Francesco Lamendola, La critica della vita quotidiana in H.Lefebvre

de5cf34f6e7d664e4d57d395b3306726.gifCritica e trasformazione della vita quotidiana nei «possibili» di Henri Lefebvredi Francesco Lamendola – 11/06/2008Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] Più interessante come pensatore e più significativo per una critica dei miti borghesi dello sviluppo e del progresso è, rispetto a Louis Althusser di cui ci siamo recentemente occupati (cfr. F. Lamendola, L’ideologia, per Luois Althusser, interpella gli individui in quanto soggetti, consultabile sul sito di Arianna Editrice) è, a nostro parere, Henri Lefebvre, straordinario esploratore delle deviazioni, e dei possibili rimedi, delle forme della vita quotidiana.Nato a Hegetmau, in Guascogna, nel 1901 e morto a Pau, nei Pirenei, nel 1991, Lefebvre aveva aderito al Partito Comunista francese nel 1928, dopo aver subito, da giovane, il fascino dell’anarchismo, ancora relativamente forte nella Francia meridionale; e dopo aver intrattenuto profucui e intensi rapporti con alcuni esponenti del movimento surrealista. La sua militanza nelle file comuniste era durata quasi un trentennio, concludendosi nel 1956, allorché venne espulso per aver protestato contro l’invasione sovietica dell’Ungheria.Fu una vicenda, quella della sua espulsione, penosa e, per alcuni aspetti, anche paradossale. In realtà, già da qualche tempo Lefebvre, che aveva particolarmente messo in rilievo il ruolo dell’alienazione nei Manoscritti marxiani, era sospettato di tendenze revisionistiche dai vertici del Partito. La vicenda ungherese fu l’occasione per un chiarimento definitivo: ma è alquanto significativo il fatto che proprio Roger Garaudy, uno dei suoi massimi accusatori e dei più convinti sostenitori dell’adesione incondizionata al materialismo dialettico, così come era interpretato dai filosofi del PCUS (e del PCF), dopo il XX Congresso del PCUS – in cui Krusciov denuncerà i crimini dello stalinismo – si sarebbe fatto interprete dell’esigenza di un profondo rinnovamento del marxismo, a partire da libri come Dio è morto, del 1962, e Karl Marx, del 1965. Ma tutto questo è accaduto più volte, nella storia dei vari “revisionismi” del marxismo: ogni volta i primi sono stato “scomunicati” dai successivi, e così di seguito.Tra le opere più significative di Henri Lefebvre ricordiamo: La coscienza mistificata (1936); Il materialismo dialettico (1939); L’esistenzialismo (1946); Logica formale e logica dialettica (1947), primo volume di un’esegesi completa del pensiero di Marx; Critica della vita quotidiana (1947); Il marxismo (1948); Contributo all’estetica (1953); Problemi attuali del marxismo (1958); La somma e il resto (1959); Il diritto alla città (1968); La sociologia di Marx (1969); La fine della storia (1970). Più che i suoi studi sugli scritti economico-filosofici di Marx, che lo portarono ad interpretare il pensiero di questi rivalutandone quelle componenti giovanili – e, dunque, in una direzione diametralmente opposta a quella di Althusser, che, come abbiamo visto, parlava di una netta frattura fra il “primo” Marx, ancora ideologico, ed il secondo, ormai decisamente scientifico – , egli merita di essere ricordato per la sua proposta di una antropologia alternativa. Essa avrebbe dovuto fare leva su un aspetto della società che era stato piuttosto trascurato – e non solo nell’ambito della cultura marxista -, ossia le forme della vita quotidiana. Secondo Henri Lefebvre, è lì che si giocherà la partita decisiva fra la vecchia società e la nuova, quella socialista. In regime capitalista, la vita quotidiana svolge la sola funzione di riprodurre i meccanismi del dominio della classe borghese, inaridendosi e privandosi delle sue infinite potenzialità creative e libertarie.Fino a questo momento, la classe dominante ha potuto improntare di sé le