente che è la famiglia giorno dopo giorno tendiamo ad assumerci responsabilità per la nostra responsabilità; ma cosa succede nei riguardi degli stranieri, di quanti sono lontani da noi, di quelli che non sono “near and dear” e che non sono membri della nostra famiglia? Qui nascono le vere difficoltà. In questi casi, infatti, di solito non ci assumiamo la responsabilità, ma semplicemente la plachiamo, per non dover fare i conti con la nostra coscienza. Ci capita di ascoltare terribili notizie su terremoti, tifoni, tsunami, e via dicendo, e quel che facciamo non è altro che prendere il portamonete, tirarne fuori qualche banconota e inviarla nel luogo del disastro. Questo però è un modo di comprare la nostra responsabilità, non è una vera assunzione di responsabilità. Se volessimo davvero essere responsabili per la nostra responsabilità, infatti, dovremmo assumerci responsabilità delle stesse condizioni di vita di quelle persone. Questo, però, evitiamo di farlo. Un’ultima domanda che riguarda una “lontana attualità”: recentemente un giornale conservatore polacco, “Ozon”, ha scritto che lei da giovane ha fatto parte del contro-spionaggio sovietico, e lei stesso ha alcune delle notizie pubblicate. Vuole aggiungere qualcosa alle cose già dette?Si tratta di una cosa avvenuta più di sessant’anni fa, e non vorrei ripetermi su questioni di cui ho già parlato. Tutti sanno, infatti, che in quel periodo credevo nel comunismo, e per diversi anni ho ritenuto che il comunismo fosse lo strumento più opportuno per far uscire il mio Paese dalle pessime condizioni in cui si trovava. Ho creduto che fosse il programma più realistico per superare povertà e miseria e cominciare a ricostruire la nazione. Quando ho realizzato che il programma comunista, che risultava affascinante perché suonava come libertà, fratellanza e uguaglianza, era diverso dalla pratica, ho lasciato perdere. Questa è tutta la storia.

Giuliano Battiston,Intervista a Zygmunt Baumannultima modifica: 2008-02-23T17:35:32+01:00da mangano1
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