Predrag Matvejevic, Il pane zingaro

ANTICIPIAMO ALCUNE PAGINE DI UN’OPERA DEL GRANDE SLAVISTA
Il caffè illustrato n. – , aprile/maggio 2008
Il pane zingaro
di Predrag Matvejevic
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In alcune regioni i Romi formano la maggioranza dei mendicanti. Ma non godono di alcuno di quei privilegi che solitamente vengono concessi alle cosiddette maggioranze. Fanno fatica a dichiararsi Romi per non esporsi ai sospetti, all’avversione dell’ambiente in cui vivono, al disprezzo e perfino alle persecuzioni. La parola Zingaro è diventata offensiva, per cui essi stessi e i loro amici evitano di pronunciarla. Un volta non lo era…
I Romi hanno vissuto la loro scioah. Spesso si dimentica che furono sterminati a decine di migliaia nei campi di sterminio nazisti, insieme agli Ebrei. Il loro modo di vivere non è vietato dalla legge, ma sono sottoposti a stretto controllo. Non si sa con esattezza quanti siano i Romi residenti in ciascuno Stato. Sappiamo però che in alcuni sono numerosi, soprattutto nella Balcania. Ma un numero ancora più consistente di essi è “sempre in cammino”. Chissà da dove vengono o dove vanno. Ignoriamo se partono o tornano.
In Europa ce ne sono più di dieci milioni. Se si mettessero insieme formerebbero una popolazione più numerosa di quella di una mezza dozzina di Stati del nostro continente. Non hanno un proprio territorio ne un proprio governo.Hanno tutti un paese natale, ma non una patria. Sono parte di un popoio in mezzo al quale vivono, ma non una nazione. Non sono nemmeno una minoranza nazionale — sono transnazionali.
Arrivarono dall’Asia, sono discendenti di popolazione dell’India settentrionale. Fin dai remoti tempi dell’esodo, essi si distinguevano per tribù. Attraverso la Persia, l’Armenia, l’Asia Minore, videro ed impararono come si fa il pane. Questo cibo elementare, peraltro, non era sconosciuto ai loro lontani antenati.
Hanno portato con se dall’antica terra natia alcuni nomi propri, fra cui quello di Rom. Altri gli sono stati incollati addosso dagli estranei. Il termine Zingaro deriva del greco Athinganos. Gli Slavi del Sud li indicano con il termine ciganin, tsigan, tsio; in Inghilterra li chiamano gipsy da egytios, anche in Spagna, “per il colore bruno della loro pelle”. Sono detti anche Maneschi, Sinti, Gitani, Boemi. Un poeta croato di Dubrovnik, intitolò Je?upka – vale a dire Egiziana – un suo poema che ha per protagonista una bella Romina.

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(B. Bartok: sei danze popolari rumene)