forme della vita collettiva servendosi di una potente alleata: l’abitudine, caratterizzata da una temporalità inautentica, perché astorica (da un punto di vista marxista: da un altro punto di vista, ad es. religioso, la dimensione astorica è quella del sacro e, quindi, non sono non è inautentica, ma è la sola veramente autentica, di là dall’effimera mutevolezza del mondo). Come è magistralmente esposto in alcune pagine della critica della vita quotidiana, ad es. nel capitolo quinto, intitolato Note scritte una domenica nella campagna francese – che, sia detto per inciso, mostrano in Henri Lefebvre anche delle doti di scrittura non indifferenti -, le convenzioni e le menzogne del potere finiscono per alimentare e per sedimentare una sorta di opaco deposito chiamato quotidianità, che soffoca e inibisce le potenzialità inventive degli individui e delle comunità, i quali cercano invano di trovare la via per affermare in maniera autonoma le loro esigenze.Da ciò nasce l’interesse di Lefebvre per i problemi dell’estetica che, anche alla luce della sua frequentazione degli ambienti surrealisti, evidenzia la ricerca di un punto d’appoggio per scardinare le vuote consuetudini e la grigia abitudinarietà della vita quotidiana, così come si è cristallizzata in regime borghese, per manifestare liberamente e gioiosamente la carica liberatrice che cova nel profondo degli esseri umani. L’arte, dunque, non interessa tanto a Lefebvre in quanto manifestazione autonoma della vita sociale o della creatività individuale, ma in quanto strumento privilegiato per una possibile liberazione dell’uomo, a partire dalla denuncia della sua condizione di alienazione e di rassegnazione.Coerentemente con questa impostazione, Lefebvre, negli ultimi anni della sua vita, davanti alla rapida trasformazione e degradazione del paesaggio naturale da parte della civiltà della tecnica, si è particolarmente interessato ai problemi urbanistici e del territorio. Da buon provinciale che conosce a fondo la vita di provincia (quel Sud occitanico del Tartarino di Daudet e della Mirella di Mistral), egli non crede che la riscossa all’alienazione della vita quotidiana e alla brutale manomissione del paesaggio possa venire dalla campagna, bensì dalla città, vista come la fucina dei processi rivoluzionari e come il centro propulsore sia della contestazione delle forme arretrate e inautentiche, sia della elaborazione di forme nuove e vitali.Scrive Lefebvre in Critica della vita quotidiana (titolo originale: Critique de la vie quotidienne; L’Arche Editeur, Paris, 1958, traduzione italiana di Vincenzo Bonazza, Dedalo Libri, Bari, 1977, 2 voll.; vol. 1, p. 262): …Sappiamo (…) che il marxismo vuole trasformare il «mondo» (non più interpretarlo).però bisogna ben comprendere questa parola, il «mondo». Non si tratta soltanto d’intensificare la produzione, di coltivare nuovi terreni, d’industrializzare l’agricoltura, di costruire fabbriche giganti, di cambiare lo Stato e poi di finirla con questi «mostri freddi tra i mostri freddi». Questi sono dei mezzi.Qual è il fine? È la trasformazione della vita sin nel dettaglio, sin nella quotidianità. Il mondo è l’avvenire dell’uomo perché l’uomo è il creatore di questo «mondo». Ed il problema non è soltanto di cambiare l’idea dell’uomo, di fondare e di porre al vertice della cultura l’idea dell’uomo totale, natura e coscienza, istinto e lucidità, potenza sulle cose e sui suoi propri prodotti. Il problema non è solo quello di raggiungere l’unità dialettica delle conoscenze, di riunire in un insieme dialettico ordinato e razionale i risultati di tutte le scienze. Non è soltanto di formare un nuovo tipo d’uomini o di stabilire nuovi rapporti generali tra gli uomini.Questi non sono ancora che dei mezzi. Il fine, lo scopo, è di fare intervenire il pensiero, la potenza dell’uomo, la partecipazione