Ennio Abate, L’ombra in poesia

f11996bb14303e53fc52181e8f733d47.jpgl’ombra in poesiaAppunti su” Verbale” di Michele Ranchetti dal sito POLISCRITTURE Michele Ranchetti (1925-2008), studioso di storia della Chiesa, di Wittgenstein, Heidegger e Freud, saggista, poeta, traduttore di Celan e Rilke, è morto il 2 febbraio. L’avevo interrogato nel 2005 per «Poliscritture» (Cfr. n. zero, maggio 2005 o su www.poliscritture.it) su Non c’è più religione (Garzanti 2003), libro in cui svolgeva un discorso drastico e spietato su quello che più tardi avrebbe chiamato «il disagio nella civiltà cristiana» (Cfr. il numero monografico de «L’ospite ingrato», 2, 2006, da lui curato). Con questi appunti sull’immagine che mi sono costruita di lui e la poesia del suo Verbale (Garzanti 2001) qui lo ricordo. [E.A.] Ora già tutto è diventato breve:la luce, il passo e lo stesso mio corpoe breve è il tempo e breve la distanzatra me e la fine se anche la duratadella vita è immensa (Ranchetti, Verbale)1.Ranchetti, uomo cresciuto interamente nell’epoca del Libro, espone in Verbale una verità quasi insopportabile. Ci cozzo contro quando leggo versi come questi: «tu vivi, viviamo, nell’altro / lato del foglio che riceve il senso / dal suo contrario e quando tu lo vedi / è tardi per la vita, hai compiuto / tutto il tragitto, sei al di là / di te stesso, sei te stesso morto».[1] Tale verità egli la coglie in quei «momenti di un giro a vuoto mentale»[2] permessi solo dalla poesia e non è «trasmettibile, né convertibile in una forma diversa (filosofica, religiosa, estetica)».[3] Non può dunque essere “narrata” o “spiegata” (il che comporterebbe una distensione temporale più o meno arbitrariamente decisa). Per lui può essere fissata soltanto in «momenti(frammenti)»[4]. E perciò Verbale non è il rendiconto di uno scienziato: quella verità, rimuginata dentro per una vita intera e tutta interiore, ha solo in superficie tratti oggettivi; va sentita; a descriverla sfugge o appare ovvia, banale. 2.Già dalla scelta dei tre eserghi iniziali[5] so cosa incontrerò in questa raccolta: nube (ombra), malattia, morte dell’animale (dell’uomo).[6] Vado incontro a una scarnificazione del mondo, alla sua assenza. Lo spirituale esclude il secolare («exivi / da seculo», p. 55). In poesia – e in maniera ancora più decisa che nei suoi scritti in prosa – la storia, la politica, l’industria, la lotta di classe, la “realtà” (ciò che ha occupato – ancora occupa – la mia mente e logora i corpi di tanti) – sono abolite. Qui Ranchetti volge ancora più decisamente le spalle a quotidianità, cronaca e storia. Rispetto a lui, che ha continuato attivamente a pensare e ad agire nell’habitat del pensiero religioso cattolico, noi che ci siamo voluti adulti e moderni, rimaniamo separati. 3.Ranchetti è rimasto cattolico, dunque? Credo di sì. Ma con un cattolico che, scrivendo Praevalebunt[7] o Intellettuali e Chiesa cattolica: tesi (ora in Non c’è più religione[8]), ha svelato il nichilismo del«cattolicesimo di questi inizi del terzo millennio»,[9] atei, agnostici o non credenti possono, se non intendersi, confrontarsi al di fuori dai mille equivoci che inacidiscono i correnti discorsi che si fanno su “ritorno della religione”, “ateismo devoto”, “teocon”. 4.Per la sua “nostalgia di cristianesimo”, Ranchetti sta però su un altro piano rispetto a un Fortini o a un Ernst Bloch, che, prospettando un possibile e reciproco inveramento utopico sia del dramma religioso che di quello mondano, hanno avuto ai miei occhi il merito di spingersi più di lui verso un possibile punto di confluenza tra cristianesimo antico e marxismo moderno. La sua a-mondanità è così netta che, al confronto, la religiosità di un Bloch o di un Fortini non possono apparire che “teatrali”, il che – credo – spieghi la sua disattenzione al primo e le sue rimarcate riserve nei confronti del secondo.