Stefania Mangano, Il paradosso del falafel (2)

bae83b2167fd66c1144180867c56b04b.jpgSECONDA PARTEI TERRITORI PALESTINESI Nel periodo antecedente all’instaurazione del Mandato Britannico, quando ancora la giurisdizione delle terre a ovest del Mar Morto apparteneva all’Impero Ottomano, il tessuto sociale palestinese constava di una maggioranza di popolazione rurale contadina e di una minoranza urbana formata da lavoratori statali e da un élites dirigenziale e politica, gruppi a diverso titolo attivi nell’elaborazione dei primi esempi di formulazione identitaria palestinese[11].La struttura sociale di base era quella familiare-patriarcale (hamula[12]), legame caratteristico anche dei numerosi gruppi di nomadi-beduini che abitavano le terre di Palestina, come risulta evidente anche attraverso le importanti testimonianze raccolte dalla antropologa Adriana Destro[13].La ricerca da lei effettuata, in una serie di villaggi palestinesi non lontano da Gerusalemme, durante l’anno 1977, evidenzia le modificazioni nelle strutture di base nella società rurale, conseguenti all’instaurazione dello Stato di Israele. La sua ricerca prende in considerazione l’organizzazione dell’economia dei villaggi, che si basava su una rete di scambi diretti e personali attraverso i vari nuclei familiari del territorio e che negli anni da lei studiati, stava subendo gli influssi dello sviluppo del nuovo modello economico Israeliano; questo mutamento esterno causò non solo una modificazione strutturale del modello di rapporti familiare-parentali, ma si iniziavano a percepire i primi effetti sull’identità etnica del villaggio considerato; le strutture originarie (hamula), si trovarono a perdere il loro valore organizzativo della vita del villaggio a causa del confronto con la nuova economia israeliana che, iniziando ad offrire nuove possibilità lavorative al di fuori del contesto locale, creava profonde conseguenze nell’organizzazione sociale dei villaggi palestinesi.Queste considerazioni, se pur limitate ad una serie di realtà direttamente studiate, si possono estendere all’intera società palestinese grazie alle fonti raccolte da Ilan Pappe[14].Infatti, la società israeliana delle origini constava di ebrei provenienti dalle più disparate esperienze socio economiche, accomunati però dalla medesima volontà di costruire una nuova terra che potesse accogliere il ritrovato popolo di Israele. Così “il nuovo ebreo” approdato in Palestina è animato da uno spirito imprenditoriale senza confronti, si organizza in comunità agricole (kibuzzim), costruisce pozzi, edifica terre deserte; il simbolo di questo spirito è Tel Aviv.Il confronto tra due società così diverse tra loro ebbe, oltre ad evidenti conseguenze sul sistema economico palestinese (che da quel momento in poi conobbe il suo più lungo periodo di stagnazione nella storia del paese), degli effetti significativi sull’evoluzione del sentimento identitario nazionale.Infatti, se pur si può riconoscere che la classe salariata e l’élites palestinese stavano lentamente elaborando una proprio modello nazionale, è importante notare come a livello popolare, solo a partire dal confronto con l’imponente nazionalismo israeliano si può iniziare a parlare di un vero e proprio movimento di identità nazionale diffuso tra i vari strati della popolazione palestinese.A sostegno di ciò è da notare l’evolversi del dibattito sul sionismo nelle pagine dei quotidiani palestinesi dei primi anni ’30, che dimostra come a partire dal confronto con l’ideologia sionista, gli intellettuali palestinesi iniziarono a domandarsi sempre più frequentemente quale influenza essa avrebbe avuto sul sentimento nazionale palestinese che si trovava ancora in una fase embrionale[15].Così l’accelerazione storica dovuta allo scontro con la società israeliana, portò nel giro di pochi anni alla costituzione dei primi partiti a base popolare di mobilitazione nazionale, come alla conseguente creazione OLP prima e della Autorità Nazionale Palestinese poi.Senza voler rischiare di ridurre la storia dell’identità palestinese a semplice reazione rispetto a quella israeliana, è pur vero che l’imminente pericolo causato dalla sempre più evidente volontà di Israele di amministrare terre e persone che si riconducevano ad una differente etnia, causò una facilmente individuabile accelerazione nel processo identitario nazionale palestinese.Così, è