a questa potenza e la coscienza di questa potenza, nell’umile dettaglio della vita. Lo scopo, più ambizioso, più difficile, più lontano che i mezzi, è quello di cambiare la vita, di ricreare lucidamente la vita quotidiana.La critica della vita quotidiana, facendo apparire il suo duplice aspetto, negativo e positivo, contribuirà a porre e a risolvere il problema della vita. La cultura e la coscienza umane integrano tutte le acquisizioni della storia di tutti i momenti superati. Per contro la religione accumula tutte le impotenze dell’uomo. Contiene una critica della vita: una critica reazionaria e distruttiva. Il marxismo, coscienza dell’uomo nuovo e nuova coscienza del mondo, arreca una critica efficace, costruttiva della vita. Ed esso soltanto!… A parte la dichiarazione di fede soteriologica nelle esclusive proprietà rigeneratrici del marxismo, qui vissuto più con trasporto religioso che con attitudine di critica speculativa (cfr. il nostro precedente saggio, Il marxismo e il suo esito fallimentare: quale la sua eredità nell’epoca della tecnologia?, sul sito dell’Associazione Eco-Filosofica), emerge qui un dato interessante. Per Lefebvre, la religione – e, segnatamente, la religione cristiana – effettua una critica distruttiva della vita, accumulando le umane impotenze e sedimentandole in un deposito di rassegnazione, fatalismo e rinuncia. Compito di una critica costruttiva della vita, al contrario, è quella di «integrare tutte le acquisizioni della storia di tutti i momenti superati», secondo il metodo dialettico marxista (ed hegeliano): tesi più antitesi, uguale sintesi.Lefebvre ne trae la conclusione che il marxismo – ed esso soltanto – è in condizioni di condurre una simile critica costruttiva della vita, perché è rivolto in avanti e guarda al futuro, ma con i piedi ben piantati sulla terra, nel qui-e-ora. Mentre le concezioni spiritualistiche voltano le spalle alla storia umana e, mentre sono prive di ogni illusine circa la capacità dell’uomo di prendere in mano la direzione della propria storia, producono alienazione additando un altrove impossibile e inesistente, immagine speculare di questo mondo terreno ridotto a “valle di lacrime” e luogo dell’umana impotenza e sofferenza.Non si può negare che tale critica dell’atteggiamento religioso abbia un qualche fondamento nella maniera pessimistica in cui esso, talvolta, si pone davanti alle sfide della società e della storia; e, più ancora, in una compromissione della cultura religiosa con le politiche grettamente egoistiche delle classi, volta a volta, dominanti. Ma è altrettanto vero che queste accuse fanno uno strano effetto, in bocca a una ideologia che rivendicava a sé il monopolio della emancipazione del genere umano, e che nel breve volgere di alcuni decenni ha così clamorosamente tradito la propria “missione”, lasciandosi alle spalle immense miserie e rovine materiali e spirituali.Tuttavia, quando Lefebvre scriveva le sue opere, la cultura marxista era ancora in ascesa in tutto l’Occidente; il suo potere di fascinazione delle masse era rimasto quasi intatto, nonostante alcuni sinistri scricchiolii; e la costruzione di una società mondiale interamente rinnovata, libera dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sembrava un sogno non solamente realizzabile, ma ormai quasi a portata di mano…Eccoci arrivati, dunque, nel luogo più suggestivo del pensiero di filosofi come Lefebvre: ovvero il mondo dei “possibili”, delle forme inespresse che stanno per venire prepotentemente alla luce, dell’utopia che sta per tradursi in realtà.Scrive, sempre in Critica della vita quotidiana (ed. cit., pp. 263-67; 268-69), Henri Lefebvre, nel capitolo successivo a quello testé citato: La vita quotidiana sarebbe per sempre immutabile sotto il sole che illumina un mondo sempre nuovo, immutabile nella noia, il grigiore, la