Claudio Vercelli, Lo stato di Israele ha 60 anni

da < aermanoadl@datacomm.ch > ( L’avvenire dei lavoratori)
90d510505cf7f97752c287b412c33869.jpgDibattito – La sinistra e Israele

LO STATO D’ISRAELE
HA SESSANT’ANNI

di Claudio Vercelli

su < aermanoadl@datacomm.ch > ( L’avvenire dei lavoratori) la signora
VERA PEGNA era intervenuta con una critica del sionismo e dello stato di
Israele, risponde Claudio Vercelli.
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Qualche considerazione sull’articolo di Vera Pegna “Sionismo o pace: la
scelta è vostra” (ADL 28.4.08), tenendo ferma la legittimità dello Stato
d’Israele, che il 14 maggio compie sessant’anni. La sua nascita nel 1948 non
è l’esito di una «proclamazione unilaterale». Nessun paese si è formato
senza attriti con coloro che, a vario titolo, si opponevano alla sua
costituzione. Il vero problema, per i palestinesi non è quello di avere perso
uno Stato, che non hanno mai avuto, bensì quello di non averlo mai trovato.

Si può spiegare la nascita di uno Stato e, ancor di più, le ragioni per le quali
continua ad esistere? C’è un presupposto che renda legittima, una volta per
sempre, la sua presenza sulla terra, nel consesso internazionale? Perché tali
quesiti vertono sempre sull’azione e l’esistenza medesima di alcuni Stati –
uno in particolare – e mai sugli altri? Sono queste, tra le altre, le domande che
ci si pone leggendo l’articolo di Vera Pegna dedicato a Sionismo o pace: la
scelta è vostra.
Già il titolo, stabilendo un legame avversativo e una reciprocità inversa tra
ciò che viene definito «sionismo» (un complesso di fatti storici ma, soprattutto,
un insieme di condotte ripetute nel tempo, corroborate da convincimenti
ideologici basati sulla volontà di sopraffare) e una ipotetica pace (che si
darebbe in alternativa al sionismo medesimo), induce a riflettere su quale sia
l’indirizzo che l’autrice intende affermare fin da subito con le sue parole. Che
sono una cortese raccolta di luoghi comuni su Israele, irritante come lo sanno
essere quei giochi di carte, fatti da abili prestigiatori, che nel prometterci la
possibilità di una qualche vittoria ci defraudano anticipatamente di ogni reale
possibilità in tal senso.
Ancora una volta, se mai occorresse, ci troviamo dinanzi alla
manifestazione di quello che è un assunto di principio, un assioma tolemaico
tenacemente diffuso (Israele è un Stato abusivo), non molto diversamente da
come, fino al XVI secolo, per i più la terra era piatta. Se allora c’era una falsa
evidenza, derivante dalla percezione empirica, quella di poggiare i piedi su
una striscia piana e continua, oggi per certuni c’è l’inossidabile certezza che
Israele sia solo ed unicamente un’«entità sionista». La si desume, nella
lettura dell’articolo, dalla misura in cui il dato storico della nascita e della
crescita di una paese è ridotto alla concreta manifestazione di un «progetto»
(una intenzione preordinata non solo cronologicamente ma anche e
soprattutto logicamente), quello per l’appunto sionista, fondato sull’evidente
intendimento di disconoscere i diritti di chi ebreo non è. In tale volontà,
sostanzialmente razzista (come definirla, altrimenti?) si sostanzierebbe
l’intera parabola d’Israele, la sua intima ragione d’essere, il suo vizio
d’origine che si trasforma in torto d’esistere.

Tolomeo: “La Terra è piatta”

Dinanzi a tale premessa, così apodittica, qualsiasi obiezione rischia quindi di
cadere nel vuoto. La migliore strategia retorica per persuadere i lettori della
fondatezza di tale approccio è quella di citare, decontestualizzandoli, quegli
autori ebrei che, a vario titolo e per le più differenti ragioni, si sono espressi
contro il progetto di costituzione di una patria per gli ebrei. Poiché parliamo
non dello Stato ebraico (che non esiste, anche se è invalso il termine per
definire Israele), ma piuttosto dello Stato degli ebrei. Che è come dire che il
popolo d’Israele è tutt’altra cosa dal popolo israeliano.