possibile affermare che il consolidamento dell’identità palestinese, è figlio di un fenomeno di reazione, causato innanzitutto dal percepire la nascita dello Stato di Israele come pericoloso per il mantenimento dell’esistenza stessa del popolo palestinese; sotto questo aspetto la nascita dell’identità nazionale palestinese a livello diffuso, risulta perfettamente coerente con il concetto di identità elaborata da Fabietti, scaturita quindi da un’azione contrastiva rispetto alla nascita dell’identità nazionale israeliana. CAPITOLO IIIDENTITÀ IN BILICO:DALLA CONDIVISIONE DELLA VIOLENZA ALLA RIELABORAZIONE IDENTITARIA […] O tu, vicino, lontano non ricordi i tramonti ti si infiamma l’anima e l’universo è per te e me,poeti nonostante lo spazio lontano ci avvolge l’esistenza. Fadwā Ṭūqān [da Esistenza[16]]“Lo sviluppo e il mantenimento di ciascuna cultura richiede l’esistenza di un altro, differente e competitivo alter ego; La costruzione dell’identità…coinvolge l’elaborazione di entità opposte e “altre”, che si trovano ad essere continuamente soggette ad interpretazioni e reinterpretazioni delle loro differenze rispetto al “noi”.Così Edward W. Said descrive “la costruzione dell’identità”, di quei meccanismi che permetto ad un individuo di riconoscersi come appartenente ad un proprio gruppo specifico: essi sono la risultante di processi di natura contrastiva che prevedono la definizione di ciò che è altro da se.Affinché un identità possa essere ritenuta tale dai componenti del gruppo, come dagli elementi esterni ad esso, è necessario che si crei un riconoscimento reciproco dei due attraverso la delimitazione delle rispettive frontiere, atte ad evidenziare le peculiarità del’ uno rispetto all’altro.Quando i gruppi identitari in questione sono rappresentati da popoli, gli elementi che permettono di riconoscere a se e agli altri la propria identità sono spesso ricondotti alle identità nazionali che constano di vari elementi tra cui quello fondamentale di territorio.Nel caso israeliano-palestinese, i due popoli delimitano le proprie identità nazionali nella stesso Paese, si contendono il controllo del rispettivo orizzonte fisico di riconoscimento in maniera esclusiva. La contesa dello stesso territorio come elemento di identificazione nazionale ha così creato nei due popoli un progressiva rielaborazione identitaria, costituita da un crescente acutizzarsi della contrapposizione delle rispettive differenze. Nel contendersi lo stesso territorio le due identità nazionali hanno dovuto erigere confini ideologici e fisici sempre più marcati, nella speranza non solo di delimitare le proprie sfere di appartenenza, ma anche di preservare la “purezza” delle rispettive “etnie”.Riportando le parole di Fabietti[17],“l’esistenza di un confine consente di “incanalare” la vita sociale. La sua esistenza segnala, a tutti coloro che sono parte del gruppo che, sostiene Bath, “si sta giocando allo stesso gioco”.Allo stesso tempo, però, il riconoscimento di un confine, comporta l’esclusione di altri “dallo stesso gioco”, e quindi una limitazione dell’interazione tra i due gruppi.”Il problema, per quanto riguarda il caso israeliano-palestinese, è che la lotta per il possesso della stessa terra rientra nel processo di identificazione del rispettivo “confine” e, portando i due a contendersi lo stesso elemento di riconoscimento interno al gruppo, essi si trovano a spartire lo stesso “piano da gioco”.Cosi essi si trovano ad utilizzare codici differenti per rappresentare lo stesso ambito identitario, usano nomi distinti per lo stesso territorio, segnano “confini”, pur condividendo la stessa “frontiera”; uso il termine “frontiera” nell’accezione usata da Fabietti, che riconosce in esso quello spazio d’azione, quella “terra di nessuno”, dove le due identità entrano in contatto, dove nonostante le diversità che caratterizzano le due società e/o culture queste ultime, danno luogo a processi di scambio, a meccanismi di interazione di diversa natura[18].Pur assumendo il concetto di “frontiera” secondo la duplice accezione di spazio di conservazione e di spazio di interazione, è anche vero che nei rapporti tra due identità che percepiscono la reciproca esistenza minacciata dalla presenza dell’altro, la seconda caratteristica del termine, risulta essere subordinata alla prima; infatti per poterla considerare come spazio di ibridazione, è necessario che