Olivier Razac, Storia del filo spinato

ac1d01beca612b3068b89ca1ab51671c.jpgOlivier Razac, Storia politica del filo spinato ( La prateria, la trincea, il campo di concentramento)Edizione ombre corte, Verona, 2001, Tracce 1 , pag. 96, dim. 110x180x7 mm , Isbn 978-88-87009-17-0Pagina 9 ( Introduzione )Vecchio più di un secolo, il filo spinato è stato, e continua ad essere, largamente utilizzato quasi ovunque: attorno ai campi e ai pascoli in campagna, in città, sui muri o i cancelli delle fabbriche, delle caserme e delle abitazioni di famiglie preoccupate. Ma è utilizzato anche altrove: lungo le frontiere nazionali, sui campi di battaglia o per sorveghare uomini da far sopravvivere, da rispedire ai loro paesi, da uccidere.Eppure non sembra particolarmente sofisticato questo oggetto della tecnica, perfino elementare, al più basso grado del genio meccanico. In un secolo di folgorante progresso tecnologico, mentre nell’arco di dieci anni la potenza di un computer diventa insignificante e una quantità di oggetti superati ingombrano le casse della modernità, il filo spinato è rimasto pressoché invariato dalla sua prima comparsa. Il fatto è che continua a essere sufficientemente efficace per ciò che gli si chiede, ovvero delimitare lo spazio, tracciare sul suolo le linee di una divisione attiva.In effetti, la perfezione di uno strumento di potere – in questo caso di uno strumento di iscrizione spaziale delle relazioni di potere – non si misura tanto in base alla sua raffinatezza tecnica quanto per la sua perfetta adeguatezza economica. I migliori dispositivi di potere sono quelli che consumano la minor quantità di energia possibile, materiale e simbolica, per produrre determinati effetti di controllo o di dominio. Questa efficienza può essere perfettamente raggiunta impiegando oggetti molto semplici e sobri, come il filo spinato, perché la povertà tecnica lo rende precisamente uno strumento economico e flessibile, adattabile a ogni tipo di dispositivo.Ma il fatto che il filo spinato abbia da sempre successo non significa che sia tuttora il punto tecnologicamente più avanzato di gestione dello spazio. Ora, si sta delineando una tendenza che consiste, per il potere, nell’investire lo spazio nella più grande discrezione. Ma è poi così nuova questa tendenza? In effetti, già il filo spinato corrispondeva a un ridimensionamento del potere rispetto alla consistenza materiale della pietra e alle separazioni massicce. Ma facendo questo annunciava il suo superamento, il tempo in cui anch’esso sarebbe stato troppo vistoso e pesante, rimpiazzato da tecniche più leggere, di controllo dello spazio attraverso dispositivo più furtivi. Con dispositivi che tracciano confini immateriali, non di legno, pietra o metallo, ma di luce, onde e vibrazioni invisibili.Pagina 111.Tre momenti storici fondamentati Il filo spinato è ovunque e, dopo la sua invenzione, è stato utilizzato in tutto il mondo, in tutti i modi possibili e con obiettivi diversi, perfino opposti. E per questo che la sua storia sembra a prima vista frammentata e la sua presentazione potenzialmente caotica.Non si tratta dunque di fare la storia del filo spinato, seguendone le apparizioni dopo la sua invenzione. Si tratta piuttosto di cogliere quelle occorrenze del filo spinato che hanno chiare e significative implicazioni politiche. Da questo punto di vista, tre manifestazioni storiche possono essere considerate paradigmatiche: la prateria americana, la trincea della Grande Guerra e il campo di concentramento nazista.In questi casi, infatti, l’impiego del filo spinato è puro. Non è semplicemente aggiunto ad altri elementi, come quando è teso su un muro, ma è l’elemento essenziale del materiale utilizzato per produrre una deternúnata delimitazione.In questi tre casi, inoltre, il suo uso supera di gran lunga la sua vocazione primaria (agricola). Ha, ìnfatti, una portata direttamente politica che partecipa attivamente a tre disastri: alla eliminazione fisica e all’etnocidio degli Indiani d’America, all’assurdo bagno di sangue della guerra moderna e, al centro della catastrofe totalitaria, ai campi di concentramento e al genocidio di ebrei e zingari. L’America: recintare ta prateriaLinvenzione del filo spinato e la conquista del West. – Il 1874 è una data oscura e tuttavia di decisiva importanza nella storia degli Stati Uniti. Un colono dell’Illinois, J.