Il secondo incorpora un criterio di cittadinanza (eluso deliberatamente da Pegna, che vuol fare
credere che via sia solo un percorso “esclusivista”) che poco o nulla a che
fare con il predominio della religione, mentre il primo demanda ad una
figurazione biblica, una ispirazione ideale e non un fatto sostanziale.
Ma procediamo con ordine. Non c’è bisogno di volare per i cieli della più
alta cognizione storica e della più impegnativa riflessione storiografica per
sapere che una parte del mondo ebraico – assai variegato in sé, allora come
oggi – si espresse, negli anni della formazione di una comunità nazionale
ebraica nella Palestina ottomana prima e mandataria poi (tra il 1881 e il
1948), con perplessità rispetto alla costituzione di un futuro Stato. Le
posizioni al riguardo, infatti, erano molte e tra di loro anche in netto contrasto,
per i più svariati motivi.
Gli ebrei residenti nei paesi dell’Europa occidentale, approdati
all’emancipazione individuale con la Rivoluzione francese, vedevano nel
percorso di integrazione liberale e borghese, vissuto in chiave individualista,
la via naturale alle libertà moderne. Per molti di loro, prima dello sterminio
nazista, si trattava di integrarsi ancora di più e meglio nelle società di origine.
L’ebraismo orientale aveva invece conosciuto un processo di profonda
politicizzazione collettiva, in consonanza con i movimenti sociali che stavano
attraversando l’Europa dell’Est: la dimensione dell’appartenenza comunitaria
da elemento di emarginazione era stato rielaborato nei termini di una nuova
potenzialità. Da far valere non contro qualcuno bensì a favore di qualcosa.
Non a caso il progetto sionista, più che “statocentrico”, demandava all’ideale
di un “nuovo ebreo”, costruttore del suo presente e titolare del proprio futuro.
Lo Stato entrava in gioco non come fine bensì come mezzo per
l’autorealizzazione, in una collettività di per sé sparsa e fragile. Piuttosto,
centrale era il discorso sulla nazione ebraica e sulla sua organizzazione. Su
questo obiettivo si muovevano quanti andavano riconoscendosi nel
movimento sionista, inserito a pieno titolo dentro la vulgata nazionalista del
secondo Ottocento (quella dei “Risorgimenti nazionali”, per intenderci) e
socialista (l’emancipazione attraverso il lavoro manuale).
Il sionismo politico, da questo punto di vista, adottava i medesimi criteri di
interpretazione della realtà fatti propri da quei soggetti politici che, un po’ in
tutta l’Europa, concepivano le trasformazioni sociali (in contesti di massa)
come interconnesse alla liberalizzazione dei processi di partecipazione
politica. L’integrazione collettiva doveva passare attraverso una comune
identificazione, quella offerta dalla idea e dalla prassi di nazione. La quale
era tale poiché depositaria di un rimando ad una qualche tradizione comune;
soprattutto lingua, costumi, religione. Poiché nel caso ebraico le differenze
sopravanzavano le identità, rimaneva come collante il richiamo ad una
concezione estensiva della religione, intesa come una dimensione unificante
su piano strettamente culturale.
Si può discettare quanto si vuole sulla plausibilità (e accettabilità) di tale
premessa, ma all’epoca tale costrutto era condiviso in molti ambienti
intellettuali e politici, ovviamente in campo non unicamente ebraico. Il
paradosso, solo apparente, stava nel fatto che il richiamo alla religione era
completamente avulso da qualsivoglia concessione alla religiosità. La quale,
di per sé, era estranea a qualsiasi progetto politico. Da ciò, ovvero da questo
“uso politico dell’ebraismo”, derivò quindi il sionismo, fenomeno di
spaccatura dentro al giudaismo medesimo, del quale disconosceva quegli
aspetti – peraltro i più rilevanti – che considerava quietistici e quindi antistorici.
Non si trattava di fare una nuova società di individui superiori: semmai si
poneva il problema di rendere gli ebrei eguali ai non ebrei, ponendo termine
a secoli di discriminazioni e persecuzioni. Ciò rinviava alla necessità di
diventare soggetti attivi della storia, costruendosene una propria. Ripetiamo:
era questo il solco prevalente nei nazionalismi dell’epoca, che sarà poi
ripreso anche dai movimenti anticolonialisti del Novecento.
Che questo passaggio dall'”orda alla nazione” si sia alimentato un po’
ovunque, quindi anche nell’ebraismo, di una rilettura mitologizzante dei
propri trascorsi (e che da ciò siano derivate soluzioni di opposta valenza, in
alcuni casi, come nel fascismo, di devastante regressività) è problema che
riguarda tutte le società nazionali, di allora come di oggi, e non solo Israele.
Ed è qui, infatti, che la tediosa ripetitività con la quale ci si concentra sempre
e solo su quest’ultima e sul suo vizio di principio – che si traduce nel fatto di
stesso di esistere – lascia estremamente perplessi e induce a ritenere che in
tale lettura strabica (che esclude con un colpo solo tutte le incongruenze che
ogni processo di national building porta con sé) sia tanto deformante quanto
inconcludente. Ne fa testimonianza un’altra spia linguistica, diffusa, che
traduce l’espressione Eretz Israel in «Grande Israele», quand’essa indica la
terra d’Israele, coincidente con i confini dettati dalla storia.
Che tutto ciò implichi, tanto più ai giorni nostri, la presa d’atto dell’esistenza
di un dibattito, apertosi allora e proseguito ancor oggi, pare evidente. Ma ciò
non può indurci ad omettere il fatto che Israele è lo Stato di coloro che vi
vogliono risiedere. Un conto è l’intenzione di ricomporre una diaspora,
vocazione ideale che demanda alla dimensione “ebraica” della stessa; altro
discorso sono i criteri con i quali si è stratificato, soprattutto per successive
ondate migratorie, l’equilibrio socio-demografico interno e le variabili
comportamentali e decisionali che hanno inciso nella sua composizione.
Israele è un paese assai poco omogeneo, estremamente diversificato,
attraversato da una molteplicità di faglie di differenziazione sul piano etnico,
culturale, sociale e così via.

