Stefania Mangano, Il paradosso del falafel

9519b5256f268b7892727323b5cdcc9b.jpgOVVERO IL PROCESSO IDENTITARIO NELLA CONTRAPPOSIZIONE ISRAELO PALESTINESEPRIMA PARTE INTRODUZIONE E’ l’estate del 2005, io ed i miei due compagni di viaggio, volontari della Onlus italo-palestinese “Amal: Bambini per la pace” ci siamo concessi un abbondante pranzo in un buon ristorante arabo di Gerusalemme, a base di Hummus, Babaganushi, Falafel e altre leccornie.Una volta fuori, ci lasciamo trasportare dalla folla attraverso il budello di bancarelle e vicoli che formano il “souk” della parte vecchia di Gerusalemme Est.Grazie al nostro aspetto da turisti, siamo dotati del lasciapassare internazionale che ci permette di attraversare i vari Check Points che dividono il mercato arabo da quello israeliano.Ed è proprio con la pancia piena di “cucina araba” che, camminando nella parte israeliana del “souk”, mi scontrai con qualcosa che sul momento mi parve uno scherzo; una cartolina che rappresentava un piatto di Falafel su cui sovrasta la bandiera israeliana ed una scritta: “Falafel: Israel’s national snack”.Così, una cosa semplice come i Falafel, i cui ingredienti si possono trovare in tutto il Medio Oriente e che è considerato da molti arabi come parte integrante della propria dieta, si ritrovano al centro di una questione ben più complessa delle sue origine; rivendicato dagli israeliani come piatto nazionale e riconosciuto dai palestinesi come parte della cultura mediorientale, questa contrapposizione assume gli aspetti di una situazione paradigmatica.Da questa apparente contraddizione nasce lo spirito della mia ricerca.Attraverso l’esperienza diretta che ho intrapreso nel settembre 2005 e sulla base di materiale prevalentemente antropologico, ma anche politologico, saggistico, storiografico, ricerche sul campo ed esperienze di terzi, ho iniziato a domandarmi se alla base del conflitto tra questi due popoli non ci fosse una questione identitaria.Gli ingredienti che compongono un piatto “tipico”, sono spesso frutto di scambi, influenze, di innesti tra prodotti di diverse culture.L’elaborazione di una ricetta è anch’essa figlia di una storia comune, di una condivisione di esperienze primarie come quelle che si possono scambiare attorno ad un fuoco.Elementi come la tradizione gastronomica, fanno parte di ciò che un individuo riconosce come cultura di appartenenza; ad essa si aggiungono tradizioni e storia condivise, la lingua, il territorio, l’identificazione in un entità sociale rappresentativa come il proprio Stato, tutti elementi che nell’insieme formano ciò che fino ad ora è stato comunemente riconosciuto come Identità nazionale.Sulle traccie del pensiero di Amin Maalouf, un’identità è soggetta a continue trasformazioni, influenze che ne modificano il percorso senza però intaccare il “nocciolo duro” del suo essere, la parte forte e costitutiva dell’identità di ciascun individuo.Queste influenze sono continue e di differente forma e forza, acuite oggi dalla facilità di accesso alle informazioni e dall’aumento delle opportunità di movimento.Ciò che rende rischioso questo “meticciato” culturale è però la presenza di una debolezza identitaria di partenza, un “nocciolo” fragile che rende la struttura dell’identità di un individuo maggiormente vulnerabile agli incontri-scontri con “l’Altro”[1].Così nella questione Palestinese ciò che a primo avviso può sembrare un elemento marginale (la appropriazione dei Falafel come piatto nazionale) può rivelare quello che a mio parere rappresenta uno degli elementi più importanti della contrapposizione: il processo identitario dei due popoli.Le due Identità in questione, israeliana e palestinese, dimostrano in più settori la loro natura in divenire, mostrano di essere, a livelli differenti, ancora in costruzione.Questo aspetto, unito alle continue “ferite” e “colpi” a cui sono incessantemente esposti, le rende ancora più reciprocamente ostili e inconciliabili.Così anche di fronte a un passato di tradizioni comuni, di influenze reciproche, attorno allo stesso piatto di Falefel, la realtà attuale appare come lo scontro tra due entità che hanno perso qualsiasi memoria di esperienze condivise e si trovano ormai a spartire solo un presente di violenze e continue “ferite identitarie”.Tali “ferite”, sia che avvengano in campo istituzionale sia