Maurilio Riva,L’antifascismo militante: Sergio Ramelli

01e9e504985265daacf3f28be55ec44c.jpegun capitolo di “Partita Doppia”, un libro di uscita imminente Rimembrò coloro che l’avevano preceduto. Spezzati nel fiore degli anni. La Spagna. La Resistenza. I morti epici. Gli anni di Scelba e di Tambroni. L’Ardizzone. I morti di Reggio Emilia. I morti sociali. Gli anni ’70. Le bombe fasciste. Franceschi. Antonio Marino. Varalli, Zibecchi. Ramelli. (Sì, Ramelli!). E Brasili. I morti senza senso. Lunghi pastrani di tela spessa e scura, funzionali a celare ingombranti armi improprie. Berretti di lana che in un baleno si trasformano in passamontagna che del viso lasciano scoperta la feritoia per gli occhi. Pesanti anfibi ai piedi. Era, questa, la tenuta tipica dei servizi d’ordine di ogni organizzazione, come da regolamento. A cui si aggiungeva a volte un tascapane di tipo militare, idoneo negli scontri con la polizia, per occultare un certo numero di bottiglie. A volte, un fazzoletto al collo. Per tirarselo su al momento opportuno a coprire il viso per non respirare il fumo asfissiante dei candelotti lacrimogeni. Spesso un paio di guanti alle mani.Primo pomeriggio. Un gruppo bardato di tutto punto attende defilato. Nella piccola via non c’è movimento, i negozi sono chiusi per la pausa pomeridiana. Chiacchierano tra di loro, in circolo, cercando di non dare nell’occhio.S’irrigidiscono di colpo al sopraggiungere di una motoretta guidata da un ragazzo dai capelli lunghi. Rallenta l’andatura essendo ormai arrivato, sale sul marciapiede e si avvicina con il proprio mezzo al palo di un cartello segnaletico con l’intenzione di incatenarglielo attorno. Non sospetta nulla e si muove senza fretta.Dal gruppo in sosta se ne staccano un paio che, calando sul viso il passamontagna, si incamminano verso di lui. Prima a passi rapidi, infine di corsa. Gli sono addosso, le spranghe in mano. Le spranghe in azione. Dall’alto in basso, più volte, sulla testa, sul corpo del ragazzo che grida e cade. È per terra ma i colpi continuano. Gli aggressori fuggono lasciandolo in fin di vita. Una brutta storia. Una storia tremenda. Un ragazzo di 19 anni, fascista militante, atteso sotto casa da una squadra di 4 o 5 ragazzi di fede politica opposta – ognuno con una spranga in mano e il volto coperto – aggredito alle spalle e steso senza tentennamenti. Un bell’esempio da manuale di Autodifesa militante.Sergio morirà, dopo aver combattuto invano la battaglia decisiva in un letto d’ospedale, 47 giorni dopo.In una via secondaria nel cuore di un quartiere popolare, sopra un muro di cinta anonimo in mezzo a due palazzi incolori c’è, sotto una corona di fiori, una piccola lapide: A Sergio Ramelli 8/7/56 29/4/75 caduto per l’Italia i tuoi camerati F.d.G. M.S.I.-D.N. Ognuno celebrava i propri morti, Remo ci avrebbe scommesso, per un episodio la cui crudeltà non ci sarebbe voluto che poco a riconoscere.Remo si era chiesto come mai la lapide non fosse stata apposta dall’amministrazione comunale o dal Comitato permanente per la difesa antifascista dell’ordine repubblicano che, non c’era dubbio, l’aggressione avevano condannato. Un’altra occasione non colta per affermare una coerenza di stile e offrire un raffreddante contributo per animi roventi. Sulle pareti maestre dei palazzi, nelle vie adiacenti dell’Ortica, resistono caparbi i manifesti che ogni anno i suoi camerati nella data della morte affiggono a perenne memoria. Ormai da più anni di quanti ne avesse Sergio quel giorno. E lì avrò un po’ di pace,perché la pace arrivascendendo lentamente,scendendo dai velidel mattino,fino a dove il grillo canta,là la mezzanotte è tuttaun luccichio,e il mezzogiornoun bagliore di porpora,e la sera è densa delle alidel passero. (William Butler Yeats) Nelle medesime strade, sui muri delle case popolari – all’altezza dei numeri civici – perdurano lapidi di marmo cinquantenarie, a testimonianza di lutti, di ignominie e di esecuzioni di segno opposto. A occhi immemori vorrebbero rammentare i caduti anonimi – eroi e martiri senza volerlo – di irrinunciabili battaglie di libertà. Visibile o meno, accanto alla lapide originaria in ricordo di Sergio ce n’era un’altra implicita – e ideale, se le cose del mondo non girassero alla rovescia – su cui stava scritto a chiare lettere: Morto per manodell’“antifascismo” ottuso,uccisodall’idiozia umana C’era gente, in quegli anni, che l’“Hazet 36”(38) andava a comperarsela nei negozi specializzati di Ferramenta e Utensileria. Mostrandola agli amici come un vanto e