Ida Dominianni, Passare il confine

8c29ae401745bd90fc75fa7c3dcf061c.jpgda IL MANIFESTO Passare il confine. Dello stato e dell’ioIDA DOMINIJANNIChe cosa vuol dire il continuo innalzamento di muri, da quello israeliano nella West Bank a quello fra la California e il Messico a quello di via Anelli a Padova, in un’epoca che aveva visto nel crollo del Muro di Berlino l’annuncio di un mondo senza confini? A quale forma della sovranità e della legge corrispondono questi muri eretti da stati nazionali in conclamata crisi di sovranità e di legalità costituzionale? Perché consideriamo tollerabile la violenza della guerra legittimata dagli stati, e inorridiamo di fronte alla violenza dei kamikaze contro la guerra? Perché proviamo repulsione morale di fronte alla distruzione di certe vite, e di fronte alla distruzione di certe altre troviamo invece forme di giustificazione? In che rapporto stanno la distruttività, l’interdipendenza e la sopravvivenza? Partiranno da queste domande le due conferenze che Wendy Brown e Judith Butler terranno il 27 marzo all’Università Roma Tre (aula magna della Facoltà di Lettere e Filosofa, dalle 9 alle 18).. Per la prima volta in Italia, le due filosofe femministe americane parleranno di «sovranità, confini, vulnerabilità» in una prospettiva incrociata sulle trasformazioni del politico e della soggettività politica. La globalizzazione, la guerra, la decomposizione del Politico moderno non sono solo la cornice storica della nostra esistenza, né si limitano solo a condizionarla o a piegarla. Ne va di qualcosa di più: del modo in cui queste trasformazioni riscrivono le condizioni di pensabilità della vita e della morte, la percezione del corpo, la definizione di chi siamo «noi» e chi sono «gli altri», del legame che ci unisce e del confine che ci separa; e ancora, i nostri criteri morali, e perfino la qualità dei nostri sentimenti primari. Riconfigurazione del politico e riconfigurazione dell’umano riverberano una sull’altra. Il tema dei confini si presta particolarmente a questa analisi incrociata del Politico e dell’umano: non solo perché è da lì che passa sia la favola bella della globalizzazione (libertà di circolazione, flussi, potenza del virtuale) sia il suo prosaico risvolto securitario e gerachizzante (politiche di difesa, esclusione e sorveglianza, controllo delle migrazioni). Ma anche perché sia lo Stato sia l’individuo moderni sono costruiti su una certa idea della spazialità, e le loro trasformazioni oggi risentono delle trasformazioni di questa idea. Infine, perché sulla questione dei confini si gioca buona parte sia delle performance sia del potere performativo dello Stato, con tutti gli sconfinamenti fra immaginario e reale che questo comporta. Si può scoprire così, sul versante del Politico, che dietro la performance di potenza messa in scena dal continuo innalzamento di muri non c’è, argomenta Wendy Brown, un ritorno della sovranità e della legalità statuale, ma viceversa la crisi della sovranità, la rottura emergenzialista del costituzionalismo, una relativa impotenza della governamentalità. E sul versante dell’umano, che la costruzione del soggetto impermeabile, inattaccabile, invulnerabile, «confinato», attivamente prodotta e mediaticamente corroborata dal nazionalismo americano post-11 settembre, è fatta apposta per rimuovere la vulnerabilità che tutti ci accomuna e i vincoli di interdipendenza reciproca che definiscono la nostra stessa possibilità di sopravvivenza. Quali spazi si aprono allora, per il pensiero critico e per l’azione politica, se valutiamo quello che i nuovi muri lasciano filtrare sotto i loro proclami difensivi e repressivi? O se prendiamo coscienza di come il discorso ufficiale sulla guerra e il terrorismo lavora, sostiene Butler, per rendere giustificabili gli impulsi distruttivi del popolo americano, e impensabile la sua stessa vulnerabilità? O di come esso prefigura e regola i nostri criteri morali nel giudicare la violenza? O di come la retorica della sovranità politica e della sovranità dell’io concorrono insieme a bloccare l’apertura a una nuova necessaria relazionalità, umana e politica, intersoggettiva e globale? Lettrici e lettori del manifesto conoscono già, non solo dai suoi libri (Vite precarie in particolare), ma da alcuni suoi diretti interventi su queste pagine nell’imminenza della guerra in Afghanistan e in Iraq, la passione politica con cui Judith Butler ha indirizzato il suo lavoro filosofico dall’11 settembre in poi, convogliando sull’analisi dello statuto dell’umano, della precarietà delle vite, della vulnerabilità dei corpi, della dipendenza dagli altri dell’io, la sua precedente ricerca sul rapporto fra soggettività, norme e violenza che attraversa come un filo rosso il suo lavoro, da Scambi di genere a Corpi che contano a Critica della violenza etica a La disfatta del genere. Per quanto la sua recezione prevalente la inchiodi al successo planetario di Gender Trouble (tradotto in venti lingue e ripubblicato nel ’99 con una introduzione che ne ridiscute i presupposti) e alla svolta anti-identitaria meritoriamente introdotta da quel libro nel femminismo e nei movimenti omosessuali angloamericani, ma solo arbitrariamente trasferibile nel contesto italiano, Butler si è ridefinita nell’ultimo decennio per il suo cruciale contributo al ripensamento dell’ontologia politica