che siano inferte dal proprio vicino, sono percepite dal singolo individuo in maniera amplificata, creano solchi identitari profondi.Così la storia di un popolo diventa la storia di un piatto di Falafel, e viceversa.Per questa ragione non è la storia ufficiale che tratterò in queste pagine, ma l’influenza che essa ha avuto su comportamenti individuali e collettivi, sulla percezione del Sé e dell’Altro da Sé, sui reciproci mutamenti identitari.Se le identità rappresentano il punto focale del mio elaborato è perché sono convinta che, benché sia la storia diplomatica a firmare gli accordi di pace, è la storia quotidiana a creare le condizioni su cui questi accordi possano avere un futuro.Il dato di fatto da cui parto è che, nel momento in cui le due identità (ebreo-israeliana e arabo-palestinese), benché nei secoli in continuo contatto e figlie di due storie etniche distinte, hanno iniziato a far parte di un’ unica storia, lo scoppio del conflitto israelo-palestinese appunto, l’incontro-scontro tra le due culture ha attivato l’innesco di un processo identitario del tutto nuovo.Così i movimenti migratori a seguito della costituzione dello Stato di Israele e “l’arrivo dei nuovi coloni”, gli spostamenti interni ed esterni dei rifugiati palestinesi, il mutamento territoriale continuo, l’insicurezza cronica a cui sono soggetti entrambi i popoli hanno inevitabilmente creato cambiamenti importanti nell’identità e nella memoria etnica dei due attori.Nell’analisi dei mutamenti identitari ho usato come cartina di tornasole il ruolo del Muro di separazione e il lavoro e lo sviluppo delle ONG endogene.Entrambi sono visti nell’elaborato come agenti identitari che permettono la creazione di zone di “frontiera” dove i due soggetti in conflitto possano entrare in contatto, guardarsi negli occhi e riconoscersi come parti distinte di una medesimo processo di rielaborazione identitaria.In questo contesto la associazioni e le ONG nate dalla volontà dei diretti interessati, mostrano in maniera costruttiva e concedendo uno spiraglio di speranza concreta, l’evolversi della questione identitariaEsse sono attori intermediari tra le Istituzioni e il popolo non organizzato, che hanno però come chiaro “mandato” la costruzione di ponti di pace, e soprattutto la creazione di uno sviluppo che risponda pienamente ai propri bisogni. La mia scelta di prendere in considerazione le ONG come agenti identitari nasce oltre che da personali osservazioni sul campo, anche da conclusioni a cui sono giunti studi recenti che dimostrano come ONG palestinesi di Gaza e Giordania siano apparse come agenti primari nella ridefinizione dell’identità degli interessati[2].Organizzazioni e associazioni quali B’Tselem, The Parent’s Circle, ICAHD e molte altre mostrano un altra caratteristica altrettanto interessante:Le ONG che tentano di coinvolgere entrambi gli attori nel processo di pace sono per la maggior parte a leadership israeliane;Molte meno sono quelle a leadership palestinese; esse si trovano infatti impegnate in un progetto di riappropriazione delle proprie radici culturali e di un elaborazione e rafforzamento della propria identità, attraverso una produzione di forme endogene di sviluppo, finalizzate alla costruzione di risposte appropriate agli specifici problemi palestinesi.L’intento dell’elaborato è quello di dimostrare che l’esistenza di un progetto di incontro tra le due culture, la gestazione di un processo di pace, si presenta subordinato al rafforzamento e alla rielaborazione delle identità israeliana, ma soprattutto palestinese che come vedremo si trova ad uno stadio di autocoscienza e di istituzionalizzazione differente dalla prima.L’elaborato seguirà la seguente struttura:Capitolo Il Esame dei differenti processi evolutivi dell’identità nazionale israeliana e di quella palestinese, evidenziando come lo sviluppo di quest’ultima sia scaturita da un processo di contrapposizione, in risposta al consolidamento di quella israeliana;Capitolo IIl Analisi della percezione delle due identità etniche, alla luce del riconoscimento della condivisione di un passato di storia comune, genericamente riscontrato nella memoria collettiva di entrambi gli attori;l Riconoscimento di una volontà di “memoricidio” rispetto al loro trascorso comune, agita in maniera differente dalle élites politiche