Massimo Ilardi, L’operaismo degli anni 60

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DA Liberazione, 24 giugno 2008
Massimo Ilardi
Quando mi è stato chiesto di recensire il libro L’operaismo degli anni Sessanta

”L’operaismo degli anni Sessanta. Da “Quaderni rossi” a “classe operaia” (a cura di G.Trotta e F.Milana, DeriveApprodi, pp. 894, euro 50 libro + cd rom)

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Quando mi è stato chiesto di recensire il libro L’operaismo degli anni Sessanta. Da “Quaderni rossi” a “classe operaia”

Quando mi è stato chiesto di recensire il libro L’operaismo degli anni Sessanta. Da “Quaderni rossi” a “classe operaia” (a cura di G.Trotta e F.Milana, DeriveApprodi, pp. 894, euro 50 libro + cd rom) mi sono sentito come quel personaggio di Stephen King che, costretto a un viaggio a ritroso nel tempo, è convinto che «tornare dove si è cresciuti è come contercersi in un esercizio di yoga, ficcarsi i piedi in bocca e ingoiarsi pian piano finché non resta più niente: non si può fare e chiunque sia sano di mente dovrebbe essere fottutamente felice che non si possa fare…». Tornare dove si è cresciuti: è invece il percorso che mi accingo a fare e anche per questo mi sento figlio, seppure un po’ degenere, di quella «gabbia di matti», come la chiama Mario Tronti, che andò a formare il gruppo di persone che faranno sul campo l’esperienza operaista. Nel libro, la “gabbia di matti” è rappresentata dalle splendide interviste, oltre che allo stesso Tronti, a Rita di Leo, Aris Accornero, Alberto Asor Rosa, Mauro Gobbini, Massimo Paci, Sergio Bologna, Romano Alquati, Vittorio Rieser, Claudio Greppi, Antonio Negri, Massimo Cacciari.
«L’operaismo italiano degli anni Sessanta comincia con la nascita di Quaderni rossi e finisce con la morte di Classe operaia . Punto. Questa è la tesi»: così inizia il saggio introduttivo di Mario Tronti. 1961-1966 sono dunque i limiti temporali dove avviene la «scoperta della classe operaia come soggetto politico». Dopo non ci sarà più un operaismo politico , ma «una forma di uso degli operai da parte di un gruppo» politico. E seguita: «Quello che cerco di dimostrare adesso è che l’operaismo di cui stiamo parlando fu essenzialmente una forma di rivoluzione culturale (…) E più che un modo di fare politica (…) fu piuttosto un modo di fare cultura politica». E’ tanto vero questo che sono spinto a fare una piccola diversione autobiografica. Non ho mai amato questo genere di scrittura. Ma dato ormai che sono nel pieno del mio esercizio di yoga tanto vale usarla non fosse altro che per rendere più manifesta questa “esperienza intellettuale di formazione”. Nei primi anni Sessanta ero troppo giovane per poter conoscere direttamente queste persone e inoltre venivo da una formazione culturale lontana dalla sinistra. Nel 1968 la situazione era invece matura. Stavo scrivendo la mia tesi di storia sugli “Scioperi operai durante la Resistenza”. Per completare la mia ricerca mi si offerse, nell’autunno di quell’anno, l’occasione di andare a Torino presso l’archivio del Centro studi Piero Gobetti. Qui incontrai Romolo Gobbi – seppi dopo che era una delle figure più attive dell’operaismo torinese – che lavorava presso il Centro. Gobbi era un personaggio di rara intelligenza, ma difficile nei rapporti, collerico, aggressivo a tal punto da non conoscere assolutamente cosa volesse dire la parola mediazione. Ma tutto questo conta poco, conta il fatto che demolì senza tanti complimenti la mia tesi. Poi, poco prima che ripartissi per Roma, mi diede alcuni numeri di una rivista che non conoscevo. Mi disse in maniera perentoria di leggerli perché altrimenti avrei seguitato a scrivere «stronzate» (disse proprio così) sulla classe operaia. Li cominciai a leggere in treno e quello fu il mio primo incontro con Classe operaia . Subito dopo ci fu quello con Operai e capitale . L’impatto con il pensiero operaista fu devastante per la mia ancora giovane cultura: cambiò in maniera irreversibile il mio modo di pensare, di scrivere, di studiare, di osservare il mondo. Perché proprio di un altro “punto di vista” si trattava: non solo nemico di quello borghese, ma nemico anche di quello che era allora e che è rimasto ancora oggi egemone dentro la sinistra ufficiale. Non a caso, un pensiero e un “punto di vista” o, meglio, una “pratica teorica del punto