[10] Non c’è posto in Ranchetti per la contraddizione nella storia. Il dramma in lui resta solo religioso. E perciò, coerentemente, anche in poesia egli respinge una «poetica [che non abbia] carattere di esperienza particolare», com’è quella fortiniana, fino a giudicarla «risultato di un esercizio di ragione, sia pur di ragione poetica» che preclude «quelle cadute verticali nell’immaginazione poetica (e sia pure un Grand Hotel Abgrund)» che in poesia per lui sono l’essenziale.[11] Quando la spinta poetica si affaccia nella mente di Ranchetti, il dramma storico, pur da lui indagato soprattutto sul versante della storia della Chiesa, è del tutto accantonato e vanificato: «l’assenza / si introduce ed è l’essenza – egli scrive – e la luce è «luce del morto in te, luce / luce perpetua del compito, luce / precipua d’ombra, contro luce».[12] 4.Devo dire che buona parte del mio breve carteggio con Ranchetti è avvenuto all’ombra di Fortini: io, impressionato com’ero stato dal tono sicuramente fuori dal coro del discorso da lui tenuto durante la commemorazione di Fortini che si ebbe all’Università di Siena nel 1995,[13] lo incalzai poi proprio sui giudizi che egli aveva dato e diede successivamente su di lui. Ad apparentarloai miei occhi a Fortini restava forse solo l’inquietudine del loro pensiero. Ma in Ranchetti – è chiaro – il pensiero si muove attorno a un’«incrinatura» tutta interiore.[14] Ed è per questo che mi sembrava così pronto a cogliere la sofferenza (l’«odore di malato di mente»[15]) o a scovare in Fortini «una fragilità.. nell’ambito degli affetti, non della ragione».[16] Dalla condizione degli anni Novanta, che anch’io ho cominciato a chiamare di esodo ma senza possibilità di meta o di progetto (per chissà quanto tempo), mi è sembrato possibile misurarmi con Ranchetti per tentare un fortiniano «buon uso delle rovine», che a me in parte sembravano assimilabili, del comunismo e del cristianesimo. Volevo cercare di confrontare la «fine della speranza politica» di Fortini (ma anche mia e d’altri) con il processo di ammutolimento forzato dell’«interrogazione religiosa» che Ranchetti aveva riassunto in Non c’è più religione. Gli epigoni di entrambe le grandi narrazioni mi parevano vivere ora una solitudine comune. E il cattolicesimo di Ranchetti non era per me, come ho detto, una barriera, tanto m’ero convinto, leggendo i suoi scritti, che egli lo aveva vissuto con una libertà impensabile per quello istituzionale e se ne andasse distaccando.[17] 5.Tornando a Verbale. Nella Postfazione Ranchetti parla di figure che hanno agito nella sua esperienza e con le quali ha stabilito «un’alleanza affettiva e teoretica».[18] Sono le fonti del suo sentire: familiari, amici, conoscenti (le allusioni più chiare paiono quelle riferibili ai genitori, ai figli), già fattisi però pensiero. E quindi conoscere i nomi di alcuni suoi reali interlocutori– come aveva lui stesso precisato nella precedente raccolta, La mente musicale – non aggiunge molto di più a quanto i versi passano.[19] 6.In Verbale colgo un’assenza di soggetto e di soggetti. È occultamento o assenza di chi dice o pensa? Piuttosto un sintomo, credo, del volersi Ranchetti poeta impersonale, vagante, accanitamente introspettivo, rispecchiante «dolore». La lotta che occupa interamente il campo della sua mente musicale, incastrata in un «corpo vuoto e pesante»,[20] è quella interiore[21]: «il vivo / in me e il morto / in me si contendono / ciò che di me rimane».