israeliane e palestinesi;l Dimostrazione della persistenza di una condivisione storica, e l’influenza di questa sui mutamenti identitari: l’esempio degli arabi-palestinesi di Israele; Capitolo IIIl Studio del processo di rielaborazione identitaria di entrambi gli attori, attraverso l’esame dell’azione di nuovi agenti quali il Muro e lo sviluppo di ONG endogene. Durante lo sviluppo dei seguenti capitoli, nel parlare del popolo israeliano come di quello palestinese, mi riferirò a loro in termini di “gruppo etnico”, cercando di riportare quello che, in base ai testi considerati nella bibliografia, gli stessi interessati considerano come “sentimento etnico di appartenenza”.Il mio studio cerca infatti di considerare i gruppi etnici “in base ai criteri che gli stessi interessati elaborano, mettendo in luce quelle dinamiche pratiche e simboliche che tali gruppi mettono in atto allo scopo di stabilire dei confini tra sé e gli altri[3]”.“perché un gruppo sia definito come “etnico”, o perché possa essere visto dall’esterno come tale, bisogna che siano attivi tutti gli elementi di etnicità: origini risalenti ad un passato remoto, esistenza di legami di discendenza comuni, lingua e religioni affini ecc. Sono infatti questi gli elementi che, non importa se percepiti soggettivamente o individuati da uno sguardo esterno, contribuiscono a far sì che un’ etnia compaia o si mantenga sulla scena della storia.”[4] CAPITOLO I LA NASCITA DELLE IDENTITÀ NAZIONALI: Sotto il giogo dei nostri mattini il sole si sgretola e nel buio dei nostri passi s’incendiano corti respiri. Patrie incomplete dove nient’altro appare che prigionieri di guerra. Ibrāhīm Naṣrallāh [Patria][5] ISRAELE“Nella società israeliana, l’etnicità è venuta configurandosi come un fattore della vita politica nazionale, come un esito dell’incremento della popolazione ebraica”[6]Lo Stato di Israele fu fondato il 14 Maggio 1948 , accogliendo il piano di spartizione della Palestina approvato dall’ONU il 29 Novembre 1947; lo stesso giorno dell’Indipendenza, alla scadere del Mandato Britannico sulla Palestina, inizia la prima guerra arabo-israeliana, che si concluderà nel dicembre successivo. Alla fine del vittorioso conflitto, Israele, avrà un territorio più esteso e meglio difendibile di quello previsto dal piano ONU, in cui è garantita la continuità territoriale; così lo Stato ebraico acquisisce l’intera Galilea, la pianura costiera fino alla Striscia di Gaza, la Città Nuova di Gerusalemme, collegata alla costa da un corridoio, e tutto il Negev, con lo sbocco sul Mar Rosso.La sua creazione non rappresenta solo l’apice di un desiderio nazionale, ma si conforma alla duplice spinta ideologica del suo popolo in quanto Stato Democratico e Terra del Popolo Ebraico.La Terra di Israele rappresenta ad oggi la realizzazione di un sogno per un popolo che, dopo la plurimillenaria esperienza della Diaspora, vede nell’Eretz Israel concretizzarsi il proprio desiderio di costituirsi in un unità nazionale spazialmente definita.L’individuazione della Palestina, in quanto terra ospite del popolo di Israele, è da ricondurre non solo ad un desiderio nazionale, ma ad un preciso movimento nazional-religioso quale fu il sionismo; nato negli ambienti intellettuali dell’Europa orientale negli anni Cinquanta del XIX secolo, esso si propose come tentativo di trovare un rifugio sicuro per gli ebrei perseguitati in Europa.Anche se il pensiero sionista delle origini deve essere letto in chiave di ideologia nazionale più che religiosa, le forma che si trovò ad assumere nella storia da noi trattata, è figlia di rielaborazioni ad hoc, che a partire da pensatori come Theodor Herzl, furono fatte adattando l’evolversi della Diaspora Ebraica agli sviluppi della storia[7].Prima degli anni venti, in Palestina viveva una comunità ebraica piuttosto ridotta, relativamente integrata con la comunità locale con cui intesseva rapporti economici e di buon vicinato[8]. Ma a partire da quel periodo con l’antisemitismo montante in Europa e poi negli anni del dopo olocausto, giunsero in Palestina numerosi ebrei ashkenaziti, (originari dell’Europa centrale), ad essi si aggiunsero i falasha dell’Etiopia, ebrei russi, americani, arabi, est-europei, invitati a raggiungere Israele attraverso specifiche politiche di accoglienza.Nonostante il pluralismo della società