ricevendone spesso il plauso. Non ci si scandalizzava per nulla al suo cospetto né allo scopo. Sembrava normale che negli scontri di piazza – in quelli alla pari, non negli agguati proditorii – la testa massiccia e stondata dell’arnese potesse andare a impattare contro il cranio di un uomo, quantunque di opposto colore. Contro le sue ossa. Sembrava abituale e legittimo.Lontani e superati i tempi delle aste di bandiera, aduse all’occorrenza come strumento di difesa, c’era chi s’inventava nuovi corpi contundenti come il ferro da stiro della nonna riesumato per stirare i capelli dei nemici politici. Chi invece adoperava nei corpo a corpo gli uncini in uso ai portuali di ogni paese. Se tragico poteva risultare l’improprio ricorso da parte dei camalli, gli imitatori trasformavano la tragedia in autentica farsa. Non per chi cadeva, è ovvio, sotto quei colpi.Il mercato si assuefaceva con rapidità all’andazzo dei tempi: un caratteristico portachiavi, raffigurante una “Hazet 36” in miniatura, venne progettato, messo in produzione e commercializzato. Neanche un mese dopo la fine sciagurata di Ramelli, una ragazza e un ragazzo passeggiano mano nella mano in una via del centro. Sono giovani e felici. Vestono alla moda dei coetanei. Nelle vicinanze c’è la sede del partito fascista e le scorribande degli attivisti di destra erano frequenti in zona. I due vengono additati e inseguiti da un manipolo di teppisti, armati di spranghe e catene, sbucato da una viuzza laterale. Raggiunti e aggrediti. La loro attenzione si concentra sul ragazzo: lo riempiono di botte fin quando nelle mani degli aggressori fanno capolino dei coltelli con cui lo feriscono più volte colpendolo alla schiena.Alberto Brasili si accascia al suolo mentre gli squadristi si dileguano. Non arriverà vivo al Pronto Soccorso. Aveva pure lui 19 anni e l’unica colpa di portare i capelli lunghi e indossare un eskimo verde. La ragazza se la caverà con alcune ferite da taglio per fortuna guaribili.Sul luogo, sopra il basso muro esterno di un habitat residenziale, è affissa una lapide tanto bene mimetizzata che un occhio disattento faticherebbe a individuarla: come se si scusasse del disturbo arrecato nel voler catturare l’occhio frettoloso dei passanti.Le scritte incise rendevano alla perfezione l’idea del tempo come implacabile usura: Quidi fronte all’A.N.P.I.il 25 maggio 1975è stato trucidatoda squadraccia fascistalo studente lavoratoreBrasili Albertoaccusato di esserecittadino esemplareoperareper il progressocivile e democraticocrederenegli ideali della resistenza Comitato Permanente Antifascistaper la difesa dell’ordine repubblicano Sergio e Alberto nutrivano ideali opposti. Né l’ideale dell’uno né quello dell’altro autorizzava i mazzieri del campo avverso a compiere la loro vigliacca impresa e a comportarsi come spietate canaglie. Probabile che Alberto e Sergio non si fossero mai incontrati. Non sarebbero stati amici mai né da nemici si sarebbero rispettati. Troppo distanti i valori in cui credevano. Nelle loro abissali differenze risaltavano beffarde le due cose che avevano in comune: entrambi diciannovenni e il tempo trascorso dalla reciproca morte era ormai superiore all’età che avevano quando furono uccisi all’usanza barbara. Gli anni di piombo. Una guerra. Gli attentati e le violenze dal 1975 al 1980 furono 8625, di cui: 6263 attentati a cose, 1961 le violenze a persone, 171 i feriti in agguati. 270 i morti: 115 a opera del terrorismo di destra e 110 di quello di sinistra, 29 morti in scontri con le forze dell’ordine, 12 in altre circostanze e 4 in seguito ad attentati e violenze eversive. I morti dimenticati.In un ventennio tragico, dal 1969 al 1989, le vittime furono 429(39): incolpevoli caduti in una guerra non dichiarata eppure combattuta con ferocia. I cui guerreggianti agivano, ahimè, su più livelli. Visibile il primo, in cui i terroristi rossi e neri attentavano alla convivenza democratica che i corpi istituzionali di polizia difendevano. Clandestino l’altro, in cui associazioni occulte, organizzazioni internazionali, servizi segreti deviati tramavano alle spalle del conflitto in corso – inserendosi di volta in volta in esso – per specifici quanto illegali tornaconti.I morti degli anni ’70/80: i più inutili. I morti vani. Dispiace dirlo. Per i morti, è ovvio. Non è a dispetto di chi ha perso tutto, senza volerlo, che viene espresso il crudo giudizio. Ci mancherebbe.Morti che si potevano e dovevano evitare. Per voltare pagina una volta per tutte non sarebbe bastato almeno ammetterlo?

