Omaggio ad Anna Maria Ortese

aa2c1170798a5466ed377038db53c968.jpgANNAMARIA ORTESE DIECI ANNI DOPOIstituto Italiano per gli Studi FilosoficiCircolo G. SadoulBiblioteca Comunale AntonianaIschia, 9 marzo 2008Convegno di studia cura di Giorgio Di CostanzoOrrore e poesia del reale nell’ultima visionariarelazioni diLuca ClericiGiorgio Di CostanzoGoffredo FofiFranz HaasPER L’OCCASIONE VIENE QUI RIPUBBLICATO UN PRECEDENTE STUDIO DELLO STESSO FRANZ HAAS ( portato da georgiamada) La cacciata dal Purgatorio: Anna Maria Ortese e Napoli di Franz Haas Napoli non è mai stata il paradiso, né ai tempi di Leopardi, né tantomeno oggi. Per Anna Maria Ortese questa città, dove ha vissuto per venti importanti anni, è stata però un felice purgatorio. Ha lasciato Napoli per sua decisione, costretta dalla miseria e dalla curiosità per il mondo, ma quando non poteva più ritornarvi, si struggeva come per un paradiso perduto, paradiso difettoso e sfigurato, ma pur sempre il più bel posto della terra. È diventata straniera nella sua città nel 1953, non ancora quarantenne, a causa del brillante libro Il mare non bagna Napoli. Le sue descrizioni allucinate di Napoli e il suo sguardo dall’amorosa ferocia, hanno offeso troppi amici e rotto troppi ponti. Per il resto della sua lunga vita le rimarrà il rimorso per questa perdita. Anna Maria Ortese si ricostruirà la sua Napoli nei due migliori romanzi, Il porto di Toledo e Il cardillo addolorato e si lamenterà in moltissime lettere (numerose scritte anche a me) del suo infelice esilio, lontana dalla sua città.pprodo a NapoliAnna Maria Ortese nasce nel 1914 per caso a Roma dove il padre ha un modesto impiego. Povera, penultima di sette figli, trascorre buona parte della sua infanzia in Libia, approda a Napoli nel ’28, in uno dei vicoli vicino al porto, lascia la scuola a 14 anni e si arrangia con umili lavori. Autodidatta, impara a scrivere un italiano di inaudita bellezza: il diario della ragazzina, pubblicato di recente, mostra già i tratti di una precoce genialità (1). A 19 anni pubblica i suoi primi testi in riviste importanti, racconti di lumi solitari e di alberi nella neve, che piangono come uomini stanchi, appoggiati ad un muro. La raccolta Angelici dolori esce nel 1937 dal prestigioso editore Bompiani, ammirata e sostenuta da illustri autori e critici. Ma presto la rapida carriera si inceppa. Durante la guerra la casa degli Ortese è distrutta, la fuga da Napoli e dalla miseria diventa una componente fissa della sua vita. Stenta a sopravvivere con scritti di viaggio malpagati, sempre in treni di terza classe tra Napoli e tutta la penisola. Nel 1948 si trasferisce a Milano, ma non finisce la vita da nomade; consumata dalla nostalgia torna spesso a Napoli. Solo nel 1953 esce di nuovo un suo libro di successo: Il mare non bagna Napoli, la sua visionaria dichiarazione d’amore e di guerra.Questo fatale libro è un ibrido fra narrativa pura e graffiante reportage sociologico, descrizione dolente della città uscita a pezzi dalla guerra. Comincia con il racconto “Un paio di occhiali”, storia della povera bambina Eugenia che è quasi «cecata». Una vicina di casa le dice: «Iddio ti ha voluto prediligere, perché così non avrai occasioni di male(2) Ma quando la ragazzina, con i nuovi occhiali, vede la bruttezza del mondo, le viene letteralmente da vomitare. Il racconto “Interno familiare” invece descrive le palpitazioni dell’anima di una ragazza invecchiata che spera ancora di sposarsi. Il terzo testo, “Oro a Forcella”, parla della folla e delle follie sulle strade e nei vicoli della miseria, là dove «il mare non bagnava Napoli (3). Segue, con crescente sdegno dell’io narrante, “La città involontaria”, descrizione minuziosa dei famigerati Granili, un casermone-rifugio per migliaia di senzatetto, autentico orrore e macchia