Il signor “G”

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Il primo gennaio di ormai 5 anni fa se ne andava, per sempre, Giorgio Gaber…Aveva appena compiuto 64 anni. Anticonformista e poeta in lui coesisteva il modo di “contestare” di Leo Ferré, la poesia di Brassens e la lucidità di Brel.
Di lui si può senz’altro dire che è stato uno spirito libero e critico che ha sempre affrontato con ironia, intelligenza e lucidità le contraddizioni del nostro tempo, sia quelle di carattere personale che quelle di carattere sociale. Gaber parla dei più svariati argomenti: famiglia, amicizia, sessualità, solitudine, amore, coscienza individuale, ma anche politica, economia, istituzioni, religione, mass-media, ecc.

Ma più che parlare di lui..lasciamo parlare lui..
“Il signor G” rappresentava (…) la sincerità. Io venivo da un mondo tutto diverso basato sulla logica dell’intrattenimento. Scegliendo il teatro ridussi ulteriormente il mio nome e creai una sintesi fra me e il personaggio. “Il signor G” – dove quella ‘G’ voleva anche dire “gente” – era un signore un po’ anonimo, un signore come tutti che però mi assomigliava, in bilico fra un desiderio di reale cambiamento e un inserimento nella società perché aveva già una sua vita adulta un po’ lontana da quella dei Sessantottini. Con ‘il signor G’ mi sono acquistato il grande privilegio di dire, di cantare in teatro quello che sono e quello che penso, al di là dei condizionamenti del mestiere dei quali prima risentivo
(Maria Grazia Gregori, “Storie del signor G”, L’Unità – Cabaret n.4 1996)

“…Guardo molto dentro me stesso: non è rabbia. È autoanalisi. Serve a farmi capire gli altri, ma anche serve a me per resistere all’omologazione imperante”
 (Si. Ro., “Gaber: ora sono un laureato del teatro”, La Stampa 1/6/1989)
 
Nel novembre del 1980 Gaber pubblica con una piccola etichetta indipendente, “Io se fossi Dio”, un ‘singolo’ di 14 minuti. La canzone, scritta in seguito all’uccisione di Aldo Moro e pubblicata più tardi per ragioni di censura, è concepita come un violento esplicito pamphlet contro il grigiore della scena italiana contemporanea.

Io se fossi dio
(e io potrei anche esserlo, se no non vedo chi)
io se fossi dio non mi farei fregare
dai modi furbetti della gente non sarei mica un dilettante
sarei sempre presente
sarei davvero in ogni luogo a spiare
o meglio ancora a criticare appunto cosa fa la gente.

Io se fossi Dio
naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente
nel regno dei cieli non vorrei ministri
né gente di partito tra le palle
perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
che poi è un gioco di forza ributtante e contagioso
come la lebbra e il tifo
e tutti quelli che fanno questo gioco
c’hanno certe facce che a vederle fanno schifo
che sian untuosi democristiani
o grigi compagni del Pci.
Son nati proprio brutti
o perlomeno tutti finiscono così.
Io se fossi Dio
dall’alto del mio trono
vedrei che la politica è un mestiere come un altro
e vorrei dire, mi pare Platone
che il politico è sempre meno filosofo
e sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
che scivola sulle parole
anche quando non sembra o non lo vuole.
 
“…. Certe volte mi chiedo perché non me ne resto più tranquillo, perché non mi metto a scrivere cosette rasserenanti, magari gioiose. Poi mi guardo intorno, vedo che ci stiamo tutti abituando al grigiore, alla piattezza, alla rassegnazione, e mi accorgo che il mio compito, il mio lavoro, è quello di dire le cose che gli altri non dicono. Le cose che voi giornalisti non avete più il coraggio di scrivere. Vorrei sapere, per esempio, perché fino a qualche anno fa si poteva parlare liberamente di Moro, dicendo che anche lui è responsabile del disastro in cui ci troviamo, mentre oggi non si può più. La retorica ufficiale, la pietà istituzionale, ci impediscono di avere reazioni spontanee, umane. Anche di provare pena, dolore (…). Cercheremo di spiegare che questa voglia di Dio è soprattutto una voglia di avere una spinta, un desiderio morale. Voglia di credere, voglia di esistere. Non ci interessa collocarci al di là del bene e del male, come quei nostri amici che ascoltando “Io se fossi Dio” ci chiedevano: ma chi ve lo fa fare? Perché prendersela tanto? Loro pensano che non sia il caso di indignarsi. Che va bene tutto. E invece no: va bene un cazzo. Se non si lotta per cercare una ragione, per inseguire la chiarezza, tanto vale crepare. Anch’io mi diverto molto a giocare a palla. Ma per due ore al giorno, non per dodici.
(M. Serra, “Giorgio Gaber. La canzone a teatro”, il Saggiatore, Milano 1982)