contemporanea, che la sua precedente ricerca sul genere aiuta ma non esaurisce. E per quanto una certa (ma dubbia) lettura di Gender Trouble abbia diffuso in passato un’interpretazione «euforica» della sua concezione post-identitaria e queer della soggettività, Butler si connota sempre più evidentemente come una filosofa del negativo, nella cui visione non a caso l’incombenza della vulnerabilità e della morte, della violenza e del lutto hanno un posto di enorme rilievo. L’incrocio costante fra prospettiva propriamente politica (come nel recente Who songs the Nation State?, scritto con Gayatri Spivak), etica (Critica della violenza etica) e psicoanalitica (La vita psichica del potere) ne fa una pensatrice geniale e complessa, irriducibile a scuole o schiaramenti, anche se proprio per questo soggetta, come lei stessa osserva in una recente intervista (Judith Butler in Conversation, Bronwyn Davies), a giochi di appropriazione e spossessamento – peraltro serenamente accettati, in coerenza con la sua concezione «spossessata» e dislocata del soggetto. A sua volta Wendy Brown, non ancora tradotta in italiano ma anche lei ben nota nella comunità scientifica internazionale, è una pensatrice politica altrettanto radicale e altrettanto radicata nel pensiero e nel movimento femminista (risale al 1988 il suo Manhood and Politics: A Feminist Reading in Paolitical Theory). Studiosa appassionata della libertà e del potere, analista acuta dei paradossi della tolleranza in Regulating Aversion, e in States of Injury delle dinamiche di attaccamento alle ferite subite e di risentimento che condizionano la soggettività degli oppressi, si è dedicata più di recente all’analisi degli effetti devastanti del paradigma di razionalità politica neo-liberista sulla democrazia liberale ( Neo-liberalism and the End of liberal Democracy) e alla ricerca sulla crisi della sovranità nazionale, legandola al riemergere della potenza materiale e simbolica della sfera economica e di quella teologica dalle rovine dell’ordine di Westfalia (nel saggio Sovereignty and the Return of the Repressed). Ma intercetta la sensibilità politica italiana pure per i suoi preziosi interventi sulle ripercussioni sulle ideologie rivoluzionarie della fine del senso progressivo della storia (Politics out of History), e sulla malinconia e i lutti non elaborati della sinistra occidentale dopo l’89, di cui parla appassionatamente anche nell’intervista qui a fianco. Entrambe docenti all’università della California di Berkeley, entrambe iscritte nel campo del pensiero post-strutturalista (che hanno più volte difeso da attacchi conservatori di destra e di sinistra) ma con un solido radicamento Butler in Hegel, Brown in Marx, entrambe in costante dialogo con una genealogia che comprende Nietzsche, Foucault, Derrida, la Scuola di Francoforte, Freud, Lacan e le principali esponenti del pensiero femminista francese e anglosassone da Irigaray e Kristeva a Spivak e Jessica Benjamin, le due filosofe si possono a buon diritto considerare due figure ponte fra il pensiero europeo continentale e quello americano. La loro ricerca trova un facile terreno di incontro con quella parte rilevante della ricerca filosofico-politica italiana, femminile e maschile, che lavora per riconvertire la base identitaria della politica moderna nella prospettiva della differenza (ne ha scritto di recente su queste pagine Giacomo Marramao, che è fra gli organizzatori dell’incontro di Roma 3). Quanto al campo del pensiero femminista, chiuso da tempo il decennio cosiddetto «del soggetto» con le sue infinite, spesso mal poste e qualche volta sterili polemiche fra paradigma del gender e paradigma della differenza sessuale (istruttivo, su questo punto, il dialogo a distanza fra Judith Butler, in La disfatta del genere, e Rosi Braidotti, in In Metamorfosi), i tempi sono maturi per una riconsiderazione dell’elaborazione sedimentata a partire dai suoi esiti politici e dalle prospettive teoriche e pratiche che apre. Su questo piano, che è quello che conta, svariati sono i terreni di dialogo fra le due filosofe di Berkeley e il campo plurale del pensiero della differenza italiano (dialogo peraltro già ampiamente praticato, in varie sedi, tra Judith Butler e Adriana Cavarero, soprattutto sulla questione della vulnerabilità e della relazionalità del soggetto). La critica del legalismo giuridico, cara alla ricerca di Wendy Brown quanto alla nostra; la decostruzione del soggetto «autonomo» moderno e la sua riconversione nel soggetto consapevole della sua interdipendenza; la ricerca di pratiche di risignificazione che incidono sull’ordine del discorso e della norma, che avvicinano in più punti il discorso di Butler alla «politica del simbolico» della comunità di Diotima, sono tutte questioni di interesse comune, pur nelle differenze, che restano, sulla teoria della sessualità, e pur se richiedono una necessaria opera di traduzione culturale fra contesti diversi, ancora tutta da fare. Non è del resto in quest’ottica di traduzione e sconfinamento, e non in quella della difesa di identità e confini, che anche il lavoro del pensiero deve orientarsi per essere efficace fra gli abitatori e abitatrici interdipendenti del mondo globale?

Ida Dominianni, Passare il confineultima modifica: 2008-03-26T17:47:53+01:00da mangano1
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