ripetizione degli stessi gesti? Molti tra coloro che disperano dell’umano e s’inteneriscono ipocritamente di quei «gesti eterni» dei contadini, delle madri, delle casalinghe, lo credono…La vita quotidiana non è immutabile; può degenerare, dunque cambia. E i soli veri cambiamenti umani profondi sono quelli che mordono su questa sostanza e vi si inscrivono. Il decadimento è molto facile mostrarlo con un esempio privilegiato e semplice, la vita delle campagne, poiché le tracce di un’«altra vita», quella della comunità, persistono molto più numerose e in modo molto più sensibile che altrove. Non ci rimane, nel seguito di questi studio, che descrivere lo scadimento della vita quotidiana nelle città industriali, nell’attività quotidiana cosiddetta “moderna”.Ma qui un altro avvenimento viene a complicare l’esame. Contemporaneamente ad uno scadimento spinto sino alle estreme conseguenze, appaiono più sensibilmente e più immediatamente che altrove le possibilità. La vita umana può degenerare e può progredire. Sinora ha seguito questo duplice movimento: scadimento da un lato e per un certo verso, progresso in un altro senso.La vita è “migliorata” e non si può dare interamente torto a quegli ottimisti che pretendono ostinatamente che il genere umano, favorito da non si sa quale Provvidenza teologica o metafisica, proceda con passo tranquillo, in truppa ben ordinata, su una strada tracciata a priori, dalla barbarie alla civiltà. Non hanno interamente torto; e la teoria della “decadenza” che si oppone all’ottimismo dei partigiani del progresso è anch’essa metafisica, e molto sospetta; l’idea astratta della “decadenza” in generale dissimula una decadenza precisa, attuale, ma momentanea: quella della borghesia.Tuttavia, l’idea ottimista di “progresso” manca di flessibilità, di comprensione dialettica, non coglie i differenti aspetti del divenire umano. Il progresso ha comportato sino adesso, ha recato con sé, alcuni elementi di regressione. Spontaneo, oggettivo, come un processo della natura, questo “progresso” non è stato diretto da una Ragione. Il pensiero non l’ha che tardivamente compreso, ed è solo adesso che la ragione efficiente si sforza di penetrarlo attivamente, di comprenderne le leggi e di trasformarlo in un progresso razionale e senza contropartita negativa. La vita umana ha progredito: progresso materiale, progresso “morale”, ma questa non è che una parte della verità. La spoliazione, l’alienazione della vita ne è l’altro aspetto.Contro gli ingenui teorici del progresso continuo e completo, bisogna mostrare lo scadimento della vita quotidiana dalla antica comunità in poi, e la crescente alienazione dell’uomo. Contro gli spregiatori del presente, contro i teorici del «buon tempo antico», gli idillici e i robinsoniani, bisogna fermamente mostrare il progresso compiuto: in conoscenza e in coscienza, in potenza sulla natura. Bisogna soprattutto mostrare l’ampiezza, la magnificenza delle possibilità che s’aprono davanti all’uomo; e che sono così realmente possibili, così prossime, così razionalmente realizzabili (una volta distrutti gli ostacoli politici) che questa prossimità del possibile può passare per uno dei significati (penosamente e terribilmente inconscio) della famosa «inquietudine moderna», dell’angoscia davanti all’«esistenza», quale essa è ancora!