I maschi si dedicavano spesso alle maestrie di fabbro, lavorando i metalli, costruendo attrezzi agricoli, coltelli e spade, ferrando i cavalli; all’allevamento e al commercio degli equini; ed alla musica suonando chitarre o violini per rallegrare o consolare gli innamorati, gli infelici e gli ubriachi. Le “ belle zingare” cantavano, danzavano e seducevano — ‘in alcune regioni lo fanno ancora. E fanno le indovine, senza dimenticare I”arte” antichissima dell’accattonaggio, tirandosi dietro, per mano, attaccati alla gonna, o portati in braccio i loro bambini.
Nella mia terra natale i Romi sembravano essere più numerosi che altrove. Da ragazzo mi univo spesso a loro. I miei genitori mi rimproveravano, temevano che gli “Zingari” mi rapissero portandomi via chissà dove – correvano le voci di rapimenti. Ma nessuna mi ha fatto male; invece ho imparato dai Romi molte cose utili. Essi imparano facilmente le lingue, forse più facilmente degli altri. Ignoro se nella loro vita di erranti riescono a conoscere la felicità, ma certamente sanno come si può essere meno infelici. Essi mi hanno aiutato ad ascoltare ed annotare parte del racconto che qui espongo.
I Romi hanno diversi termini per indicare il pane; il più frequente è marno che diventa poi manro, maro e mabno nelle varianti. La farina è arho, un nome che nella romanichila, la lingua dei Romi, non ha il plurale. E la cosa, forse, non è casuale. Il lievito si dice humer, la fame è bok, essere affamato è bokhalo — queste ultime due parole, si sentono spesso pronunciare. Ch’alo (si pronuncia: ciao) è sazio, panf è l’acqua, jag è il fuoco, lonm è il sale; mangiare si dice hav che è infinito e presente insieme. Conoscendo la povertà, la penuria e la ristrettezza, circondati da tante cose ma privati di quasi tutto, i Romi sanno ben distinguere ciò che è pulito (vujo) e quel che è sporco (mariame) non soltanto nel cibo ma anche negli usi e costumi.
Non si servono di ricette scritte su come si fa il pane o come si prepara qualsiasi altro cibo, ma conservano e si tramandano una lunga tradizione orale che passa da madre in figlia, di generazione in generazione. Il loro modo di vivere non gi permette di servirsi di forni per il pane, ma una focaccia si può cuocere anche sulle ceneri del focolare e la pitha (una specie di pizza) su una piastra di semplice latta. Sapeste come sono saporite le pagnotte e le focacce dei Romi!
Nei loro proverbi relativi al pane c’è molta saggezza. Ne ho notati alcuni nella lingua originale e li riporto perché se ne senta il suono; ne ho poi fatto la traduzione per farli capire.
Kana bi e ciorhe marena marnesa, vov bi lengo vast ciumidela — ‘Se il povero venisse bastonato con il pane, egli bacerebbe la mano di chi lo colpisce.”
O marno sciai so o Deveini kamel thai so a thagar nasc’tisarel — ‘Il pane può fare quello che Iddio non vuole e l’imperatore non riesce.”
Kana bi ovela ne phuo marno savorenghe, ciuce bi ovena vi e khanghira vi e krisa — ‘Se vi fosse pane sufficiente per tutti in questo mondo, le chiese e i tribunali andrebbero deserti.”
Te si marne thei nai biuze, na bi trebela rugipe – “Se ci fosse il pane e non ci fossero i furbi, le preghiere sarebbero inutili.”
O bokhalo dikhel suno e marne, o barvalo dikhel sunope sune — L’affamato sogna il pane, il ricco sogna i propri sogni.”
Una giovane zingara, allattando il suo bambino al seno, mi recito quanto trascrivo di seguito, nella sua lingua: una breve canzone dedicata al pane. Me ne fece anche la traduzione. Il titolo è Marno, semplicemente:
“Pane”.
I voghi e iaggiuvdarel, / i pani o arko bairarel. O humer i dai longiarel / thaipeske ilesa gudgliarel, gudio thai baro te ove1, /pire c’havoren te ciagliarel.
Ed ecco la traduzione, purtroppo senza la fisarmonica e il tamburello:

“Il soffio ravviva il fuoco,
con l’acqua si gonfia la farina.
La mamma versa il sale nella pasta, la insapora con l’anima sua
perché il pane sia dolce ed abbondante e nutrisca i suoi bambini.”

L’uomo non nasce mendicante, ma lo diventa. E non 1o diventa soltanto di propria volontà. L’accattonaggio è l’ammonimento agli uomini veri e alle fedi sincere: a quelli chiamati a dare a ciascuno il pane, a coloro che non dovrebbero dimenticare la carità. Le armi e le guerre costano molto di più del pane. Gli antichi profeti consigliarono, invano, di sostituire la lancia con il vomere. I Romi non possiedono terre da arare. Ed oggi è per loro più facile mendicare, e talvolta, anche un po’ rubare. Domani, forse, non sarà più così. «Non dovrebbero essere così» dice il vecchio zingo, come una volta lo chiamavano nei Balcani, usando termini vezzeggiativi.

Traduzione di Giacomo Scotti

Illustrazione dì Gastone Mencherini

Predrag Matvejevic, Il pane zingaroultima modifica: 2008-05-20T13:35:00+02:00da mangano1
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