[22] Di sicuro qui ci sono i «verba et nomina» della tradizione cristiana, come egli avverte, ma l’abbreviazione di quella è quasi stenografica. (E a me poi appare carbonizzata,[23] tanto che non riesco ad afferrare più “detti” o “citazioni” che, spesso ad inizio poesia, ancora la segnalano. M’accorgo che su di essi il pensiero del poeta si mette a lavorare, non con un approfondimento graduale, ma con abbreviazioni che trovo fulminanti e spaesanti[24]). 7.Per chi verbalizza Ranchetti? Sento nella sua poesia l’assenza del noi, diciamo pure del fantasma che tanto ha agitato fra Otto e Novecento almeno la parte dei poeti e degli intellettuali che mi sono scelto come riferimento. Egli era fuori da ogni retorica del noi o della “fraternità”. Quindi mancano in questi versi l’intento didattico, la volontà di colloquio, la fiducia nel cercare assieme agli altri. Manca pure la spinta a persuadere qualcuno della verità che egli vuole, scrivendo, salvare dalla distruzione del tempo. Non dico che c’è solipsismo nella sua scrittura, ma, soprattutto nella poesia, una solitudine vissuta in modi estremi nel pensiero e nel linguaggio. 8.In Verbale (ma credo in tutte le sue poesie) la saldatura fra sentire e pensare religioso è compatta. Una sensibilità elementare e originaria (infantile in senso assoluto) si sarà irrobustita attraverso successive acquisizioni e sedimentazioni culturali del tutto coerenti e senza eclettismo alcuno. Da uomo che «ha letto tutti i libri», come sostiene Giudici?[25] No. Nell’intervista che gli feci nel 2005, Ranchetti riferì senza imbarazzo o baldanza che Marx (e credo tutto il filone illuminista) lui non l’aveva mai accostati.[26] E la conferma che guardasse in altra direzione e ad altri scopi la trovo rileggendo questi versi: «la salute non è / affidata al conoscere»[27]; «la poesia si annulla / nell’esistente, la ragione penetra / solo nell’oggi».[28] Ranchetti è stato lettore soltanto di libri che rientravano in un campo conoscitivo che egli sentiva suo. E la lettura che ne faceva è quella rallentata e approfondita del traduttore, cioè di un lettore potenziato, perché costretto continuamente a tornare sui suoi passi, a limare, a puntualizzare. 8.In poesia, Ranchetti abbrevia. In modo rigorosamente intellettuale l’ansioso suo percorso di vita (termine da lui svalutato, se non dileggiato[29]) e d’esperienza (termine non assente dal suo lessico, ma accompagnato da una forte consapevolezza del «limite», e cioè della morte incombente come sua conclusione[30]) viene contratto e accorciato. Sappiamo che esso è stato lungo e multiforme, ma, in coerenza con il princìpio religioso della sua poesia, egli riassume la vicenda («le origini / i parenti modesti, la severa / pratica di pietà religiosa e civile», pag, 39) nel nulla, nella morte, in quella che Mengaldo chiama «”metafisica”»[31]. 9.In questo «percorso conoscitivo, fissato in punti di illuminazione e di ombra» a me pare che Ranchetti abbia voluto misurarsi soprattutto con le ombre, con «i punti morti di luce», fiducioso che, connettendosi tra loro, essi diano luogo (non dice: possono o potrebbero…) a «momenti (frammenti) di chiarezza». Di ombra, di oscurità (del linguaggio stesso), sin dalla prima lettura delle sue poesie, ne ho trovata tanta. E mi sono chiesto quanto ciò fosse dovuto a mia ignoranza o al distanziamento del mondo cristiano-cattolico-borghese di Ranchetti. Ma è davvero più “intelligibile” oggi questa sua poesia a un cattolico o a un cristiano? Tanta ombra non