…Dei fatti molto semplici, molto banali, mostrano come si è operato il “progresso” economico e tecnico. Un’industria di livello mondiale che si proponeva di allargare il mercato e di mandare a picco l’industria rivale, qualche ano fa, fece distribuire gratuitamente ai contadini cinesi delle lampade a petrolio. I concorrenti, meno «generosi» o meno avvertiti, vendevano le lampade. Ed ora, in qualche milione di miserabili case cinesi, la luce artificiale (progresso immenso) rischiara il suolo fangoso e i putridi codini, dal momento che i contadini, che non potevano comprare le lampade, possono comprare il petrolio…Il “progresso” apportato dal capitalismo, come pure la sua «generosità», non è che un mezzo per un fine: il profitto.Senza andare a cercare così lontano gli esempi: in Francia nei Pirenei, a qualche passo dalle dighe e dalle potenti centrali ultramoderne, numerosi casolari, migliaia di casolari dove i contadini conducono una vita quasi altrettanto “primitiva” dei cinesi, non hanno ancora la luce elettrica. Altrove, un po’ dappertutto, nelle campagne come nelle città la luce elettrica rischiara il gesso lebbroso dei tuguri o i sordidi muri delle catapecchie (vi sono ancora nella stessa Parigi, case e appartamenti senza illuminazione moderna).Questi fatti senza alcun interesse letterario, banali, presi d’altronde tra le centinaia di fatti allo stesso modo significativi, mostrano come il “progresso”, sino ad oggi, s’insinua nelle realtà sociali esistenti, modificandole tanto poco quanto è possibile, e seguendo le strette necessità del rendimento capitalistico. Ciò che interessa p che gli esseri umani «rendano», e non che la loro vita sia cambiata. Il capitalismo rispetta, fino a quanto è possibile, i contorni e le forme preesistenti. È di malavoglia, per così dire, che vi apporta un cambiamento. La critica del capitalismo, in quanto «modo di produzione»contraddittorio, agonizzante a causa delle sue contraddizioni, si rafforza con una critica del capitalismo come distributore della ricchezza e del “progresso” che ha prodotti.Così abbiamo sotto gli occhi, ad ogni istante, questo fatto banale, e per ciò stesso inavvertito, che invece in avvenire sarà considerato come un tratto caratteristico e scandaloso della nostra epoca, quella della borghesia decadente: il ritardo della vita sulle sue possibilità ,la sua arretratezza.. Ritardo incredibile, distanza che aumenta incessantemente, adesso stesso, e che corrisponde allo scarto crescente tra il sapere del fisico contemporaneo e quello dell’uomo «medio», ovvero allo scarto tra il sapere del sociologo marxista e quello del politico borghese. Una volta segnalato, quel contrasto diviene schiacciante, cieco; lo si ritrova dappertutto; meraviglia, scoppia da tutte le parti.Paragonate una casa «media», in una delle nostre città, non a un palazzo pomposo e derisorio o a una delle abitazioni così spesso ridicole della borghesia, ma a una installazione industriale «moderna», a una centrale elettrica, per esempio. Qui, la tecnica minuziosità, la luminosità, la pulizia splendente; una potenza ordinata, condensata in apparecchiature dai contorni definiti. Queste macchine sono talmente stupefacenti di forza dissimulata nella loro apparente immobilità, che più di uno scrittore ha tentato di risuscitare al loro proposito il sentimento del sacro, dello spavento davanti a tanti feticci “potenti” e immobili. Per contro, qui, in questa casa dove si svolge la vita quotidiana della brava gente «media», la meschinità, la disorganizzazione, angoli e recessi polverosi, mobili pretenziosi e meschini, bric-à-brac piccolo borghese; l’inutile assurdo e nello stesso tempo la mancanza dell’utile e il culto dell’utile: stanze oscure, piumini, scope, tappeti che si scuotono dalla finestra…E che dire delle abitazioni operaie e delle case dei contadini dove il liquame della stalla imputridisce davanti alla porta! La potenza conquistata con la tecnica e il pensiero resta al di fuori della vita, al di sopra, lontano. E tra coloro che sono chiamati in questione, pochissimi sanno vedere questi fatti banali, cercarne la ragione e le conseguenze.Paragonate una strada qualsiasi, coi suoi negozi, le sue file di finestre così tristi quanto le tombe d’un cimitero, ad un qualsiasi monumento, espressione di potenza e d’orgoglio… (…)La potenza e la ricchezza fondano ogni grandezza, ogni