israeliana, il radicalismo nazional-messianico ha caratterizzato, fin dalla creazione dello Stato di Israele, le scelte politiche dei suoi rappresentanti, a causa dell’influenza dei numerosi partiti religiosi: dagli ultra ortodossi, ai cosiddetti “sionisti territoriali” o, come il Gush Emunim, l’ala radicale del movimento nazional-religioso.Questa breve panoramica sulla composizione della società israeliana, mostra come essa si riconosca in un’identità etnica specifica, quella ebraica appunto, caratterizzata anche dall’uso di una lingua comune, l’ebreo moderno, e che fonda la propria unità statale in un complesso intreccio tra democrazia e religione.Nel riconoscersi in un’identità etnica, la società israeliana ha fondato la parte attuale della sua storia sul tentativo di trovare il proprio ambito di riconoscimento spaziale in quella che prima del ’48 era internazionalmente conosciuta come Palestina (appendice dell’Impero Ottomano e in seguito protettorato britannico) e che, dopo l’indipendenza, divenne la Terra di Israele.Senza volermi soffermare sulle differenti correnti del pensiero sionista e radical-messianico, ciò che le accomuna è il fatto che essi riconoscano nei primi ebrei-sionisti giunti in terra di Palestina agli inizi del XX sec. , non di semplici coloni, ma dei porta voci di un’ideologia più complessa che identificava nel ritorno degli ebrei nella loro Terra di Origine il primo passo per l’avvento della Redenzione[9]; ritengo infatti necessario considerare in che modo questa visione influenzi la questione territoriale, non solo sulla storia del conflitto arabo- israeliano, ma sulla definizione identitaria dello stesso Israele.Affinché una comunità di individui si riconoscano in una Nazione, è necessario che questa condivida, oltre che una comunione di intenti di convivenza, anche uno spazio fisico su cui costituirsi in quanto Stato.Nel caso israeliano la parte di terra scelta per la costituzione del’ Eretz Israel, era già previamente occupata da un popolo autoctono, i palestinesi, che pur non avendo una strutturata coscienza nazionale, si riconoscevano in quanto popolo di Palestina.La terra di Palestina era da sempre stata terra di popoli dalle varie origini, tra i quali un numero consistente di genti di religione ebraica.Dal momento in cui il progetto sionista, forte dell’appoggio internazionale, riconobbe nella Palestina la terra dove il popolo ebraico avrebbe costruito un proprio Stato, ciò che prima era un’ identità etnica religiosa , divenne un identità nazionale.Nel passaggio da identità etnica ad identità etnico-nazionale il popolo di Israele si scontrò con un’altra identità nazionale in costruzione, che pertanto rivendicava la stessa terra.Lo spartire la terra come simbolo di identità nazionale, ha dato vita ad un conflitto che non si conclude semplicemente con la ridistribuzione di due territori distinti ad israeliani e palestinesi, ma comporta una complessa rielaborazione identitaria di entrambi gli attori coinvolti.La politica Israeliana, dalla creazione dello stato di Israele ad oggi, influenzata dalle varie correnti nazional-religose, ha improntato una campagna di purificazione etnica, atta alla progressiva eliminazione del popolo palestinese dai propri confini, finalizzata a mantenere una autenticità etnica della società israeliana[10].Negli ultimi anni, però le contraddizioni interne alla società, minata da spinte contrastanti(come quelle dei conservatori sionisti, correnti anti-sioniste degli haredim -che si oppongono alla territorializzazione di Israele-arabi-israeliani desiderosi di essere riconosciuti come cittadini a tutti gli effetti, frange laiche e propense ad un ipotesi di convivenza), hanno dimostrato come il progetto di mantenere “pura” l’etnia israeliana sia di fatto irrealizzabile.Inoltre, nuove correnti intellettuali, tra cui quella dei cosiddetti “nuovi storici”( gruppo eterogeneo di studiosi che da circa quindici anni ha rivisitato in chiave non-sionista la storia di Israele) stanno collaborando a ripensare l’identità Israeliana come un identità che non ha concluso il proprio percorso con la formazione dello Stato di Israele, ma che, proprio grazie al confronto ravvicinato e costante con l’altra identità “nemica”, quella Palestinese, sta proseguendo il proprio percorso di consolidamento e autocoscienza.