sarà dovuta al suo sporgersi (ricorro ancora a Giudici) «nell’aldilà di ogni oltranza dell’esserci» che l’ha portato in Non c’è più religione? alla stessa negazione o messa in dubbio del pensare religiosamente? Chi afferma, comunque, che Ranchetti rientrerebbe interamente in «quella grande tradizione mistica (che ebbe, da noi, in Clemente Rebora il suo estremo grande testimone)» [32] mi pare che addolcisca l’intero suo percorso. Davvero l’”oscurità” ranchettiana è apparentabile a una «laica noche oscura», come hanno scritto in occasione della sua morte vari commentatori? 10.Non sono in grado di intendere la qualità di quest’ombra ranchettina (e – lo ammetto – della stessa oscurità per me di tanti suoi versi). Eppure da questa mia difficoltà non ho tratto alcun sentimento di rifiuto nei confronti di questa poesia. Anzi, proprio perché tanto ostica (sicuramente più dei suoi Scritti diversi[33]), mi spinge a fissare con precisione i miei «non capisco» (i miei “limiti”). 11.Ranchetti, a differenza di tanti poeti che vogliono metterci la vita, in poesia ci mette la morte. Non è il primo. Dante da vivo ha immaginato un viaggio di purificazione e di rinascita (alla vita, ad una vita ancora umana, ma più consapevole del divino) nel mondo dei morti. Ma quello di Ranchetti non è un viaggio. Non c’è «tragitto» («la distanza fra il tuo corpo e il mio è già tragitto», pag. 34), né «progetto» («Qui, perduto il carattere / del qualsiasi progetto, riconosco / solo l’assenza di un tragitto», pag. 30). La sua mi pare un’operazione più drastica anche di quella che fece Leopardi. Nel poeta di Recanati, il sentimento di morte e la disperazione lasciavano intravedere la vita (che spettava magari agli altri più che a lui). Qui no. Il “piacere della vita”, ogni piacere, è negato. Ranchetti non si finge morto (come ad es. fa Giudici in una nota poesia). Non pensa da morto la vita, come fa Leopardi. Nella vita sta da «sasso», da «albero».[34] Mi pare che egli pensi da morto la morte. Ci dà una poesia mortificata, rinsecchita, scheletrica (come lo sono le immagini di corpi umani e di animali – specie alcuni gallinacei – che egli fissò in disegni che tanto richiamano il primo Paul Klee[35]). Avrà accolto – come dicono – quasi solo Rebora, ma sottoponendo la sua lezione a una ulteriore depurazione (delle immagini, ad es.). La sua distanza dai modi poetici più consueti è enorme: dove un poeta di solito mette un’immagine, Ranchetti mette un pensiero. E non credo si sia mai occupato di poetica o di tecniche poetiche. La biografia, la sociologia, almeno nel suo caso, aiutano fino ad un certo punto. Sì, è un borghese, è un cattolico, ma ciò non spiega questo tipo di poesia. E davvero queste sono ancora poesie? La domanda non è provocatoria, perché qui la letteratura viene cancellata. Egli le volta le spalle, guarda altrove, non “l’attraversa” neppure, come si dice. Si tratta, invece, di una stenografia dell’anima che delira e, per afferrarne il codice (se il lettore ha la tenacia o la fiducia di poterlo afferrare…), bisognerebbe rifare tutto il «percorso conoscitivo» che l’autore afferma di aver abbreviato e «fissato in punti di illuminazione e di ombra». 