Sotto il ritratto di Theodor Herzl, fondatore del sionismo politico, il primo
Presidente del Consiglio israeliano, David Ben-Gurion, proclama a Tel Aviv la
fondazione dello Stato d’Israele. E’ il 14 maggio del 1948.

Dalla confusione tra i due piani Vera Pegna, invece, fa discendere
immediatamente un viatico per la delegittimazione tout court di una società
che viene descritta come il prodotto artificiale di una volontà eterodiretta, il
«sionismo», per l’appunto, che governerebbe arcanum imperii la logica dei
fatti e la dinamica delle scelte. Dimenticando, inoltre, la cogenza dei fattori
regionali, a partire dalla conclamata ostilità dei paesi circostanti.
Liquidare poi la nascita d’Israele, nel 1948, come l’esito di una
«proclamazione unilaterale» è una affermazione priva di senso, che si
smentisce da sé. Intanto va detto che, in linea di principio, la nascita di una
nazione è storicamente sempre il risultato di una spinta di una parte, di contro
alle resistenze altrui. Non esiste nessun paese che si sia formato senza attriti
verso e contro coloro che, a vario titolo, si opponevano alla sua costituzione.
Basti pensare al processo di formazione degli Stati Uniti, sia con gli effetti
devastanti nei confronti delle comunità autoctone amerindie, sia con la
dissanguante Guerra di secessione che spaccò la popolazione in fronti
contrapposti. Oppure, in scala più modesta ma non meno tumultuosa, le
cosiddette «insorgenze» delle popolazioni del sud d’Italia contro
l’unificazione sabauda. Ma non è neanche questo il vero punto. Più volte si è
detto che la risoluzione 181 delle Nazioni Unite stabiliva la divisione in due
delle terre contese. Era questa l’unica, ragionevole soluzione praticabile. Va
però aggiunto che alla nascita dello Stato d’Israele, per parte ebraica,
corrispose la deliberata volontà, da parte araba, di non far nascere uno Stato
palestinese. I calcoli era chiari e inequivocabili: non solo l’«entità sionista» si
sarebbe disgregata sotto i colpi di maglio degli eserciti arabi ma nessuna
istanza nazionalista palestinese avrebbe dovuto avere un qualche
riconoscimento. Si dimentica quest’ultimo aspetto, che sta alla base delle
asimmetrie successive.
Da ultimo, ci sia concessa una digressione sul destino dei profughi.
L’apolidia, come segnalava Hannah Arendt, è la condizione peggiore nella
quale un essere umano abbia potuto trovarsi nel secolo, il Novecento, degli
Stati nazionali. Ma il vero problema, per molti (tra i questi i palestinesi) non è
quello di avere perso uno Stato, che non hanno mai avuto, bensì quello di
non averlo mai trovato. Ciò che rende l’individuo un profugo è non solo
l’abbandono dei luoghi natii bensì la mancata accoglienza in quelli di
approdo. Su questo capitolo, ad onore del vero, meriterebbe che si aprisse
una riflessione sulla politica degli stati arabi che scelsero allora di usare i
palestinesi come merce da baratto (e lo stesso continuano a fare oggi). Così
come sarebbe bene ricordare che all’abbandono delle proprie terre da parte
delle popolazioni arabe, a partire dal 1948, corrispose l’espulsione in massa
delle comunità ebraiche dai paesi arabi. Se una disgrazia non lava l’altra, va
comunque da sé che il destino dei secondi (l’integrazione, pur tra mille
difficoltà, in Israele) di contro alla dispersione dei primi è il nocciolo vero del
conflitto israelo-palestinese. Laddove alla volontà integrazionista di
Gerusalemme ha fatto sempre da risconto la calcolata indifferenza delle
capitali arabe.

Claudio Vercelli, Lo stato di Israele ha 60 anniultima modifica: 2008-05-05T19:15:00+02:00da mangano1
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