Stefania Mangano, Il paradosso del falafelultima modifica: 2008-03-01T19:45:05+01:00da mangano1
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2 pensieri su “Stefania Mangano, Il paradosso del falafel

  1. La pubblicazione del lavoro di ricerca e di elaborazione di Stefania Mangano mi appare eccellente ed attuale, soprattutto nella circostanza dell’aggravarsi della situazione politica in questi ultimi giorni, più che mai difficili, e nei quali il processo di pace sembra essere morto e sepolto. L’idea originale della comune identità da rivendicare, partendo dal semplice falafel, per giungere a considerazioni di ordine antropologico e sociologico ben più pregnanti, accomuna il desiderio di tanti, a prescindere dalle diverse ideologie, di trovare una soluzione che ponga fine al lungo travaglio di due popoli.

  2. Non perchè sono la zia, ma sono estremamente fiera che una giovane
    si occupi di un problema così “scottante”, affrontandolo attraverso
    un “cibo”.
    Il cibo è in fondo ciò che accomuna tutti gli uomini nel loro istinto
    fondamentale di sopravvivenza e già questo dovrebbe abbattere
    qualunque muro e/o differenza.
    Sappiamo bene come la “fame” stia da anni decimando
    le popolazioni del Sud del mondo.
    Ma la notazione più profonda che riscontro in Stefania è questo
    accenno quasi “timido” al vero Sè e all’altro da Sè.
    Si nota in questo la filiazione da una psicologa jungiana.
    E’ un accenno che in una tesi di psicologia verrebbe urlato e non sussurrato. E’ la perenne ricerca della vera identità di ogni uomo
    di qualunque razza, stato, territorio…… E’ la vera causa di tutte le separazioni, di tutti i conflitti, di tutte le miserie che cadono sotto i nostri occhi quotidianamente. La vera fame che accomuna tutti, la vera eterna ricerca che ci fa sentire separati , disperati, quasi costretti a depredarci
    energie..
    Stefania conosce bene la gioia della “convivialità” del “cenare insieme
    a tanti, condividendo la gioia del gusto delle “buone cose prodotte
    dalla terra e manipolate creativamente dall’uomo”, Stefania ha profonde
    radici solari e origini “vulcaniche”, in lei scorre sangue misto in cui Nord e Sud grazie all’amore hanno generato “la meravigliosa via di mezzo”
    di un’anima equilibrata e generosa, Stefania sa che la ricerca del
    Sè è necessariamente scoperta che non esiste alcun altro da Sè
    e che ogni essere che non accettiamo è solo una parte di noi
    che non abbiamo ancora accolto. Stefania sa che l’unica risposta
    ai conflitti è l’esplosione di “bombe d’amore”, ma vivendo in una società
    complessa in cui ancora non sappiamo guardare gli altri come nostri riflessi su uno specchio e dovendo presentare una “tesi” CONDIVISIBILE dai
    sociologi ed antropologi ed altri studiosi di scienze umane
    fa una apprezzabilissima tesi, Brava nipotina

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