Maurilio Riva,L’antifascismo militante: Sergio Ramelliultima modifica: 2008-02-26T16:06:11+01:00da mangano1
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2 pensieri su “Maurilio Riva,L’antifascismo militante: Sergio Ramelli

  1. Tutto è preciso. Gli anni Settanta ci sono. Ma in superficie.
    Quello che non funziona è nell’occhio-mente che guarda.
    Non si accorge che tra lui (mente-occhio) e quel passato c’è una lente. E che questa lente deformante – quella del revisionismo storico – è stata prodotta dai vincitori.
    Una se la trova davanti agli occhi e manco se ne avvede.
    Guarda attraverso e vede il cinema: non ci sono più le ideologie, non ci sono più le ragioni dei comportamenti dei singoli e dei collettivi che si scontravano, non ci sono più i problemi irrisolti per affrontare i quali si era diventati “militanti”, strappandosi a volte faticosamente alle proprie tradizioni familiari o ambientali.
    I partigiani come “i ragazzi di Salò”? Ramelli come Brasili? Avanguardia operaia o Lotta continua come l’MSI o Ordine nuovo? Tutti uguali perché tutti avevano i servizi d’ordine e tutti usavano la chiave inglesi senza andare troppo per il sottile? Meglio voltare pagina?
    Ma la storia non è un libro.
    E qualche storico potrebbe aiutare, mostrare che appunto c’è quella lente, impedire di appiattire tutto. Vedi sotto… (in questa versione mancano le note, ma basta andare sul motore di ricerca, indicare l’autore e il titolo e si scarica l’intero PDF).
    Ciao
    Ennio Abate