sulla coscienza della borghesia napoletana del dopoguerra.Napoli, il silenzio della ragioneIl culmine del libro arriva però alla fine, con “Il silenzio della ragione”, il folgorante e mordace ritratto di un gruppo di intellettuali, amici della Ortese: Luigi Compagnone, Domenico Rea, Raffaele La Capria, Pasquale Prunas ed altri. Nella finzione del testo, la narratrice visita la città per scrivere un reportage dal titolo “Che cosa fanno i giovani scrittori di Napoli”. L’autrice si insinua nelle piaghe mentali della “napolitanità” e degli amici impigriti che scrivono brutte poesie e discettano sulla rivalutazione del dialetto locale, mentre la ragione dorme il sonno degli ingiusti. L’acume scioccante di queste pagine sarà rinfacciato alla Ortese per tutta la vita, non solo dagli ex-amici: lo scrittore Erri De Luca, che aveva tre anni quando nacque quel libro, che smercia la sua origine napoletana in salse agrodolci d’ogni genere, stronca nel 1994 la nuova edizione de Il mare non bagna Napoli, in un articolo dall’ottusità disarmante (4).La tarda campagna contro questo libro e contro la sua autrice ottantenne è di una cattiveria gratuita, parte nel maggio del ‘94 da Napoli ma rimbalza su «La Repubblica» che crede di fare un gioco di parole spiritoso con lo strillo Ortese spacca Napoli (5), e il «Corriere della Sera» titola, tra l’altro, La Ortese spiò nelle nostre case (6) Qualche giorno dopo questi attacchi Anna Maria Ortese, colpita e sconsolata, mi scrive in una lettera:«Caro Haas, La prego, non mi rimproveri per il mio silenzio. Ci sono giorni che soffro molto. Solitudine, e nessun progetto. […] Se non ho ancora risposto, è perché sono davvero triste, mi sento una profuga.» (7)Quaranta anni dopo la sua fuga (o cacciata) da Napoli si sente ancora una profuga. Certo, anche la Ortese non è mai tenera, né con Napoli né con gli amici. Li descrive (su insistenza di Elio Vittorini) con tanto di vero nome, cognome e indirizzo. Anche nei rapporti diretti è di una sincerità imbarazzante. Da Milano scrive a Pasquale Prunas, il fondatore della rivista «Sud», pochi mesi prima dell’uscita del libro devastante:«La tua amicizia è uno dei tanti fatti che io ho sognato, e, sopra, non è possibile edificarvi nulla – perché sarà un’amicizia splendida, ma, come il Vesuvio, brontola solo dentro le mura di Napoli. Fuori, non sa muovere un passo, ha i piedi del folclore.» (8).A Milano e Roma: una povera IguanaA Milano Anna Maria Ortese si costruisce subito una fitta rete di amicizie, scrive come un vulcano per i più importanti organi degli anni ’50, ma non crea “la grande opera” sognata. Nel 1958 esce, quasi inosservata, la raccolta Silenzio a Milano. Subito dopo, a causa di un amore milanese naufragato, fugge a Roma, dove comincia una delle fasi più disperate della sua vita, dove cova il suo primo grande romanzo, L’Iguana e dove vive «anni di autentica miseria». Trenta anni dopo mi scrive su questa vita romana: «Avevo con mia sorella una casa grande quanto una scatola di fiammiferi», con vista su un pollaio che le ispira certe scene del romanzo. «Ero una iguana anche io.» (9). Dopo anni di tenaci limature e lotte con l’editore, L’Iguana esce nel 1965, una stupenda, ironica favola romantica sull’amore di un candido conte lombardo per una iguana. La critica ignora completamente quest’opera troppo raffinata per l’epoca. Sarà scoperta venti anni dopo.Messa alle strette dall’insuccesso e dalla povertà, scrive, contro la propria coscienza estetica, il romanzo Poveri e semplici, la storia (piuttosto semplice) di poveri amanti scrittori, il suo libro più debole, per il quale riceve nel 1967 il più importante premio letterario d’Italia, il Premio Strega. Si pente amaramente di questo “passo falso” e si ritira per anni in un isolamento spettrale nella periferia di