splendore. Su di esse si fonda la bellezza. È per questo che il ribelle, l’anarchico che protesta contro tutta la storia e contro tutte le opere dei secoli trascorsi non vedendovi altro che l’arte e la minaccia del dominio, ha torto. Non coglie la grandezza che traspare dalle sue forme alienate. Il ribelle va solo in fondo alla sua coscienza “privata”, che erge contro tutto l’umano, confondendo gli oppressori e le masse oppresse che furono la base e il senso della storia e delle opere passate. Castelli, palazzi, cattedrali, fortezze dicono a modo la grandezza e la forza del popolo che li ha costruiti e contro il quale furono costruiti. Questa grandezza reale traspare attraverso la grandezza illusoria dei Signori e conferisce a quelle “opere” una bellezza durevole. Solo la borghesia non ha dato alle sue costruzioni che un senso troppo chiaro, troppo povero, troppo privato di realtà: la ricchezza astratta, il dominio brutale; ed è perciò che ha prodotto la laidezza e la volgarità perfette. Lo spregiatore del passato, quasi sempre spregiatore del presente e del possibile, non comprende questa dialettica dell’arte, questo duplice carattere delle opere e della storia. Non la presentisce neanche. L’anarchico, individualista chiuso nella coscienza «privata», essa stessa prodotto dell’epoca borghese, ergendosi contro la stupidità e l’oppressione borghesi, cessa di comprendere la potenza umana e la comunità, fondamento di quella potenza. Le forme storiche di questa comunità, dal villaggio alla nazione, gli sfuggono. Non è, non vuole essere che un atomo umano (nel senso scientificamente invecchiato quando questa parola “atomo” designava una realtà ultima e isolabile). Giunge sino in fondo all’alienazione e fa il gioco della borghesia. Quest’anarchismo, larvale o cosciente, è molto diffuso. Una certa rivolta, una certa critica della vita, implica e provoca l’accettazione di questa vita come la sola possibile. Questa attitudine viete di conseguenza la comprensione del possibile umano. Ci piacerebbe ora, brevemente, mettere in luce quello che – a nostro parere – è ancora vivo e quello che, invece, è morto nella critica di Lefebvre della vita quotidiana, e particolarmente nella riflessione sui «possibili» che vengono sacrificati, a tutti i livelli – compreso quello estetico e creativo – dal modo di produzione capitalistico e dalla sua specifica ideologia, quella borghese fondata sull’utile, sul profitto.È viva, anzitutto, la critica allo spreco di risorse, materiali e spirituali, che è propria dell’economia capitalista. In questo senso, Lefebvre ha visto giusto – e il suo discorso è estremamente attuale – quando ha parlato della sconcertante arretratezza che caratterizza l’impiego dei beni e dei servizi nella società borghese. Non solo: egli centra perfettamente il bersaglio anche quando mette in evidenza il contrasto stridente e intollerabile che esiste fra la razionalità, la perfezione, l’opulenza dei macchinarti destinati a realizzare il profitto, da una parte, e il disordine, la miseria, lo squallore dei luoghi effettivi della vita quotidiana, delle abitazioni ove trascorre l’esistenza reale degli individui, dall’altra.Centra il bersaglio, ovviamente, anche quando sottolinea il gretto utilitarismo del modo di produzione capitalistico e contesta la sua «vocazione» al progresso, osservando giustamente che il capitalismo tende a conservare, fin dove gli è possibile, le forme di vita preesistenti, e si adatta di malavoglia, e solo per necessità di realizzare e aumentare il profitto, a quegli elementi di novità che si rivelano assolutamente indispensabili alla sua logica interna. Implicitamente, questa è anche una critica dell’ipocrisia che è tipica della società capitalista, poiché la classe dominante – la borghesia – a parole si dice favorevole al progresso in ogni sua forma, mentre, nei