    Da Enzo Traverso, Post-memoria ad uso degli smemorati

    Nel 1948 Cesare Pavese concludeva La casa in collina, il suo romanzo sulla
    Resistenza, con queste parole:
    ___
    Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che
    tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti, che facciamo? Perché sono
    morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo
    sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero7.
    Si potrebbe leggere questa amara conclusione come un riflesso del profondo
    malessere con il quale lo scrittore aveva vissuto gli anni della guerra: un
    antifascista che non riuscì a superare le sue reticenze etiche di fronte alla scelta
    delle armi e preferì isolarsi nella campagna piemontese, quando la lotta contro
    l’occupazione tedesca e contro il regime di Salò infuriava intorno a lui. Alcuni
    critici considerano queste parole affatto emblematiche, al punto di parlare
    della «tentazione della casa in collina» come di una sindrome diffusa8. Nel suo
    romanzo Pavese avrebbe dato voce alla «zona grigia», la vasta palude di coloro
    che, per paura o per ripudio della violenza, o forse anche per opportunismo,
    non potevano o non volevano scegliere da che parte stare durante la
    guerra civile. Insomma, chi si ritirava o si nascondeva, non per sfuggire a una
    persecuzione ma per evitare un conflitto che lacerava la società, che divideva
    la loro comunità e nel quale non sapevano da che parte schierarsi, o, pur riconoscendo
    le ragioni degli antifascisti, non osava seguirli, e ancor meno partecipare
    alla lotta armata. La loro passività li faceva sentire un po’ codardi e colpevoli,
    ma questa sensazione era eclissata dallo spettacolo orribile della violenza
    e della morte di massa di fronte al quale nessun valore e nessuna ideologia
    sembrano trovare giustificazioni. La letteratura è spesso premonitrice: le conclusioni
    di questo romanzo sono probabilmente più vicine alla sensibilità e
    alle opinioni di questo inizio del XXI secolo che agli orientamenti dominanti
    nella cultura europea alla fine della Seconda guerra mondiale. La memoria di
    quell’età di ferro e fuoco che fu la prima metà del Novecento, che oggi sembrerebbe
    la sola degna di essere custodita, è la memoria delle vittime, le vittime
    innocenti di un’esplosione insensata di violenza. Di fronte al ricordo delle
    vittime, quello dei combattenti ha perduto ogni dimensione esemplare, se non
    quella di un modello negativo. Fascisti e antifascisti sono ugualmente ripudiati
    come rappresentanti di un’epoca lontana durante la quale l’Europa sprofondò
    nel totalitarismo (comunista e nazista). La sola causa per la quale valeva
    allora la pena battersi, suggerisce la saggezza post-totalitaria, non era politica
    ma umanitaria. Oskar Schindler ha sostituito Missak Manouchian. L’esempio
    da valorizzare è quello dell’imprenditore (iscritto al Partito nazista) che salva i
    propri dipendenti ebrei, non quello degli immigrati (ebrei o armeni, italiani o
    spagnoli) che si battono contro il nazismo in seno a un movimento della Resistenza
    di orientamento comunista. Se questi combattenti sono ricordati, è per
    dire che si ingannavano, che la loro causa oggi non ha più alcun valore e che è
    giunto il momento della riconciliazione con i loro vecchi nemici. Così in Italia
    le autorità commemorano successivamente gli antifascisti, i deportati ebrei e i
    loro persecutori, i «ragazzi di Salò», tutti patrioti, a modo loro9. E in Spagna
    un ex combattente repubblicano e un ex volontario della División Azul – che
    nel 1941 raggiunse la Wehrmacht in Russia per combattere il comunismo ateo10
    – sfilano stringendosi la mano.
    Questa valorizzazione a posteriori della «zona grigia» ha trovato molti di_
    fensori11. Essi la celebrano come ricettacolo di indispensabili virtù etiche al
    riparo dai fanatismi delle utopie e delle ideologie, sottolineando a che punto
    gli imperativi dell’«impegno» potessero fuorviare gli attori della storia rendendoli
    dimentichi di ogni responsabilità nei confronti dei loro concittadini.