entrambe la identità in questione riconoscano la propria rappresentazione identitaria come salda e incontestabile[19].Nel caso di Israele e Palestina, è chiaro come i due popoli percepiscano le proprie identità come in continuo pericolo, soggette a continui tentativi di delegittimazione reciproca che le rende non solo sempre più violentemente intente a marcare i propri rispettivi confini, ma anche cronicamente deboli. LA CONDIVISIONE DELLE ORIGINISe è pur vero che i due nazionalismi si trovano a livelli di legittimazione differente soprattutto sul piano internazionale, è anche vero che quando si parla di identità e quindi di cultura, non si può limitare la sua rappresentazione ad un identità nazionale, ma deve essere considerata soprattutto nelle modalità che permettono al singolo appartenente alla comunità di riconoscersi in essa.Quando parliamo di Palestina e Israele spesso ci si riferisce ad esse come a due entità indefinite, considerate in quanto Stati e non ad insieme di persone che in essi si identificano; infatti nel tentativo di individuare ciò che va sotto la voce di Identità Israeliana e Identità Palestinese mi sono scontrata con il riconoscimento dell’esistenza di un identità israelo-palestinese.Le due culture, se pur entrambe figlie di storie etniche differenti, nel momento in cui hanno iniziato a condividere e a contendersi la stessa terra, hanno iniziato a scrivere pagine di storia comune, che non si limita solo alla storia del conflitto, ma che parte dalla condivisione di un passato comune alla spartizione di una violenza reciproca contemporanea, che porta inevitabilmente ad una ridefinizione identitaria.Dividendo lo stesso territorio è impossibile pensare che, anche a fronte di tentativi , di delimitare le proprie differenze etniche, di sottolineare i propri confini, i due popoli non si trovino a spartire ambiti di memoria comune non solo riconducibili ad un passato di convivenza pacifica, ma soprattutto alla spartizione di un presente di violenza che è già presente negli spazi di memoria collettiva di entrambi.Il riconoscimento di una memoria collettiva delle origini, si può riscontrare direttamente attraverso le dichiarazioni raccolte dai cineasti Eyal Sivan e Michel Khleifi nel loro film-documentario “Route 181” in cui israeliani e palestinesi raccontano, con la stessa malinconia, la memoria di un passato comune, della condivisione di rapporti pacifici di collaborazione.La parte “pacifica” di storia comune è entrata a far parte delle rispettive memorie come qualcosa di perso in un passato lontano, che a fatica ritrova i propri elementi temporali e spaziali nelle memorie del singolo; tali elementi furono inizialmente caratterizzati da varie forme di collaborazione, soprattutto economica, e di condivisione di esperienze quotidiane: “un tempo eravamo vicini di casa”[20] si sente spesso dire a palestinesi e israeliani.Così soprattutto durante i primi anni del Mandato britannico e poco dopo l’arrivo dei primi sionisti, si possono incontrare episodi come mobilitazioni spontanee di lavoratori ebrei e palestinesi in risposta alle difficili condizioni di lavoro che subivano entrambi.Ad esempio nel 1920 ad Haifa, palestinesi, ebrei e arabi provenienti da Siria ed Egitto crearono la prima organizzazione sindacale della storia della Palestina in cantieri e officine delle ferrovie, come nei servizi telegrafici e postali.[21]Si può anche citare lo sciopero organizzato dei camionisti palestinesi ed ebrei, causato dall’imposizione di tasse elevate su automobilisti e camionisti, che per otto giorni nel novembre del 1931 paralizzò il paese obbligando il governo nel 1932 ad abbassare le tasse.[22]In ultimo è da ricordare la creazione del Partito comunista di Palestina (a composizione mista) che assieme al Partito Brit Shalom [Partito di Pace] dal 1936 divennero i principali promotori ideologici del bi nazionalismo e della convivenza pacifica[23]. LA CONTRAPPOSIZIONERiporto questi esempi cosciente del fatto che essi appartengono ad una fase della storia dei due popoli relativamente marginale rispetto alla portata della storia del conflitto.D’altra parte limitarne la storia unicamente agli scontri e alle vicende politiche che caratterizzano gli ultimi 60 anni, renderebbe complessa l’identificazione di quei processi individuali e collettivi che hanno causato una situazione ormai stagnante.Quello che