“…..Affronto l’oggi con tutti i suoi problemi, gli stessi problemi che appartengono a ognuno di noi, giovane o ex giovane che sia. Rifiuto e combatto questa volgarità dilagante. Racconto il disgusto generale, la difficoltà di dar battaglia al nemico, perché non esiste più un nemico immediatamente identificabile. Il nemico è ormai dovunque, anche dentro di noi. E per meglio individuarlo, bisogna inventarsene uno. Magari un topo.”
(A. Pieracci, “Signor Gaber, mi manda papà”, La Stampa 18/4/1989)
 
“….da diciotto fino a trent’anni, io ho fatto il lavoro del cantante. Poi mi sono stancato di accettare qualsiasi cosa, e ho detto basta… Questo lavoro qui, il mio lavoro, ci sono diversi modi di farlo. Ci sono quelli che lo fanno per un fortissimo bisogno di esibirsi, non solo sul palcoscenico, ma anche nella vita. Io non ce l’ho, questo bisogno. Io, spesso, preferisco stare zitto che parlare e mostrarmi. L’applauso? Ci mancherebbe che non mi piacesse… Io, tutte le sere che vado sul palcoscenico, parto basso, mi mancano le energie, poi arriva l’applauso, ed è come se all’improvviso le energie ritornassero: l’applauso è l’annuncio in arrivo dalla platea che quel tipo di comunicazione che vado cercando da sempre, e che è la ragione del mio lavoro, è avvenuto. Per anni tutti i lunghi anni in cui ho continuato a non sapere cosa avrei fatto da grande, è questo applauso, questa avvenuta comunicazione tra me e la platea, che mi ha dato energia”.

A proposito dello spettacolo “Parlami d’amore Mariù”
“……………non mi pare proprio che sia così assolutorio e consolatorio: mette in scena l’atteggiamento isterico che è di tutti noi, oggi. Quell’atteggiamento isterico che è sempre stato riferito in modo spregevole al genere femminile, e che invece ha riguardato, sempre e oggi più che mai, tutti e due i sessi… Come si fa a pensare che sia consolatorio uno spettacolo sull’isteria? Se sei isterico, poni dei dubbi su tutta la tua vita: sul senso del pianto e del riso, dell’amore e dell’amicizia…”.

“…………… Parlami d’amore Mariù è una totale dichiarazione di impotenza e di impotenza sentimentale. Un rimpianto di una cosa che forse una volta, ai tempi dei nostri padri e delle nostre madri, chi sa, forse c’era”.

“… La loro vita aveva una trama, una continuità che la nostra non ha. Noi soffriamo di una crisi di identità sentimentale che loro non avevano”.

“………. Non so dei giovani di oggi: non lo conosco bene, il loro discorso. Mi par di capire che hanno da una parte la sfortuna della mancanza di grandi stupori e grandi ingenuità e dall’altra maggiori consapevolezze di quante non ne avessi io alla loro età. Come comunico, io con i giovani, che pure affollano sempre i miei spettacoli? Credo che ad attrarli al di là dei temi dei miei spettacoli, sia soprattutto la possibilità di uno scambio di energie…”.

Domanda il giornalista: “Se lo ricorda quando la definivano “qualunquista”, “il qualunquista più serio d’Italia”?
Sono gli stessi che adesso dicono che non sono impegnato… Qualunquista non è una parola che mi offende in modo particolare, si riferisce a una maniera di essere, che in certi anni mi è sembrata persino indispensabile: ha a che vedere con l’insinuare dubbi nelle troppe e pericolose certezze”.

Lei ha molto criticato il ’68. E adesso?
E adesso ho dei rimpianti. Il fanatismo di allora mi dava grande fastidio. Ma c’era anche un’ansia di conoscenza, che era bellissima. Non si ascoltava la televisione, perché c’era una voglia, un bisogno collettivo di controinformazione da assumere in maniera autonoma. C’era in giro una curiosità intelligente, che rimpiango moltissimo Prima sembrava che tutti potessimo essere compagni di strada. Adesso il salottismo, la chiacchiera, e la futilità dell’incontro”.
“…Dentro le nostre vite gironzola una certa accettazione di tutto e di tutti, una specie di quiete emotiva, dove il sentire, dove l’odio e l’amore, appaiono a tratti, e per la durata di un attimo. Ecco, probabilmente si vive di attimi di emozioni istantanee, di piccoli particolari, alcuni intensissimi, esagerati: ma forse tutto sommato è più facile piangere per una vecchia canzone, che per la disperazione di una persona che ci vive accanto”.

“.
Lei allora, o subito dopo, diceva “sono diverso e certamente solo”. E adesso?

“Adesso siamo soli tutti. Prima sembrava che tutti potessimo essere compagni di strada. Adesso vince il salottismo, la chiacchiera, e la futilità dell’incontro”.

(brani di interviste raccolte da E.Pozzi) 

 
http://duemilaragioni.myblog.it/media/01/02/bced1faf922d4ec9ade306f00d42f7a2.mp3

 

Il signor “G”ultima modifica: 2008-04-30T14:30:00+02:00da mangano1
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