    Nella realtà di una guerra civile, tuttavia, i comportamenti
    dei suoi attori appaiono spesso difficilmente catalogabili in questi due
    tipi ideali abbozzati da Weber. L’etica della convinzione e l’etica della responsabilità
    non sono mai completamente separate, bensì sono unite da una dialettica
    complessa in cui si mescolano fra loro come in un caleidoscopio. I resistenti
    vagliavano le conseguenze possibili delle proprie azioni – i loro dibattiti
    lo testimoniano – e i sostenitori dell’umanitarismo non sempre erano privi di
    convinzioni politiche, al contrario. Si possono condannare gli autori dell’attentato
    contro Heydrich, compiuto a Praga nel maggio 1942, che fu seguito
    dal massacro di Lidice? Si sarebbe dovuto evitare l’attentato di via Rasella, a
    Roma, nel marzo 1944, nel quale la Resistenza uccise trentadue soldati tedeschi?
    È l’avviso di chi attribuisce ai suoi organizzatori la «responsabilità» della
    rappresaglia nazista che si tradusse nel massacro delle Fosse Ardeatine, dove
    furono giustiziati 335 civili13. Questi interrogativi si ponevano ovunque in
    Europa. Sarebbe stato meglio subire passivamente l’occupazione tedesca, senza
    resistere? Che legittimità ne avrebbero tratto le istituzioni nate in seguito
    alla Liberazione? Questi dilemmi tormentavano i protagonisti dell’epoca.
    Nell’aprile 1943 l’insurrezione del ghetto di Varsavia fu preceduta da un intenso
    dibattito in seno alla Resistenza ebraica in cui l’etica della convinzione si
    affermò sull’etica della responsabilità14. Calcolando semplicemente i rapporti
    di forza, i combattenti ebrei non avevano assolutamente alcuna possibilità di
    vincere e la loro iniziativa appariva un suicidio. Retrospettivamente, non è
    difficile riconoscere che la morale del sacrificio degli insorti valeva più del
    senso di responsabilità dei notabili dei consigli ebraici (Judenräte) i quali, collaborando
    con i tedeschi, non agivano soltanto per opportunismo o per
    conformismo (l’obbedienza all’autorità come un habitus, come una norma
    interiorizzata), ma spesso allo scopo di salvare delle vite umane, illudendosi
    ___
    sulle conseguenze della loro scelta.

    Benché la prima metà del Novecento sia sufficientemente lontana da permettere
    uno sguardo distaccato, soprattutto da parte di chi non l’ha vissuta, va
    rifiutata l’idea di ridurla a una catastrofe umanitaria o a un esempio del carattere
    malvagio delle ideologie. Per quanto tutte le guerre civili siano tragiche,
    alcune meritano di essere combattute.

    Non si tratta
    affatto di contestare le virtù civiche dell’umanitarismo, ma semplicemente di
    riconoscere che la nostra sensibilità post-totalitaria rischia di creare un equivoco,
    trasformando una categoria etico-politica in una categoria storica, se
    pensa che la condanna morale della violenza sia sempre valida e possa sostituirne
    l’analisi e l’interpretazione.

    Sarebbe tempo, dopo quasi un ventennio di regressione
    storiografica durante il quale abbiamo fatto indigestione di versioni
    anticomuniste del «Breve corso di storia del Pcus», in cui il socialismo si è
    trasformato in incubo totalitario ma l’ideologia è solidamente rimasta al comando,
    di riscoprire la prosa limpida di Isaac Deutscher che, ancora ispirata
    dal soffio della storia con i suoi tormenti e le sue contraddizioni, vedeva nella
    rivoluzione russa al contempo un atto emancipatore e l’origine di un regime
    prima dispotico, poi totalitario24.

    In Francia, la campagna contro l’antifascismo è
    iniziata una quindicina d’anni fa con un articolo di Annie Kriegel per la rivista
    «Commentaire»27. Ha toccato il fondo con la pubblicazione di un pamphlet
    che cercava di far indossare a Jean Moulin i panni di un agente sovietico28 ed è
    infine stata coronata, su un piano culturale più elevato, da Il passato di una
    illusione di François Furet, un libro in cui l’antifascismo viene presentato come
    un’officina propagandistica attraverso la quale il totalitarismo sovietico sarebbe
    riuscito a estendere la propria influenza sul mondo occidentale. «Grazie
    all’antifascismo, i comunisti hanno riconquistato un blasone democratico –
    scrive Furet – senza nulla abbandonare delle loro convinzioni. Al momento
    del Grande Terrore, il bolscevismo si reinventa come libertà in virtù di una
    negazione»29. In altre parole, l’antifascismo come semplice maschera democratica
    del comunismo,

    Si potrebbe sostenere che, sbarazzandosi
    dell’antifascismo, si rischia di cancellare il solo aspetto decente che
    l’Italia ha saputo dare di sé tra il 1922 e il 1945, la Germania tra il 1933 e il
    1945, la Spagna e il Portogallo durante un quarantennio.