Roma, lontana dalla mondanità modaiola intorno a Moravia (ma apprezzata da Pasolini). Esule in un misero angolo della capitale, evoca la sua Napoli perduta e scrive uno dei più grandi romanzi italiani del suo secolo, Il porto di Toledo, la storia enigmatica delle pene d’anima di una giovane letterata napoletana ai tempi del fascismo. L’enigma più grande a proposito di questa complicatissima opera resta però la cecità della critica letteraria dell’epoca. Esce nel 1975, sprofonda nel più clamoroso silenzio e rimane la ferita più dolorosa, un’«esperienza letteraria umiliante» (10), come mi scrive Anna Maria Ortese tanti anni dopo.In liguria pensando a ToledoQuesta sconfitta incrina però soltanto l’aspetto esterno: la signora appena sessantenne d’ora in poi dimostra una fragile vecchiaia, ma la sua vitalità letteraria non è affatto esaurita. Fugge ancora, insieme alla sorella, questa volta a Rapallo sulla costa ligure, prima in un alloggio modesto e triste, poi in una casa assolata, piena di rumore di motorini e di orologi a cucù. Ci vogliono anni, prima che si riprenderà dalla “sconfitta di Toledo”, anni che la Ortese sfrutta per promuovere nuove edizioni di vecchie opere, come quella dell’Iguana del 1978 o dell’edizione tascabile de Il mare non bagna Napoli (che per me sarà la guida turistica spirituale ancora prima di mettere piede in città). La svolta decisiva viene nel 1986 con l’edizione Adelphi dell’Iguana, con tutta la grancassa della critica (e così finalmente scopro anch’io “la Ortese”). La signora però non si limita a farsi rivalutare con perle rispolverate; nonostante l’età avanzata ha ancora uno strabiliante nuovo asso nella manica. Quarant’anni dopo lo screzio con i napoletani, la Ortese è tuttora afflitta dal rimpianto, rovista nella memoria, fra fotografie e carte di Napoli, e lavora al suo secondo romanzo napoletano, Il cardillo addolorato, un libro «leggero e inconsistente quanto una ragnatela che voli nel vento» (11) la straziante storia di una donna napoletana tra l’illuminismo e il romanticismo.Devo la mia amicizia con Anna Maria Ortese proprio a questo lavoro: una sera (insegnavo all’”Orientale” da più di tre anni e dividevo la casa con Andreas Müller) viene a cena Fabrizia Ramondino e ci racconta che alla Ortese servirebbero, per la stesura di un romanzo, delle fotografie di una zona di Napoli, certo “Pallonetto di Santa Lucia”. Mi assumo subito il compito di farle, scrivo una lettera alla «gentile signora», propongo di portarle di persona le fotografie, esprimo anche la mia ammirazione, scrivo, spavaldo e forte di una sana ignoranza, che per me Il porto di Toledo è «il romanzo italiano più importante, o in ogni caso: più bello del dopoguerra (12). Mi arrampico sui vicoli richiesti, scatto le foto con la mia piccola Contax e aspetto con ansia la risposta da Rapallo. Presto arriva una lettera gentilissima in cui l’autrice mi spiega il concetto del nuovo romanzo per il quale le servono le fotografie, perché non ricorda bene certe strade, dove si svolge una parte della vita della sua protagonista, Elmina: «C’è una Napoli di memoria, del tempo borbonico, e ci sono luoghi che probabilmente non esistono più. Quando verrà, parleremo anche di questo, se Lei vorrà.» (13).(Eccome! Sarei andato anche a piedi da Napoli a Rapallo!) Luca Clerici, l’autorevole biografo di Anna Maria Ortese, descrive così il mio primo incontro con l’autrice: «Quando Franz Haas la va a trovare nel maggio del ’90, non solo Anna Maria gli offre l’albergo ma lo invita anche a colazione a casa sua. Un fatto assolutamente eccezionale. Sedute in cucina, le fotografie posate sul tavolo, ognuna accompagnata da una didascalia, le due sorelle ascoltano commosse le parole di quello che Anna Maria chiama “il mio ambasciatore a Napoli”.» (14).