cerco di sostenere è quindi l’esistenza di una parte di memoria collettiva di israeliani e palestinesi rispetto ad un loro passato di condivisione, che dal ’48 in poi viene riconosciuto da entrambi come un punto di non ritorno al quale ciascuno apporta cause differenti.E’ anche vero che, ritornando agli esempi di collaborazione sopracitati, le elités dirigenti sioniste e palestinesi si fecero spesso promotori di campagne d’odio atte a stroncare sul nascere le spontanee forme di collaborazione.Ad esempio il segretario della Haistadrut di Haifa ( Federazione Generale dei Lavoratori della Terra di Israele 1920) David Hacohen, rimproverò i lavoratori ebrei che avevano unito le loro forze a quelle palestinesi in questo modo:“I ferrovieri hanno dimenticato che la missione dei lavoratori ebrei, in quanto parte del movimento di colonizzazione della Palestina, non è quella di preoccuparsi della mutua assistenza coi lavoratori arabi, bensì di contribuire al rafforzamento del progetto sionista riguardante queste terre.”[24]Se è vero che il progetto sionista si comportò, al pari di un movimento di colonizzazione e quindi di imposizione, non solo di un potere, ma anche di modelli e stili di vita, è anche vero che soprattutto nel momento dell’elaborazione dei due distinti nazionalismi entrambi gli attori si trovarono impegnati in progetti di rielaborazione identitaria atte a screditare quella dell’altro.Come Ilan Pappè scrive nell’introduzione della sua “Storia della Palestina Moderna”, da entrambe le parti la stessa storiografia nazionale ha dato per scontato che la storia di questa terra sia sinonimo di nazionalismo; delimitando la storia di questa terra contesa a storia di due nazionalismi risulta pertanto complesso riuscire a riconoscere quegli elementi di entrambe le storie, che fanno parte di di un passato e di una memoria comune.Riportando quanto affermato da Homi Bhabha “ le nazioni, al pari delle narrazioni affondano le loro origini in tempi mitici e realizzano pienamente i loro orizzonti agli occhi della mente”; così anche qualcosa che fa parte della memoria collettiva può subire una rielaborazione più o meno volontaria atta ad eclissare o persino a censurare, elementi che in questo caso appartengono alla sfera dei ricordi personali di entrambi gli attori.Sempre riconducendomi al documentario, che ripercorre i luoghi dove un tempo si trovavano i villaggi palestinesi lungo la costa occidentale e che oggi ospita le nuove cittadine israeliane, la maggior parte degli intervistati israeliani non ricorda i nomi o persino l’esistenza di originari villaggi palestinesi; la maggior parte dei siti, oltre che a non presentare più traccia di antiche costruzioni, ha subito un processo di “ebraicizzazione” toponomastico; fenomeni di “ebreicizzazione” o “arabizzazione” dei nomi soprattutto di paesi e città (dato che è soprattutto la terra l’elemento del contendere) rappresenta il tentativo compiuto da entrambi gli attori di ricondurre lo stesso luogo, la stessa città, alla propria memoria di appartenenza, attraverso rappresentazioni simboliche distintive.Così dare un nome ad un oggetto, ad un luogo, significa rivendicarne una certa paternità; permette agli elementi del gruppo di riconoscere in una parola della propria lingua un aspetto specifico della propria cultura.Sotto questo aspetto il caso di Gerusalemme appare esemplificativo. La città è chiamata Yerushalaim in lingua ebraica – parola di origine aramaica che significa “Città di Pace”-, mentre in lingua araba è definita come Bayt al-Maqdis “la Casa della Santità” o più comunemente come al-Quds al-Sharif “ il Nobile Sacro Luogo” e la lingua inglese deriva dallo ebraico il termine Jerusalem, che tradotto in Arabo è reso con il termine Urshalim.Ma se di per sé definire un luogo secondo le diverse lingue non rappresenta un fatto questionabile, sono le modalità di utilizzo di un nome a modificare ciò che la rispettiva comunità riconosce con quel nome; infatti il termine ebraico e la sua translitterazione araba vengono usati nella maggior parte dei programmi radiofonici e televisivi israeliani in lingua araba o nella terminologia ufficiale istituzionale, escludendo di fatto l’utilizzo del nome con cui i palestinesi riconoscono la propria città Santa; così l’uso generalizzato del toponimo Yerushalaim o l’utilizzo dei nomi Giudea e Samaria per indicare l’attuale West