dal blog LABOTTE DI DIOGENE Leggo nella recensione di Boncinelli sul Corriere della sera di qualche giorno fa, a proposito del libro Le scienze cognitive classiche: un panorama di Massimo Piattelli Palmarini, una cosa piuttosto curiosa a proposito della rana. Cito: “Ci sono cellule della sua retina che reagiscono soltanto alla visione di un moscone in volo. Un qualcosa che voli ma che non sia un moscone, o la vista di un vero moscone ma fermo, non suscitano alcuna reazione in queste cellule. Che sembrano stare lì solo per rispondere alla domanda: c’è in giro un moscone vivo oppure no? Tutto il resto non le interessa. Tutto il resto non viene letteralmente visto”. Al che il biologo conclude dicendo come ogni animale, uomo compreso, veda il mondo a modo suo, in maniera del tutto utilitaristica.Questa lettura mi ha subito fatto venire in mente un capitolo del libro di Agamben L’aperto dedicato alla zecca. Era stato lo zoologo tedesco Uexküll a farne attento oggetto di studio per le sue ricerche sull’ambiente animale. In particolare Uexküll distingue tra spazio oggettivo (così come lo intendiamo noi) e Umwelt, mondo-ambiente.Ixodes ricinus, più comunemente noto come zecca, è uno straordinario esempio di questo effetto di spaesamento dettato dall’uscire dal proprio punto di vista per assumerne uno radicalmente altro. Le uniche cose che la zecca in agguato presso un ramoscello avverte dell’ambiente circostante sono: l’acido butirrico che emana dai follicoli sebacei di tutti i mammiferi; la temperatura di 37 gradi del liquido che succhierà (sangue se le va bene); la tipologia della pelle dei mammiferi. Il suo mondo finisce qui. Tutto il resto è privo di significato. Tale angusta limitatezza della Umwelt della zecca può essere amplificata dal gioco dell’immaginazione: pensiamo a un giorno primaverile, denso di profumi, colori, cinguettii, sfarfallii, sensazioni d’ogni genere, vita pulsante in ogni dove.Ebbene la zecca non si cura di tutto ciò. Nessuna di queste percezioni la tange. Non ode, non vede, non sente, tutto quello che fa è attivare il suo odorato per intercettare il mammifero di passaggio. E una volta che gli è caduta sopra e le si è conficcata nella cute calda, comincia a succhiare il sangue. Ma anche qui, non è il sapore del sangue che sente, sprovvista com’è di gusto, ma la percezione della temperatura di 37 gradi di un liquido x. Insomma, le si dovesse dare una brodaglia a quella temperatura l’assorbirebbe comunque (cfr. G. Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri 2002, pp. 49-51).Ora, non c’è dubbio che i nostri recettori – quelli dell’animale umano, intendo – siano molto più raffinati di quelli di una zecca o di un ranocchio. Ma che cosa ci fa dire di essere in una relazione diversa con l’ambiente, di costituire cioè il nostro essere relativamente al mondo in modo così radicalmente diverso rispetto a quello degli altri esseri viventi? Solo perché parliamo, ragioniamo, ontologizziamo, immaginiamo, ci immortaliamo, ci “indiamo” – per questa continua attività di proiezione del sé in altro – saremmo più “evoluti” di Ixodes ricinus? Dove sta la differenza ontologica, per usare un’espressione heideggeriana, tra noi e tutto il resto?Ho sempre pensato che è proprio nel far saltare la fissità della Umwelt che sta la nostra diversità. Rompere il cerchio animale della necessità. Liberi e perfettibili, come diceva Rousseau. Cultura, non solo natura. Spirito, non solo materia.Eppure il risultato non cambia: la nostra Umwelt, l’orizzonte inaggirabile, sta proprio nell’essere destinati (?) a non essere pura animalità, a infrangere continuamente la nostra invarianza biologica, a forzarne i confini.E così finiamo per essere due volte relativi: come ogni animale abbiamo il nostro proprio mondo; ma questo mondo (che è solo nostro e che non condividiamo con zecche o rane o quant’altro) ha la peculiarità di essere in perenne trasformazione, un mondo piuttosto fluttuante e mai identico a sé. Mondo per l’appunto, non semplice ambiente.Relativisti al quadrato insomma, noi umani! E sembra fatto apposta per far aumentare la disperazione del papa…(Nota sulla fotografia: non è, come si potrebbe pensare, l’occhio della rana, ma quello di un pesce, la rana pescatrice. Cercando in “Google immagini” l’anfibio, mi sono imbattuto nel suo omonimo ittico – fraintendimenti e confusioni che spesso la consultazione, per sua natura rapida, del web può ingenerare. Siccome mi è parsa una bella immagine, ho comunque deciso di lasciarla).
Mario Domina,La retina della rana,la zecca e la disperazione del Papa
Mario Domina,La retina della rana,la zecca e la disperazione del Papaultima modifica: 2008-02-29T23:21:15+01:00da
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