    L’antifascismo può essere analizzato soprattutto come luogo di politicizzazione
    degli intellettuali. Alla luce del loro impegno negli anni fra le due
    guerre, e poi durante la Resistenza, esso rivela al contempo la sua enorme
    forza d’attrazione e le sue contraddizioni interne.

    Come ogni ricerca storica, anche la mia porta inevitabilmente con sé una parte
    di memoria. Non quella di un «testimone», nutrita dei ricordi di un passato
    vissuto, poiché l’epoca di cui parlo precede la mia nascita. Potrei chiamarla,
    prendendo in prestito una definizione di Marianne Hirsch, una «post-memoria
    »30. In altre parole, una memoria collettiva di cui ho ricevuto in eredità dei
    frammenti fin dall’infanzia: una memoria non priva di stereotipi, talvolta costellata
    di contraddizioni o tramandata come una leggenda, che ha preso forma
    nel corso degli anni.

    Gavi: episodi di guerra civile:
    Ancora oggi, a più di sessant’anni di distanza, i giudizi sull’impreparazione
    militare dei partigiani – la Resistenza si rafforzò ed estese la propria influenza
    soltanto nei mesi seguenti –, sulla presenza di spie e traditori nelle loro fila e
    sul ruolo svolto dal parroco di Voltaggio (il paese ai piedi della montagna
    dove avvenne la strage, a pochi chilometri da Gavi), che in chiesa aveva lanciato
    un appello alla resa, secondo alcuni per salvare i giovani ancora nascosti,
    secondo altri per favorirne l’arresto, sono contrastanti.

    Il corpo di un noto responsabile fascista fu trovato in
    un vicolo, ai margini della città, e fu condotto al cimitero su un carretto, senza
    neppure avere diritto a un funerale. Mio padre, che fu sindaco comunista di
    Gavi molti anni dopo, diceva di uno di questi morti, caduti sotto i colpi
    dell’epurazione, che era una «brava persona», un fascista certo, ma non un
    torturatore, e che non meritava di finire così. Quanto al signor Zimmermann,
    mia madre dice che la sua esecuzione, nella piazza del paese, si è impressa
    nella sua memoria come una scena d’orrore. Quasi tutti pensano che fu ucciso
    soltanto perché era tedesco.

    Diversi ebrei si nascondevano nelle campagne dell’Alessandrino. Alcuni
    erano stati fascisti prima del 1938; le leggi razziali li avevano colpiti e discriminati,
    ma la loro persecuzione iniziò soltanto nel 1943. Altri erano entrati
    nella Resistenza. Altri ancora furono arrestati dalla polizia italiana e deportati.
    Durante la mia adolescenza, tuttavia, non ho mai sentito parlare della
    deportazione degli ebrei. Ignoranza, rimozione, indifferenza? Forse le tre
    cose insieme. È difficile rispondere. A Gavi non c’erano ebrei; ma credo non
    se ne parlasse neppure altrove. Possiedo però nella mia biblioteca un opuscolo
    intitolato Lo sterminio degli ebrei, pubblicato in italiano a Londra, alla
    fine del 1942, dal Comitato d’informazione interalleato, che rende conto
    delle deportazioni nei diversi paesi europei. L’opuscolo non contiene alcun
    accenno ad Auschwitz, ma descrive la vita nei ghetti; cita poi Chelmno e
    Belzec, definendoli «luoghi di supplizio» nei quali si praticava l’uccisione in
    massa degli ebrei per mezzo di «scariche elettriche e gas velenosi». La Polonia
    vi è descritta come «un mattatoio nel quale si concentrano e si massacrano
    gli ebrei, non soltanto polacchi, ma provenienti da tutta Europa»33. Questo
    opuscolo apparteneva a un partigiano attivo nella vallata, oggi scomparso.