fatti, è disposta a venire a patti con ogni arcaismo e perfino ad imprimere una regressione delle forme di vita, purché ciò rientri nei suoi meschini e limitati interessi.C’è bisogno di ricordare, ad esempio, che le nazioni occidentali moderne abolirono la tratta dei negri, Gran Bretagna in testa, solo dopo che gli sviluppi della Rivoluzione industriale avevano reso più conveniente puntare sullo sfruttamento di un proletariato di fabbrica, giuridicamente libero, piuttosto che su una massa di schiavi al lavoro nelle piantagioni di cotone, di caffè e di canna da zucchero?Infine, ci sembra che la critica di Lefebvre sia pertinente, là dove si appunta contro «gli ingenui teorici del progresso continuo e completo», tanto da anticipare, sia pure incidentalmente, taluni aspetti della odierna critica alle filosofie dello sviluppo e della crescita illimitata, che distruggono irrimediabilmente gli equilibri fisici del pianeta e non realizzano affatto un miglioramento della qualità della vita, neppure nelle società opulente e privilegiate.Ciò detto, passiamo agli aspetti dell’analisi lefebvriana che destano elementi di perplessità o che ci trovano, francamente, discordi.Punto primo: non è vero che “il dominio sulla natura” (usiamo la sua espressione) sia un bene in sé, e che basti dirigere il “progresso” in un senso favorevole alla vita quotidiana, invece che al vantaggio di una minoranza d’individui, per rimettere le cose a posto. La tecnica non è uno strumento “neutro”, e una filosofia dello sviluppo di segno socialista non è intrinsecamente migliore di una filosofia dello sviluppo di segno borghese. Abbiamo visto anche troppo bene quali disastri e quali forme di distruzione e di alienazione abbia prodotto la filosofia dello sviluppo e della tecnica indiscriminata nei sistemi politici ispirati al marxismo, che, secondo Lefebvre, è l’unica forza capace di portare una critica efficace e costruttiva delle storture sociali e dell’effetto di alienazione che esse producono sulle comunità e sugli individui (cfr., ad esempio, il nostro precedente articolo: Come si uccide un mare interno in nome dello sviluppismo, dedicato alla catastrofe ecologica del Lago d’Aral, sul sito di Arianna Editrice).Punto secondo: il «ritardo della vita rispetto alle sue possibilità» è certamente un effetto del modello economico capitalistico, ma non è solo questo. Si tratta di un problema filosofico ed esistenziale molto più sfumato e complesso di quanto Lefebvre non mostri di credere. Magari bastasse eliminare i cattivi capitalisti per vedere la vita espandersi in tutto il suo splendore, la sua ricchezza e le sue possibilità più elevate. La concezione del Nostro è fondata su un ingenuo ottimismo antropologico, secondo il quale basterebbe eliminare un modo di produzione egoistico e irrazionale per vedere, automaticamente, liberate le migliori potenzialità umane.Gli sfugge completamente che quel «ritardo della vita» rispetto a se stessa rimanda alla condizione ontologica dell’essere umano, indipendentemente dalle sue modalità di organizzazione produttiva e dal sistema economico o politico nel quale si trova a vivere. Essa ha a che fare con una lacerazione, con uno scarto di potenziale che appartiene alla natura umana e che, al tempo stesso, fonda la necessità della trascendenza, perché solo proiettandosi oltre se stesso, l’essere umano può sperare di essere reintegrato nella sua pienezza ontologica. Ma, per fare ciò, egli deve riconoscere il proprio limite, la propria piccolezza, il proprio stato di indigenza – non in senso materiale, ma spirituale: tutte cose che Lefebvre, come qualunque pensatore marxista, bolla come forme evidenti della alienazione metafisica.Punto terzo (e qui ci fermiamo, anche se vi sarebbero tante altre cose da dire). È vero che la borghesia, come classe dominante, si segnala, nel corso