-F. Glidden, ottiene il brevetto per l’invenzione del filo spinato. Non è il primo ad aver cercato in questa direzione, ma la sua invenzione presenta importanti vantaggi tecnici. Non si tratta, tuttavia, che di due fili di ferro e di una serie di spine, fatte con pezzi di filo di ferro ritorto e tagliato obliquamente alle due estremità. In un primo tempo, Glidden si era accontentato di stringere ogni spina su un filo centrale, ma rapidamente la stretta si allentava e le spine si spostavano lungo il filo. È allora che ebbe l’idea geniale di rinforzare il suo dispositivo attorcigliando un secondo filo attorno al primo e alle sue spine. In questo modo venivano bloccate le spine e l’insieme risultava molto più resistente.Pagina 38Il filo spinato fa parte anche di un insieme di temi estetici ricorrenti, immagini del disastro incise nella memoria dei combattenti, del paesaggio laminato e dei corpi dilaniati. L’aspetto desolante della campagna arata dalle granate suscita descrizioni che, ben più che semplicemente deplorare la devastazione, tentano di far apparire il sublime, pur mostruoso, dello scatenamento della tecnica moderna. Attraverso i crateri e il fango della no man’s land, gli alberi sradicati e i villaggi cento volte rasi al suolo, si svela l’essenziale disumanità del mondo industriale, la sua potenza di distruzione, di fronte alla quale l’individuo ormai soverchiato è colto da stupore. La no man’s land diventa un'”opera d’arte” per e attraverso colui che la contempla e la descrive, e il filo spinato un elemento essenziale di questo quadro da incubo. “Guardo dalla feritoia. Nella vaporosa atmosfera livida prodotta dalla meteora, distinguo i picchetti in fila e le sottili linee di filo di ferro spinato che si incrociano da un picchetto all’altro. Davanti alla mia vista, come tratti di penna, scarabocchiano e cancellano il campo pavido e bucato”.Ma la no man’s land non è deserto. È popolata da persone agonizzanti, da cadaveri e da brandelli di cadaveri. C’è un’immagine ricorrente, quella del corpo, vivo o morto, preso e aggrovigliato tra i fili spinati. “Quelle canaglie che scrivono di guerra, ah, raccontano belle storie. Morire al sole, ma di cosa parlano!… Vorrei prorio vederne crepare uno con la gola squarciata tra i fili spinati per chiedergli se apprezza il paesaggio”. Il cadavere impigliato nel filo spinato è sotto gli occhi di tutti e annuncia così cosa spetta al popolo delle trincee, amico o nemico. A volte questa visione è così disperante che alcuni soldati rischiano la propria vita per disimpigliare i loro compagni. “C’è uno dei nostri ufficiali appeso ai fili spinati tedeschi, sono stati fatti numerosi tentativi per recuperarlo, e molti uomini coraggiosi vi hanno perso la vita”. L’immagine di un corpo mutilato che marcisce sulla rete, come catturato da una ragnatela, mostra al soldato quanto assurda e patetica sia la sua situazione. “Centinaia di morti, molti della trentasettesima brigata, erano sparpagliati come i resti di un naufragio. La maggior parte era morta sul territorio e sulla rete dei fili spinati nemici come dei pesci presi in una rete. Pendevano in posture grottesche. Alcuni sembravano pregare; erano morti in ginocchio e il reticolato aveva impedito la caduta”.Pagina 43All’interno dei fili spinati: la desolazione organizzata. – Alla mostruosità dei campi ci si può av- vicinare in due modi distinti, tra loro non contraddittori: come al fondo di una voragine, luogo delle più inimmaginabili torture; come a una città che forma un universo, luogo di istituzione della società più radicalmente totalitaria. Nel primo caso, l’attenzione non è rivolta all’architettura del campo né al suo significato come spazio politico, ma agli atti estremi, che superano l’immaginazione. Allora la cinta di fili spinati, come tutto ciò che costituisce materialmente il campo, diventa secondaria. Nel secondo caso, la dimensione politica dei campi passa in primo piano. I campi non sono buchi neri, ma la realizzazione materiale del sogno totalitario, una società del dominio totale. Allora l’architettura di un campo non è indifferente. Al contrario, essa è l’organizzazione totalitaria dell’ambiente. Nei campi, il filo spinato è lo strumento dell’organizzazione differenziale dello spazio, della separazione delle soglie della gerarchia concentrazionaria. In primo luogo, ovviamente, la recinzione separa radicalmente il campo dalla società “normale”. “Da ogni parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva dei filo spinato che ci segrega dal mondo”. Chi entra in un campo deve dimenticare tutto ciò che ha conosciuto. Se vuole sopravvivere, deve capire subito che i valori sui quali fondava il suo comportamento non hanno più corso, che qui circola un’altra moneta. Deve capire che qui “tutto è possibile”.Primo Levi racconta che il giorno del suo arrivo ad Auschwitz cercava di placare la sua sete insaziabile succhiando un ghiacciolo staccato dal bordo di una finestra, quando un kapo si precipita e glielo strappa di mano. Quando gli chiede perché (“Warum?”), il kapo risponde, sintetizzando così l’altro mondo che è il campo, “Hier ist kein warum” (Qui non