È questo, infatti, il titolo che Anna Maria Ortese scherzando mi conferisce: il suo “ambasciatore a Napoli”, la città dalla quale si sente estromessa, luogo impossibile ormai per lei. Scrive ancora il biografo Clerici: «quelle “34 foto azzurrine” hanno esercitato una forte suggestione sulla Ortese: incorniciate, ne avrebbe esposte diverse in casa, bene in vista.» (15) E una settimana dopo la mia visita, la signora Ortese mi scrive:«Le fotografie mi hanno dato una grande emozione. Non mi stancavo, e non mi stanco di guardarle. Lei ha visto Napoli come l’ho vista io – ed è stupefacente che sia più profonda, più “ignota”, più misera e anche più dolce della città che ricordavo. Il Pallonetto – dalle Sue foto – è grande come una regione. E tutte quelle scalette che non portano in nessun luogo – […]. Tutto (o quasi) ho ricordato, e ricorderò ancora […]. Strano dolore mi viene da N.[apoli], quando la ricordo. Perché curiosamente il mio occhio interno – che è memoria – non dimentica mai tante ferite – uno strazio (gratuito) dissimulato o mistificato da una voce o un colore di allegria e gioia. E quella serie interminabile di ferite, di offese, di piccole o grandi infamie – che svaporano di continuo nel canto o nel riso (ingiusto) di gioia – questo per me è Napoli» (16).Qualche mese dopo (nel frattempo le avevo mandato altre foto scattate nelle strade di Napoli) ritorna ancora sull’argomento:«[…] le Sue foto di Napoli mi portano sempre qualcosa della mia vita passata. A volte, guardando certe strade (quelle con le case altissime), provo uno smarrimento, e mi dico: “di qui, sono passata anch’io”. Feroce e cara Napoli. Non la dimentico mai, nel mio cuore, e penso che davvero questa città è un aspetto della condizione misteriosa del mondo.» (17)Ancora Napoli: un Cardillo addoloratoAnche nelle nostre conversazioni Anna Maria Ortese si sofferma volentieri su Napoli, e mi parla con grande fremito del Cardillo, la sua creatura napoletana. Scrive il suo biografo: «Da questo momento, la corsa alla conclusione del Cardillo è documentata dal carteggio con Haas» (18) Diversi mesi dopo il nostro primo incontro, preoccupata mi scrive: «Vado molto piano con il mio lavoro. Mi sembra di trascinare una montagna. Ma spero di farci l’abitudine, e di andare più svelta» (19). Il romanzo, infatti, procede molto lentamente. Tutti gli anni 1991-92 la Ortese è ancora ai lavori forzati, nei vicoli di Napoli, con il Cardillo. Infine mi scrive sollevata:«Ho terminato il mio lavoro, ed è stato approvato. Ma è stato duro. Dopo 5 anni di lavoro. Si resta come pupazzi di neve. – Ho una tristezza così grande! A chi dirla? E Fabrizia Ramondino è tornata a Napoli? Le invidio un po’ Napoli, perché cura tanti guai.» (20)Nelle lettere i riferimenti a Napoli e i «saluti a Fabrizia Ramondino» sono molto frequenti, come in quella del gennaio ’93 che annuncia con sollievo: «La Adelphi mi ha telefonato. Riceverò le bozze fra giorni. […] Il libro potrebbe uscire in aprile maggio.» (21)Questa volta non è un’illusione. Il cardillo addolorato, il più cospicuo successo editoriale della Ortese, esce a maggio del ’93. All’autrice rimane però l’antica angoscia causata dai suoi naufragi napoletani. A metà maggio mi scrive: «Il libro è pronto (gliene ho mandato una copia) e dovrebbe essere in vetrina fra pochi giorni. Ma mi aspetto la stessa accoglienza che ebbe “Toledo”. Sparirà subito. Vedrà.» (22) Questa è pura scaramanzia, perché già si stanno muovendo i tamburi della stampa, è in arrivo una valanga di recensioni favorevoli. Ma la Ortese non ne è molto contenta, in particolare si lamenta di un articolo superficiale di Stefano Malatesta su «La Repubblica» con un disegno di Pericoli, «una caricatura» sospetta lei.Io, purtroppo, sono un lettore lento, e solo dopo quasi un mese le scrivo poche righe piene di entusiasmo. Lei