della storia, per il carattere più smaccatamente squallido e volgare delle forme dell’esistenza da essa create, rispetto alle forme elaborate dalle classi dominanti di altre epoche – ad es., le ville, i giardini, le chiese, le opere d’arte commissionate dall’aristocrazia dell’ancien régime. Ma non è vero che «ogni splendore e ogni grandezza sono fondati dalla ricchezza e dalla potenza». Ricchezza e potenza, tratti qualificanti di ogni classe dominante, non garantiscono di per sé lo splendore e la grandezza; a meno che non si voglia intendere la cosa in senso puramente materialistico e quantitativo. Dietro questa affermazione, che vuole «giustificare» agli occhi di una critica anarchica (residui della giovanile militanza anarchica dello stesso Lefebvre?) non solo i castelli, i palazzi, le cattedrali, ecc., ma anche, implicitamente, quelle moderne cattedrali che sono le fabbriche, i supermercati, le centrali elettriche (oggi, nucleari), non è altro che una manifestazione del culto per la forza, tipica di tutte quelle filosofie – hegelismo e marxismo compresi, anzi, in prima fila – che vedono nella storia una marcia incessante, anche se inconsapevole, verso le magnifiche sorti e progressive: lo Spirito Assoluto, la società senza classi, e così via.No, non siamo d’accordo. L’arte monumentale e celebrativa è, puramente e semplicemente, brutta, cioè non arte; così come lo stupro del paesaggio naturale ad opera di un industrialismo esasperato e di una tecnologia senza limiti e senza misura, non è che un oltraggio a quello spirito di comunità tanto lodato, a parole, dal Lefebvre. Perché possa esservi comunità, infatti, deve esservi anche coesistenza armoniosa e responsabile fra essere umano e ambiente naturale. Altrimenti si ricade, inevitabilmente, nel culto della forza, del dominio sulla natura, di una politica del territorio incontinente e immorale, che distrugge comunità nello stesso tempo in cui distrugge la bellezza del paesaggio, la ricchezza della biodiversità, la relazione necessaria fra le parti e il tutto. In conclusione, molte delle critiche che Lefebvre fa agli effetti alienanti della vita quotidiana in una società capitalista sono ampiamente condivisibili, anche se non sempre sono particolarmente originali. William Morris, per esempio, aveva detto più o meno le stesse cose, prima di lui e meglio di lui, circa il fatto che potremmo vivere molto più felicemente di come in realtà viviamo, se dessimo il primato alle vere esigenze dell’umano e non a quelle della produzione, del consumo e del profitto (cfr. F. Lamendola, William Morris fra utopia libertaria e nostalgia preindustriale, sul sito di Arianna Editrice).Ma il limite di fondo del pensiero di Lefebvre è, a nostro parere, il limite di fondo del marxismo stesso. Esso s’illude di portare un elemento di radicale rottura con l’ideologia, ma il suo armamentario concettuale è vecchissimo e, quindi, estremamente ideologico (nel senso negativo del termine). L’adorazione della Ragione astratta; la convinzione che basterebbe mettere la Ragione alla guida della società e dell’economia, per ottenere subito giustizia e felicità fra gli uomini; l’ingenuo e pericoloso dogmatismo, per cui esso solo possiede le chiavi del regno dei cieli, mentre tutte le altre vie non sono che strumenti del diavolo (come l’anarchismo che diviene, nei fatti, funzionale alla logica del dominio borghese); la sua presunzione concettuale, la sua intolleranza, il suo moralismo da riforma religiosa, il suo estremo settarismo: tutti questi aspetti non sono che un concentrato dei peggiori vizi e delle più ottuse superstizioni di altre ideologie, politiche, sociali, religiose, culturali…

Francesco Lamendola, La critica della vita quotidiana in H.Lefebvreultima modifica: 2008-06-11T17:17:50+02:00da mangano1
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