12.Questa poesia intimorisce e inceppa il pensiero (almeno il mio) per l’accoglienza piena che dà al pensiero di morte. Per avvicinarmi ad essa quanto mi è possibile, devo pensare ai legami avuti con corpi di persone che mi sono state vicine ma che ora sono uscite dalla mia esperienza diretta (allontanatesi o morte). La poesia di Ranchetti invita a sostare con queste ombre, a interrogarle, ad ascoltarle, frenando ogni impaziente tentativo di svelare, illuminare, pensare per agire. L’ombra ranchettiana si fonde in parte con alcune delle mie ombre. (In particolare, per avvicinarla, posso far riemergere immagini d’infanzia cattolica, sia pur vissuta a un livello populistico-attivistico, da Azione Cattolica anni ’40-’50, ben distante da quello storico-teoretico di Ranchetti[36]). Qui il “cristianesimo” di Ranchetti (la sua parte non dottrinaria, intendo) non è poi così lontano da quello che credo di aver vissuto nel rapporto prima fisico e poi di memoria con mia madre (e la figura della madre è centrale anche in Ranchetti e in Verbale) o con altre figure della mia infanzia e adolescenza (la parte “premoderna” della mia esperienza). 13.Ad allontanarmene o ad entrare con essa in una sorta di “competizione” è invece la parte “moderna” della mia esperienza di immigrato in una metropoli. Che resiste, malgrado le sconfitte esistenziali e politiche che me ne sono venute. È come se, pur subendo la presa di quella “incrinatura” che Ranchetti ha sondato tanto in profondità, da qui mi venisse ancora la spinta a contrapporre alla sua poesia la ricerca di “qualcosa” a livello storico-politico e non “interiore”. La verità dell’angoscia di morte che la sua poesia mette in primo piano non credo di volerla sfuggire. L’aver rimodellato convulsamente nelle forme della modernità (ora sconfitta) la prospettiva di vita interiore, che il cattolicesimo aveva dato anche a me, non ha significato perderla. Ho continuato, ridimensionata, a sentirla. Come sento vicina l’altra saggezza possibile (quella vissuta da Ranchetti), perché non si confonde con la ritualità sociologica ed esteriore dei preti e della Chiesa. 14.Il timore che mi suscita questa poesia diminuisce solo quando arrivo alla conclusione (provvisoria e incerta) che ho seguito una via non del tutto imparagonabile a quella di Ranchetti. Comunismo e cristianesimo hanno avuto per me profonde affinità (almeno un certo cristianesimo e un certo comunismo) e, malgrado il “disagio nella civiltà cristiana» e la “morte del comunismo”, la loro vicinanza mi pare assodata. Ignoro però se, come e quando possa essere ripresa e sviluppata. [1] M. Ranchetti, Verbale, pag. 96, Garzanti, Milano 2001[2] M. Ranchetti, La mente musicale, pag. 7, Garzanti, Milano 1988[3] M. Ranchetti, Verbale, pag. 133, Garzanti, Milano 2001[4] M. Ranchetti, Verbale, pag. 133, Garzanti, Milano 2001[5] M. Ranchetti, Verbale: Ecce nubes lucida obumbravit eos (Matteo, XVII,5) Il pensiero di volermi aiutare è una malattia (Kafka, Il cacciatore Gracco.) Qual è quella cosa che ha occhi da cane, coda da cane, orecchie da cane e non è un cane? Una cagna. No, un cane morto. (Indovinello per bambini.) [6] Mengaldo dal canto suo individua questi temi: «le venature cristologiche, il continuo confronto io / tu o “altro”, la morte e specialmente la morte della madre» (P.V. Mengaldo, Poesie recenti di Ranchetti. Una testimonianza in Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, p. 433, Quodilibet, Macerata 1988.[7] Cfr. La rivista del manifesto, n. 10 ottobre 2000. Oppure: http://www.larivistadelmanifesto.it/php3/ric_view.php3?page=/archivio/10/10A20001018.html&word=Ranchetti;Praevale-bunt[8] M. Ranchetti, Non c’è più religione, Garzanti, Milano 2003.[9] M. Ranchetti, Non c’è più religione, pag. 14, Garzanti, Milano 2003.