Bank, rispondono oltre che alla volontà di ricondurre questi nomi ai luoghi biblici (rivendicati dal popolo ebraico come parte della propria memoria etnica), anche ad un tentativo di imporre la propria rappresentazione etnica della realtà.Cosi il processo di “nomizzazione” dei luoghi viene utilizzato in questo caso dal popolo di Israele (arabi-israeliani compresi) per attuare un processo di dominazione linguistica.Come riporta Pappè[25] “nel luglio 1949, Ben Gurion si occupò personalmente di un progetto di ampio respiro finalizzato a dare nomi ebraici a tutte le località, i monti, le valli, le fonti, le strade, ecc. del paese. Questo atto di “memoricidio” fu portato a termine nel 1951”.In questo caso ci troviamo di fronte a quelle che Maalouf definisce come “egemonie linguistiche”[26] che nel contesto affrontato non hanno effetto solo sulla cultura “sottomessa” ma anche su quella “egemone”, poiché infatti la ritorsione delle azioni di “memoricidio”, anche linguistico, sulla memoria dell’attore egemone (dato che la storia della Terra è comune “sottomesso” come “all’egemone”) è un effetto dalle conseguenze non immediate, ma che emergono nel tempo. PROCESSI DI RIELABORAZIONE IDENTITARIAAnche se è evidente la volontà di Israele di cancellare le traccie di un passato Palestinese (almeno sul proprio territorio), ciò che ne risulta è anche la cancellazione di una parte della memoria dello stesso popolo di Israele.Il popolo di Israele infatti, dalle origini miste e spesso contrastanti, consta anche di una minoranza di arabi-israeliani, palestinesi che, per svariati motivi, sono riusciti a rimanere entro gli attuali confini di Israele diventando sotto molti aspetti suoi cittadini.Questa apparente contraddizione, rappresenta un altro esempio del processo di rielaborazione identitaria di cui parlo; vista soprattutto nei suoi aspetti dinamici infatti, l’identità israeliana si trova ad essere, nel rapporto con i propri cittadini, un elemento ibrido, influenzabile e modificabile soprattutto rispetto a sollecitazioni interne.Gli arabi-israeliani rappresentano ad oggi il 18% della popolazione di Israele; benché godano della maggior parte dei diritti civili essi sono esclusi dal servizio militare e secondo le stime raccolte nel 1991, il 55% delle famiglie che vivono sotto il livello di indigenza sono arabe.Pur rappresentando una minoranza all’interno di Israele, questi cittadini di serie B, vivono un processo identitario fortemente contrastato dalla loro duplice appartenenza e possono essere visti come cartina di tornasole dell’evoluzione del processo identitario bi-nazionale.Sottoposti fino al 1966 ad un vero e proprio regime militare all’interno degli stessi confini di Israele, i palestinesi di questa terra si sono organizzati dapprima in un movimento che si chiamava non a caso al-Hard (la Terra) messo fuori legge nel 1965, poi nell’organizzazione più radicale dei “ Figli del villaggio”. Il partito che più di ogni altro li rappresenta è il Partito comunista di Israele, inter etnico e inter religioso, il cui segretario generale è attualmente lo scrittore arabo Mohammed Nafaa, seguito oggi dal movimento islamico e da gruppi minori; al parlamento eletto nel maggio 1999 i deputati arabi furono nove su un totale di 120, questo a dimostrare che i palestinesi di Israele hanno dunque acquisito una più profonda maturità nazionale e una crescente coscienza del peso che possono esercitare anche nelle scelte politiche del Paese.[27]Essi infatti, pur rappresentando una significativa minoranza partecipano alla vita di Israele come qualsiasi altro cittadino; frequentano le stesse scuole dei loro concittadini, parlano l’ebraico, leggono gli stessi giornali, chiamano gli antichi villaggi palestinesi con i rinnovati nomi ebraici, “vivono il sogno di democrazia “ israeliana senza però farne parte a tutti gli effetti.Gli arabi-israeliani, pur non essendo obbligati al servizio militare nelle Forze di Difesa di Israele, chiedono sempre più spesso di poter accedere in maniera volontaria al Servizio Civile Nazionale, alternativo ad esso; il fenomeno del volontariato palestinese è in continuo aumento, tanto che ad oggi si contano più di 1.200 volontari la maggior parte dei quali donne[28].Questo aspetto risponde non solo al crescente desiderio dei palestinesi di Israele di essere integrati in quella che è ormai diventata la loro nuova Patria, ma