c’è perché). Ugualmente, a Buchenwald, un gruppo di nuovi arrivati mostra al kapo la condizione di un compagno, designato a un trasporto che gli sarebbe sicuramente stato fatale. Il kapo, sogghignando, risponde senza cattiveria, “Qui non ci sono malati, ma solo dei vivi e dei morti”.La pedagogia del “tutto è possibile” comincia sempre con “Qui…”, cioè all’interno dei fili spinati. Per i detenuti si tratta di spiegare al nuovo arrivato, che ancora possiede la carne e il volto di un essere umano libero, le manifestazioni dell’arbitrio delle SS che presto gli faranno perdere sia l’una che l’altro. Si tratta di spiegargli che dal momento in cui si trova dietro i fili spinati non è più un essere umano, ma e anche meno di un animale, semplicemente un corpo, una testa (Kopf), un pezzo (Stück), destinato, nei migliori dei casi, a morire lentamente.Pagina 49Il filo spinato: simbolo della reclusione estrema. – Immaginiamo… Una foto in bianco e nero che raffigura in primissimo piano un semplice pezzo di filo spinato. Pensiamo forse al recinto di un campo? No, ovviamente. Il filo spinato in quanto tale, non è più un accessorio agricolo. Per pensare a un campo, bisognerebbe che ci fosse una mucca o una pecora dietro a quel filo spinato. Per alludere all’internamento, invece, non è necessario raffigurare un prigioniero. Da solo, il filo spinato basta a evocare il campo di concentramento o di prigionia e in generale l’oppressione. È diventato un simbolo, condensa in una evocazione grafica o testuale schematica un insieme di raffigurazioni che lo superano in quanto semplice oggetto. Attraverso un’accumulazione storica è diventato una metafora della violenza politica che collega i disastri moderni: l’etnocidio degli indiani, la carneficina del 1914-’18 e gli stermini nazisti. Come disse Primo Levi, dopo la liberazione da Auschwitz: “La libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l’immagine concreta”.Pagina 75Il filo spinato sembra così dimostrare che i problemi moderni di gestione politica dello spazio possono essere risolti solo attraverso un alleggerimento del segno che delimita e una intensificazione dell’azione che respinge. È pressoché finito il tempo delle separazioni pesanti, sono troppo vistose e offrono troppi pretesti. Con il passaggio progressivo dal fisico del recinto all’ottico della sorveglianza, il controllo dello spazio si fa discreto e interattivo. Rovesciare il gioco delle visibilità: furtivamente si poteva attaccare una barriera visibile; ora è il limite che si sottrae agli sguardi e alle mani di chi cerca di superarlo e, sorpresi, si resta in piena luce, esposti alla reazione.L’innovazione del filo spinato è già un farsi virtuale del limite spaziale, perché privilegia il leggero sull’imponente, la velocità sulla staticità, la luce sull’opacità e il potenziale sull’attuale. Virtualizzare qui non significa rendere meno reale, ma operare un trasferimento dai dispositivi di potere materiali e statici ai dispositivi energetici e informazionali dinamici. Invece di concentrare una grande quantità di energia sotto forma di torri e mura, il potere moderno tende a creare dei dispositivi mobili che agiscono, e dunque consumano, solo quando è necessario. Virtualizzazione non significa minore controllo dello spazio. Al contrario, l’alleggerimento della presenza in atto delle separazioni va a diretto vantaggio della capacità operativa del potere, cioè della sua potenza.Il filo spinato può dunque essere considerato come un punto fondamentale di una storia del farsi virtuale della gestione politica dello spazio. Il simbolo del potere rappresentato dalla capacità di chiudere gli spazi, di ostruirli con prepotenza, tende a indebolirsi, cioè a divenire l’immagine negativa di una sovranità brutale che privilegia i simboli del dominio piuttosto che gli strumenti dell’efficacia. Ma a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, anche il filo spinato comincia ad apparire come una tecnologia pesante, arcaica, e soprattutto come un simbolo quasi universale dell’oppressione. RiferimentiAdams, J.O., Eleventh Annual Report of the Board of Agriculture for the Year 1881, New Hampshire, 1984.Agamben, G., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995Antelme, R., La specie umano, trad. it. di G. Vittorini, Einaudi, Torino 1996.Arendt, H., Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Bompiani, Mflano 1978.Badia, G. a cura di), Les barbelés de l’exil, PUG, 1979Barbusse, H., Le Feu. Journal d’une escouade, Flammarion, Paris 1965.Bellour, R. (a cura di), Il Western. 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Olivier Razac, Storia del filo spinatoultima modifica: 2008-03-19T18:46:26+01:00da mangano1
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