    Il
    massacro della Benedicta era evidentemente attribuito ai tedeschi, senza mai
    evocare il plotone di esecuzione italiano, un fatto ammesso con reticenza, come
    una confessione sgradevole strappata controvoglia. Il bombardamento non
    era mai presentato, per esempio, come un’«atrocità americana», ma sempre
    come una sorta di fatalità della guerra, secondo una tradizione che si è imposta

    Negli anni Settanta alcune figure di partigiani godevano di un’aura quasi
    mitica, tanto più insopportabile quanto più veniva sistematicamente invocata
    per far tacere gli «estremisti» che criticavano il Partito comunista. Ricordo
    di aver incontrato qualche volta Andrea Scano, un ex partigiano che conosceva
    mio padre e viveva a Novi Ligure, la città dove frequentavo il liceo.
    Durante una riunione politica nella quale intervenivo insieme ad altri rappresentanti
    di un collettivo studentesco – denunciando con veemenza la politica
    del Partito comunista – ero riuscito a irritarlo terribilmente. All’epoca non
    conoscevo nulla della sua vita. In realtà, Andrea Scano era una sorta di memo_
    __
    ria vivente della guerra civile europea34. Era stato in Spagna con le Brigate
    internazionali, aveva conosciuto le prigioni fasciste, poi aveva partecipato alla
    Resistenza. Il suo coinvolgimento nelle «epurazioni selvagge» del 1945 lo aveva
    costretto, dopo lo scoppio della Guerra fredda e l’uscita dei comunisti dal
    governo, a lasciare un’altra volta il paese. Si era rifugiato in Jugoslavia dove,
    da stalinista ortodosso, nel 1948 aveva partecipato alla lotta contro Tito e,
    dopo essere stato arrestato, era stato internato in un campo di lavoro. Rientrato
    in Italia verso la metà degli anni Cinquanta, aveva infine deciso di ritirarsi
    con discrezione, in una cittadina di provincia. In un Partito comunista orientato
    verso il «compromesso storico», Scano era una figura ingombrante, ma
    l’autorità morale di cui godeva tra i militanti indica il legame molto forte che li
    univa alla Resistenza e agli anni della guerra civile.

    I reduci della lotta antifascista erano in gran parte membri del Partito
    comunista e il legame che l’estrema sinistra italiana intratteneva con la Resistenza
    era debole. La sua eredità era stata, in un certo senso, confiscata dal
    Partito comunista e la nostra «post-memoria» era in realtà una rottura di
    memoria. Per noi si trattava dell’ennesima rivoluzione «tradita», ma nessuno
    o quasi, nelle nostre organizzazioni, vi aveva partecipato. Questo spiega
    forse l’insistenza con la quale volevamo ricollegarci alla tradizione del
    bolscevismo delle origini o cercavamo i nostri modelli altrove, in particolare
    in America Latina. Accanto a questa «invenzione della tradizione», tuttavia,
    gli anni della Seconda guerra mondiale fluttuavano ancora nell’aria come un
    racconto familiare. Ci ricordavano il vuoto alle nostre spalle. L’estrema sinistra
    di quegli anni incarnava la rottura, non la continuità. Era la sua forza e
    insieme la sua debolezza.
    In mancanza di una milizia, manifestavamo
    indossando il casco, inquadrati da un servizio d’ordine dai tratti militari. Le
    nostre canzoni avevano ritornelli guerreschi, lanciavano appelli alle armi e
    annunciavano a volte la «guerra civile», come l’inno di Potere operaio. Non
    credo affatto che si possa ridurre il significato di un decennio al gusto dello
    scontro violento e alla sua dimensione militare, ma questa esisteva e sarebbe
    falso negarlo. Per alcuni, soprattutto in Italia e in Germania, il culto della lotta
    armata prese la forma del terrorismo e le conseguenze furono tragiche.