mi risponde subito: «Non credevo che il Cardillo potesse essere di Suo gusto. […] Ma sono contenta se il suo giudizio è buono. Era solo un nome – il Suo – quello che temevo.» (23). Questa è perlomeno una sfacciata gentilezza (dovuta al fatto che ero pur sempre “il suo ambasciatore a Napoli”, anche se ormai avevo lasciato la città), un lusinga che dimostra però il viscerale legame della Ortese al mondo napoletano. Le mie recensioni, prima in italiano poi in tedesco, escono, non per colpa mia, solo mesi dopo (24), e la Ortese mi copre di gratitudine, anche perché in questi articoli faccio, tra l’altro, ancora una volta un appassionato elogio del suo libro più caro e bistrattato, Il porto di Toledo. Ormai il suo unico vero desiderio rimane la riabilitazione di questa creatura infelice.Ancora la ferita “Toledo”È vero, come scrive Clerici nella biografia, che io ho conquistato la fiducia della Ortese perché l’ho subito assalita con un complimento incondizionato per Il porto di Toledo. Non è vero invece, come sostiene il biografo, che la signora (che aveva quarant’anni più di me) si sarebbe «invaghita» di me perché ero «proprio un bel ragazzo» (25): falso anche perché una importante parte della corrispondenza è stata scritta prima del nostro incontro personale. Napoli e Toledo sono sempre nel cuore della Ortese, come la gratitudine insieme ad un certo timore:«La Sua comprensione di Toledo, la Sua amicizia per questo libro, sono un dono grandissimo. Ricevendolo, sono muta. Lo merito davvero? […] (Mentre Le scrivo, ho timore che si penta […]. Ma spero proprio che non si penta!)» (26)No, non mi sono pentito, ritengo Il porto di Toledo tuttora il più bel romanzo italiano del secondo Novecento (Nota a piè di pagina: La cognizione del dolore di Gadda è stata scritta prima della guerra).Nell’estate del 1993, insieme a mia moglie, faccio un’altra visita ad Anna Maria Ortese. Orgogliosa, mi regala una copia della traduzione spagnola del Porto di Toledo. Ancora una volta mi parla molto di Napoli, è “sollevata” perché la mia compagna “ha un aspetto così familiare, quasi napoletano” (mia moglie Maddalena è nata a Milano), dice: “Temevo che fosse di tipo americano”. Il suo lavoro successivo è proprio un “libro americano”, Alonso e i visionari, forse il suo romanzo più sfortunato, che però è soltanto una parentesi durante l’affannosa rincorsa per il rilancio del Porto di Toledo, l’opera più cara, più napoletana, più ortesiana.A dicembre del ’93 mi esprime la sua soddisfazione per il successo economico del Cardillo, ma pensa già al futuro, alla rinascita di Toledo, il suo libro ingiustamente affondato: «Devo dare all’Editore qualche altra cosa. […] In primavera pubblicherà Il mare non bagna Napoli – che a me non va più – e a fine ’94, forse, Toledo.» (27) Come ho già accennato prima, la ristampa de Il mare non bagna Napoli, presso l’autorevole Adephi, rimesta molti antichi rancori e dà poca soddisfazione all’autrice. Anche il lavoro di rifinitura di Alonso e i visionari, nell’85, non la entusiasma molto. Lo stesso vale per Corpo celeste, libro lanciato dall’Adelphi sulla lunga onda della popolarità del Cardillo, raccolta di testi del ‘97 che contiene “Dove il tempo è un altro”, un importante scritto autobiografico (la Ortese me l’aveva affidato anni prima e l’avevo fatto pubblicare sulla rivista «MicroMega»).(28) Anna Maria Ortese però, con il pensiero, è già altrove.