[10] Le numerose volte che ho riletto Franco Fortini esorcista (in Ranchetti, Scritti diversi II, pag. 233, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1999) ho notato (e lo scrissi anche a Michele) l’ambivalenza (reciproca, credo) del rapporto tra questi due intellettuali. Ranchetti espone i suoi sentimenti contraddittori («forte nostalgia» per gli incontri con Fortini e insofferenza per il «dover sottostare senza colpa alcuna, al suo giudizio»), mostrando quanto poco sia stato coinvolto dalla passione che Fortini metteva nei campi culturali da lui praticati (marxismo, letteratura e politica), tanto da centrare il ritratto-bilancio del “fratello maggiore” su pochi ricordi personali, privilegiando al massimo la soggettività dell’approccio.[11] M. Ranchetti, Scritti diversi II, pag. 236, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1999.[12] M. Ranchetti, Verbale, pag. 98, Garzanti, Milano 2001. Aggiungo, a riprova di questa sua a-mondanità, che in Sopra una qualsiasi rivoluzione (Scritti diversi II, pag. 215) m’impressionò il tono distaccato con cui il personaggio centrale, un giovane borghese, decide di prender parte agli avvenimenti, di guardarsi attorno e cercare «chi per dottrina o per ingegno spiccasse fra gli altri, degno del suo affetto e della sua confidenza» (pag. 215), pronto a seguire «un ideale, fosse pure violento». Quando entra in contatto con altri giovani che, assieme agli «uomini della strada e delle fabbriche in accese conversazioni… trattavano via via i problemi cui deve attendere l’uomo moderno, se tale vuole essere: massa e lavoro, abolizioni di leggi e di miti erano i temi che ricorrevano di frequente», il lessico stesso di questo scritto mi pare indicare tutta l’estraneità e la diffidenza dell’autore verso linguaggio politico corrente di allora (e di adesso). La sua attenzione si rivolge alla figura del giovane capo capace di «trovare la risposta adatta, la soluzione attesa» (pag. 216) e subito dopo al punto di conflitto tra l’economia, «un sapere economico, di già fatto collettivo», e «l’etica e il sapere religioso», arrivando a negare ogni valore alla lotta fra le classi:«un nemico non vince un nemico, un male l’altro male: sostituire non significa certo intendere né distruggere» (pag. 217). [13]Scrissi in quell’occasione: Abbiamo amato un poeta “fragile” Ranchetti è stato il soloa spogliar Fortini da mantelle letterariee religiosizzanti parlare di letteratura/è un alibi questo commercio con l’Olimpo cristiano/Fortini l’odiava tragica / esemplareè l’empietà dei suoi ultimi versi c’era una fragilità di fondonell’ambito degli affetti certo/ se abbiamo da difenderela Letteraturao l’anti-Letteraturala Religione o la Laicitàla caverna psicoanalitica di Ranchettiin pochi la si frequenterà [14] M. Ranchetti, Verbale, pag. 108.[15] Idem, pag. 100.[16] M. Ranchetti, Scritti diversi II, pag. 237, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1999.[17] In particolare gli posi questi miei problemi in una lettera del 22 gennaio 2002. Durante una successiva telefonata, in cui gli chiesi perché non avesse risposto alle mie numerose obiezioni, Michele mi spiazzò, dichiarandomi – e non ho motivo di pensare che lo facesse per diplomatismo – che egli non era portato a pensare dialogando e controbattendo. Resta il fatto che non rispose neppure alle obiezioni che gli feci su un altro suo ritratto fortiniano (Cfr. Nei dintorni di Franco Fortini. Un inizio di riflessione in «Poliscritture» n. 1 maggio 2006) né a quelle che mossi al suo Fortini e Milani (in «Antologia Viesseux», n.31, gennaio- aprile 2005). Dopo il nostro rapporto si andò diluendo, lasciandomi il dubbio: ero stato troppo maldestro incalzandolo con obiezioni eccessivamente “filofortiniane” oppure mi ero addentrato in una zona di dissenso non dialogabile fra due intellettuali vicini e distanti?[18] Verbale, pag. 133.