    Se la fine degli anni Sessanta era stata dominata dal soffio della rivolta che
    ha toccato una generazione intera, durante il decennio successivo esso aveva
    lasciato il posto, nella sua parte più politicizzata che amava considerarsi
    un’«avanguardia», a un progetto rivoluzionario che prendeva la forma di una
    preparazione metodica alla guerra civile. Su questo piano, l’«ultima generazione
    d’Ottobre» ha completamente fallito. La svolta che il mondo ha conosciuto
    nel 1989 ha definitivamente consegnato quei dibattiti strategici all’arsenale
    ideologico di un secolo concluso.

  2. Caro Ennio, ci risiamo. Diventa facile per me risponderti che tra te e i “fatti” persiste la lente antica dell’Ideologia con la I maiuscola. Non ti frena nel tuo furore antirevisionistico neanche l’evidenza di un “fatto”, appunto. Ti chiedi in polemica con me, non certo con Luciano Violante, se i partigiani siano da considerarsi come “i ragazzi di Salò” e Avanguardia Operaia o Lotta Continua siano come l’MSI o Ordine Nuovo e io ti rispondo di no ma se aggiungi al quesito anche Ramelli come Brasili, ti rispondo seduta stante di sì. Quell’“episodio” grida vendetta ancora oggi a 33 anni di distanza, per molteplici motivi. Uno l’evidenza: un’azione tipicamente squadrista contro due ragazzi della medesima età colpevoli di avere un’idea diversa dalla propria. Un’azione sfuggita di mano all’organizzazione, dal suo braccio armato” diventato troppo autonomo. Tanti anni fa, si diceva che “Il partito comanda il fucile e non viceversa”, in quel caso, il fucile prevalse sul partito. E colpì l’obiettivo sbagliato nel modo sbagliato. Quali ragioni potrebbero mai giustificare una simile imboscata? Nemmeno l’errata idea che il paese stesse correndo drammaticamente a destra (fascistizzazione dello stato era il modo con cui qualcuno, esperto in “antifascismo” in A.O. si esprimeva) può servire a spiegare quella vile aggressione. Ti ricordo infatti che quella ferale aggressione avvenne nel momento in cui il paese si spostava a sinistra con le elezioni amministrative del giugno 1975 e D.P., come cartello elettorale) fu partecipe di quell’avanzata. Dunque …
    Sono contento che tu mi suggerisca cose da leggere e ti ringrazio. Rimango sorpreso a constatare che, avendole lette, ti sia però dimenticato dei contenuti.
    “L’estrema sinistra di quegli anni incarnava la rottura, non la continuità. Era la sua forza e
    insieme la sua debolezza. In mancanza di una milizia, manifestavamo indossando il casco, inquadrati da un servizio d’ordine dai tratti militari. Le nostre canzoni avevano ritornelli guerreschi, lanciavano appelli alle armi e annunciavano a volte la «guerra civile», come l’inno di Potere operaio. Non credo affatto che si possa ridurre il significato di un decennio al gusto dello
    scontro violento e alla sua dimensione militare, ma questa esisteva e sarebbe
    falso negarlo. Per alcuni, soprattutto in Italia e in Germania, il culto della lotta
    armata prese la forma del terrorismo e le conseguenze furono tragiche. Se la fine degli anni Sessanta era stata dominata dal soffio della rivolta che ha toccato una generazione intera, durante il decennio successivo esso aveva lasciato il posto, nella sua parte più politicizzata che amava considerarsi un’«avanguardia», a un progetto rivoluzionario che prendeva la forma di una preparazione metodica alla guerra civile. Su questo piano, l’«ultima generazione
    d’Ottobre» ha completamente fallito. La svolta che il mondo ha conosciuto nel 1989 ha definitivamente consegnato quei dibattiti strategici all’arsenale ideologico di un secolo concluso”.
    Anch’io ti suggerisco un bel libro che può placare i tuoi furori: “Il corpo del nemico ucciso” (Einaudi) di Giovanni De Luna.
    Senza animosità e con affetto.

    Maurilio “Rino” Riva

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