“Toledo” nel porto di AdelphiLa revisione del romanzo Il porto di Toledo inizia nell’estate del ’97. Qualche mese dopo si congratula con me per il mio trasferimento all’università di Milano (anche se, è sottinteso, questa città non vale Napoli) e mi scrive:«Sto correggendo le bozze di Toledo. Era stabilito che uscisse in febbraio (Adelphi) – ma sono in grande ritardo, non credo ce la farò a mantenere l’impegno. La salute non è buona per niente. E Milano mi fa (adesso) paura. […] Anche la fiducia nel mondo, non sostiene più. (Ecco perché la Sua lettera mi ha aiutata!) […] E così, Toledo, se esce, è perché solo Lei, Franz Haas, mi ha detto una volta che era un buon libro. Nessun altro, o non così.» (29).Esagerazione lusinghiera anche questa, ma rivela la sostanza, che Anna Maria Ortese ormai ha solo un desiderio: vedere quel libro nel porto rassicurante di Adelphi. Gli ultimi mesi della sua vita sono una corsa contro il tempo. Il 14 gennaio del ’98 mi scrive:«Sono a Milano da un paio di giorni, per rivedere (in una quindicina di giorni) “TOLEDO”, che dovrebbe uscire a fine febbraio. Ma tutto è ancora incerto.» (30)Il 30 gennaio le forze sembrano esaurirsi, ma la volontà è più forte. La Ortese è «senza voce quasi sempre (per i mali di stagione) e tuttavia sommersa dal lavoro di rilettura di Toledo. Questa è la sola cosa che mi aiuta. Ma non sono sfinita, e ne avrò fino al 12 febbraio.» Mira solo alla «consegna in tipografia», teme però contrattempi, che «la pubblicazione potrebbe slittare a marzo se non in ottobre. Per me, questa pubblicazione, ora, è vitale. Vivo per questo.» (31) Per questo, un nostro incontro a Milano viene rimandato di qualche settimana (e non si farà più). Nella stessa lettera (l’ultima) mi fa ancora gli auguri per la mia nuova vita milanese: «Spero tutto bene, anche se il cuore è a Napoli, con ragione.» (32)Lo sforzo immane non è vano. Anna Maria Ortese muore a Rapallo la sera del 9 marzo 1998, dopo la «consegna in tipografia». Solo quando sa al sicuro la sua grandiosa e misconosciuta creatura del cuore, si lascia cadere, in un porto, nel suo mare. Solo adesso il mare bagna Toledo. (33)Napoli ed altro: Ingeborg BachmannDi Napoli e di Toledo la Ortese parla sempre con timoroso entusiasmo, ma volentieri affronta anche altri argomenti. Vuole conoscere le mie letture preferite. Le parlo di Carlo Emilio Gadda, di cui lei ha solo un vago ricordo perché hanno vinto insieme il Premio Viareggio nel lontano ’53. Subito dopo mi scrive, ringraziandomi per lo scambio di idee:«In ogni caso sarà per me un vantaggio, perché Lei sa tante cose per me preziose – di Napoli e della letteratura di questo secolo. Per esempio, ho cercato subito La cognizione del dolore, e ho cominciato a leggerlo stanotte, sbalordita da tanta grandezza, e mortificata di non averne saputo del tutto – o quasi – nulla, finché Lei non me ne ha parlato.» 34Una reazione simile, persino di maggiore entusiasmo, suscita un mio suggerimento su Ingeborg Bachmann (e così, in conclusione, mi avvicino all’argomento principale di questo convegno) – la Ortese non conosce affatto l’autrice austriaca. Le spiego che la Bachmann ha passato molti anni in Italia, che era approdata ad Ischia e a Napoli proprio quando lei, la Ortese, aveva lasciato per sempre la sua città, che a Roma, per molti anni, avrebbero potuto incontrarsi. In varie lettere la Ortese affronta gli scritti della collega austriaca, palesemente emozionata:«Ho letto, con grande commozione, “Canti durante la fuga”, di Ingeborg Bachmann. Vorrei leggerne altre poesie. Dove? Chi le ha pubblicate? La neve del cuore rivela una Napoli ignota. Poesia, sì, da brivido: ma assolutamente alto.» 35Nella mia lettera di risposta do le indicazioni bibliografiche, e qualche giorno dopo, ecco la sua ammirazione senza riserva:«Della Bachmann ho letto, inviati dalla Adelphi, tutti e quattro (credo che siano quattro) i volumi di narrativa. Tutti i racconti sono di altissima qualità, le cose più alte scritte da una donna, in Europa. Non ci sono confronti con altre scrittrici, nel mondo. Come prosa, no. Nessuna donna scrive in un modo così vertiginoso, attento, limpido: e c’è un dolore quasi soprannaturale; il dolore