[19] A conferma trovo anche il giudizio di Mengaldo: «Michele non fa che macinare pochi elementi nello stesso tempo esistenziali e concettuali, e anzi l’esistenza non esiste quasi in lui se non ruminata interiormente, sicché si può quasi dire che le “cose”, e se vogliamo la “realtà”, come la chiamiamo, nella sua poesia non esistono». E più avanti: «per dirla tutta: [si tratta di] una poesia in cui sì, l’esistente ha significato solo se giustificato dalle categorie del pensiero e dello spirito» (P.V. Mengaldo, Op. cit. pag. 434).[20] In La mente musicale, 33, pag. 33.[21] Ancora Mengaldo: «Ranchetti, se Dio vuole, non è poeta “sperimentale”, ma introverso». ( P.V. Mengaldo, Op. cit. pag. 435)[22] Verbale, pag. 72.[23] È questa la conclusione a cui mi pare lui stesso sia arrivato in Non c’è più religione, Garzanti, Milano 2003.[24] Cfr.: «Se mi tieni la mano…» (pag. 13); «ci sei / ti ho visto» (pag. 16); «In Paradisum deducant te / angeli» (pag. 21); «un cuscino di legno» (pag. 22); «Le mie ultime volontà» (pag. 29); «Potestas interpretandi» (pag. 30); «La giustizia imputata» (pag. 32); «Vuoi essere tu solo a non amarti» (pag. 35); «Liberi tutti» (pag. 86); «Non hanno più vino» (pag. 101).[25] Cfr. risvolto di copertina di Verbale.[26] Nell’intervista del 2005 Ranchetti mi precisò che alla lettura di Wittgenstein e Freud, i due maestri che egli aveva cercato «al di fuori della professione di fede e di appartenenza religiosa», era arrivato «per caso, nel senso concreto del termine»: tramite un ebreo poi convertitosi al cattolicesimo o per il lavoro di traduzione dal tedesco delle opere freudiane trovato presso la Boringhieri. Nulla di simile era avvenuto Marx.[27] Verbale, pag. 26.[28] Verbale, pag. 28.[29] L’antivitalismo di Ranchetti mi pare di coglierlo in questi versi: mentre gli altri vivono / come immortali nel nulla una forza [?] cerca di persuadere tutti / qui e ora a morire / senza perdere tempo ancora a vivere (pag. 99). Oppure in questi: Vivo in una cassa / da vivo: morto / sarò risorto (pag. 60).[30] Verbale, pag. 39: : «Non si può immaginare / come del lungo itinerario resti / solo la fine».[31] P.V. Mengaldo, Op. cit. pag. 433.[32] Ancora Giudici nel risvolto di copertina di Verbale. Secondo me, il percorso di Rebora è inverso a quello di Ranchetti, tant’è che per il primo si conclude con il sacerdozio, mentre Ranchetti nella Prefazione di Non c’è più religione arriva a una conclusione antitetica: «Di fronte a queste autorità religiose e civili l’unica virtù che può forse recuperare un senso religioso alla vita, se mai un senso religioso fosse necessario, e non è affatto detto, è la disobbedienza “cieca e assoluta” perinde ac cadaver. Letteralmente. Forse il resto verrà da sé» (pag. 14).[33] M. Ranchetti, Scritti diversi, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1999.[34] Verbale, pag. 91.[35] Cfr. M. Ranchetti, Scritti in figure, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002.[36] Nel confrontare l’ombra della sua poesia con le mie nel 2001 in una poesia ho scritto: Su Ranchetti (leggendo La mente musicale e Verbale) M’intimidisce la poesia dell’uomo religiosoche il mondo s’è strappato dagli occhie conserva come incubo e reliquia in lingua morta. Ho praticato da bambino altri eremitaggiquasi addosso alla mortecon terrore di fiabe contadine sulla pelle però:sempre incomprensibile mi fu il latino dei preti. Dagli esili in séuscii esplodendo in quotidiani ora dimenticati.

Ennio Abate, L’ombra in poesiaultima modifica: 2008-03-19T10:16:14+01:00da mangano1
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