soprattutto riconosce come il destino di collaborazione dei due popoli continui ad essere intrinsecamente legato.Essi infatti non rinnegano la loro origine palestinese, della quale spesso si fanno porta voci, ma cercano con la propria presenza di dimostrare come si possa creare almeno individualmente una identità mista perfettamente coerente con la propria personale.L’esempio degli arabi-israeliani dimostra come l’identità non può essere considerata come un elemento statico, né come elemento di cui preservarne una sostanziale purezza; secondo la ormai famosa affermazione di J. Clifford “i frutti puri impazziscono”[29].Così partendo da un passato di condivisione, giungendo ad un presente di violente contrapposizione le due identità, intente nel loro processo di auto definizione nazionale hanno continuato ad influenzarsi reciprocamente soprattutto condividendo la storia del conflitto e la conseguente violenza.Essi infatti, se è vero che dal momento del conflitto hanno instaurato un rapporto fatto quasi principalmente di scambio di atti di violenza, è anche vero che questi eventi vengono ricondotti a quella che per entrambi fa parte del tessuto di storia personale; questo stesso tessuto, come la stessa terra che spartiscono viene chiamata da entrambi in maniera diversa, ciascuno usa termini differenti per parlare della guerra in atto e utilizza nomi dispregiativi per descrivere l’altro e positivi per descrivere gli stessi elementi a se stesso.Così quello che per gli Israeliani è considerato “Un Pioniere”, colui che ha permesso ad un intero popolo in Diaspora di ritornare alla propria terra, viene ricordato dai palestinesi come “L’Occupante”, “Il Colonizzatore”, “L’Usurpatore”; lo stesso vale per quello che non solo dagli israeliani, viene definito come “Kamikaze” mentre i palestinesi e gli arabi in generale lo riconoscono come “Martire”, come colui che immola la sua vita portando avanti la resistenza di un popolo oppresso.In questo caso definire una persona, un luogo, non sono semplicemente modalità usate dall’ uno per riconoscere e delimitare l’identità dell’altro, ma permettono di disegnare “agli occhi della mente” ciò che per l’uno rappresenta la personalità dell’altro. Questi meccanismi possono essere ricondotti a quello che il filosofo del linguaggi inglese Jhon Austin definisce come “speech acts”; egli definisce il linguaggio non come un semplice modo di definire la realtà, ma una modalità di costruzione di essa.[30]Così, in un momento iniziale, ebrei e palestinesi si consideravano ancora come “vicini” e si chiamavano l’un l’altro con i rispettivi nomi di “battesimo”; essi si riconoscevano attraverso le rispettive identità in quanto figlie di due storie distinte che potevano effettivamente entrare in contatto senza che una delle due si sentisse particolarmente offesa o in pericolo.In quel momento le due identità erano sufficientemente “forti” da potersi permettere di scambiare e ibridare le proprie specifiche conoscenze, dando origini a prodotti quali ad esempio “il falafel”, senza che l’utilizzo di elementi di una o dell’altra cultura fosse visto come un tentativo di sottrarre parti dell’autenticità di ciascuno. Questo momento iniziale della loro storia comune, che come ho brevemente spiegato nel primo capitolo, era figlio di due storie etniche distinte, si trovava però a due stadi di riconoscimento nazionale assai differenti.Nella mia analisi, la nascita dei due nazionalismi e il contendersi della stessa terra come elemento di identità nazionale ha causato una riformulazione identitaria forzata, che per poter affrontare la complessa, ma anche “banale”[31] lotta di prevaricazione, ha dovuto “alleggerirsi” di quei fardelli identitari dovuti dalla condivisione di un passato e di una cultura comune.Senza voler stigmatizzare il nazionalismo, che ha comunque concesso ai due popoli di essere riconosciuti come soggetti internazionali (i Palestinesi comunque continuano ad essere riconosciuti solo come popolo!), per quanto riguarda il riconoscimento reciproco della condivisione di una storia comune esso ha agito da eclissi identitario, oscurando quella parte di memoria culturale condivisa relativa alle loro comuni origini, figlie della stessa terra contesa.

Stefania Mangano, Il paradosso del falafel (2)ultima modifica: 2008-03-01T19:52:26+01:00da mangano1
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