moderno. Non c’è un suono, poi, che non sia puro. Non ci sono tracce di terra. Quando l’ho letta, ho sentito tutti i miei limiti. Ma senza umiliazione. (Di tutti i miei libri, Lei lo sa, ne considero uno solo. Un solo libro ho scritto, e il resto è così così.)» (36)«Un solo libro ho scritto» (leggetelo, spero che non vi pentirete), è questa la sintesi drastica di una lunga vita, di settanta anni di incessante scrittura: ancora una volta Anna Maria Ortese scrive, nero su bianco, con la sua sgangherata “Olivetti Lettera 32”, che considera intimamente suo soltanto un romanzo, Il Porto di Toledo, il frutto del suo triste amore per Napoli.note[1] Anna Maria Ortese, Romanzi. Volume I. A cura di Monica Farnetti. Milano, Adelphi, 2002, pp. 1088- 1132.[2] Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli. Milano, Adelphi, 1994, p. 31.[3] Ivi, p. 67.[4] Erri De Luca, Cara Ortese, questa non è Napoli. In: «Corriere della Sera», 21 maggio 1994, p. 30.[5] Nello Ajello, Ortese spacca Napoli. In: «La Repubblica», 15 maggio 1994, p. 31.[6] Matteo Collura, La Ortese spiò nelle nostre case. In: «Corriere della Sera», 22 maggio 1994, p. 17.[7] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 26 maggio 1994.[8] Anna Maria Ortese, Alla luce del Sud. Lettere a Pasquale Prunas. A cura di Renata Prunas e Giuseppe Di Costanzo. Milano, Archinto, 2006, p. 129.[9] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 12 giugno 1990.[10] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 21 marzo 1990.[11] Ibidem.[12] Lettera di Franz Haas a Anna Maria Ortese, 13 marzo 1990.[13] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 21 marzo 1990.[14] Luca Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese. Milano, Mondadori 2002, p. 590.[15] Ivi, p. 589. Fatto confermato da Titti Marrone, Ricordo di una zingara infelice. In: «Il Mattino», 5 marzo 1999, p. 15.[16] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 31 marzo 1990.[17] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 12 giugno 1990.[18] Luca Clerici, Apparizione e visione, op. cit., p. 590.[19] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 5 febbraio 1991.[20] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 12 dicembre 1992.[21] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 16 gennaio 1993.[22] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 12 maggio 1993.[23] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 15 giugno 93.[24] Cfr. Franz Haas, Anna Maria Ortese: Il cardillo addolorato. In: „Belfagor“, IL, 1, (Firenze 1994), pp.111-115, e Franz Haas, Zur Verteidigung der Vergeblichkeit. Anna Maria Ortese und ihr Roman “Il cardillo addolorato”. In: „Neue Zürcher Zeitung“, 27./28.2.1994, inserto ‚Literatur und Kunst‘, p.65.[25] Luca Clerici, Apparizione e visione, op. cit., p. 588.[26] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 31 marzo 1990.[27] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 15 dicembre 1993.[28] Anna Maria Ortese, Dove il tempo è un altro. In: «MicroMega», n. 5, 1990, pp. 129-147.[29] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 16 dicembre 1997.[30] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 14 gennaio 1998.[31] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 30 gennaio 1998.[32] Ibidem.[33] Cfr. il mio necorologio: Franz Haas, Toledo liegt nun doch am Meer. Zum Tod von Anna Maria Ortese. In: „Neue Zürcher Zeitung“, 12.3.1998, Internationale Ausgabe, p.33.[34] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 23 maggio 1990.[35] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 3 luglio 1990.[36] Lettera di Anna Maria Ortese a Franz Haas, 10 agosto 1990.

Omaggio ad Anna Maria Orteseultima modifica: 2008-02-23T18:03:31+01:00da mangano1
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