di vista” capaci più di ogni altro di produrre una lettura alta della politica e del conflitto, ma sempre minoritari e sempre sconfitti nello scontro politico interno tra le varie anime della sinistra. A chi li proponeva fu dato in sorte non lo scettro del principe e neanche la poltrona di suo consigliere, ma il riconoscimento di essere uno dei “tanti piccoli cattivi maestri”. Scrive Tronti: «Il punto vero della differenza tra l’operaismo reale, nostro, e l’operaismo formale del Pci, stava nel concetto di centralità operaia. Centralità politica». Era il punto discriminante: al centro della politica per il Pci c’era il partito e non la fabbrica. La fabbrica (come modello di lavoro politico e intellettuale) dentro il partito non riuscì mai ad entrare e Lenin (prima le lotte operaie poi lo sviluppo capitalistico) sarà andato pure in Inghilterra ma non varcò neanche una volta il portone delle Botteghe Oscure. Quel corpo a corpo continuo tra teoria e storia, tra politica e storia («l’operaio alla catena di montaggio in nessuna pagina di Classe operaia lo troverete come portatore di storia, in ogni pagina come portatore di politica»), quel primato assegnato alla lotta operaia e alla sua insubordinazione contro il lavoro che spezzava dentro la fabbrica, qui e ora, la sua subalternità storica, quella rivendicazione di “essere parte” contro l’universalismo egualitario e umanitario come visione riformista e borghese del mondo, quella supremazia del “ciò che è” su “ciò che è stato detto e scritto” che era il cardine del pensiero operaista, tutto questo risultava improprio all’ordine della tradizione del partito comunista dove era sempre la Storia e la sua continuità che si ergevano a giudici del presente. Ma tutto questo, alcuni della mia generazione, pochi in verità, hanno avuto la fortuna di incontrarlo nel loro percorso di formazione. Il machiavelliano peso della fortuna non ci ha voltato le spalle.
Ma perché si concluse la stagione dell’operaismo politico prima ancora della sconfitta della classe operaia? E qui le motivazioni che porto divergono da quelle, diciamo così, “ufficiali”. Mi situo su una linea più spontaneista che leninista, più da soggetto metropolitano che non da militante comunista. Ne sono consapevole ma la storia non passa invano.
L’esperienza operaista si chiuse, a mio parere, non perché la rivista Classe operaia non riesce a costruirsi e a costituirsi come «gruppo dirigente, modello di ceto politico alternativo a quello del movimento operaio» o per la preoccupazione, seppure fondata, che questa irrealizzabilità potesse fossilizzarsi in una pratica da gruppuscolo, come sostiene Tronti. Perché queste sono solo le conseguenze della causa vera: e cioè del fallimento dell’ipotesi che vedeva la classe operaia, nei punti più alti del suo sviluppo, come soggetto capace di varcare quel passaggio storico e politico che si chiama rivoluzione. Il punto di vista della classe operaia ha fin da allora escluso proprio quello che sosteneva l’operaismo: se è vero che «solo a livello di forza-lavoro sociale e quindi di classe operaia si può parlare di una classe sociale, dovremmo in fondo arrivare a dire che soltanto a livello di classe operaia si può parlare in senso specifico di processo rivoluzionario, di rivoluzione, di rottura rivoluzionaria». Che le lotte operaie determinassero lo sviluppo capitalistico non voleva dire che quelle lotte potessero aprire un processo rivoluzionario. Né che si presentava agli operai la possibilità concreta di farsi Stato o partito. Non sono stati né l’uno né l’altro. Il forzare questi passaggi, il piegare a un uso strategico la lotta operaia andava proprio contro “ciò che è” la classe operaia. La “rude razza pagana” non ha fatto il salto oltre il meccanismo della rivendicazione salariale non perché le è mancata la forza ma perché il suo nemico vero era il lavoro e non il capitale, o, meglio, il capitale in quanto lavoro. In quegli anni, la sua stessa fuoriuscita politica dal capitale, la sua trasformazione da forza-lavoro a classe operaia, si è dispiegata tutta dentro la fabbrica proprio perché la sua soggettività si esprimeva nella intensità delle forme di lotta (passività, assenteismo, cortei interni) che nascevano all’interno del rapporto di produzione, dentro l’organizzazione della catena di montaggio. La fabbrica e solo la fabbrica era il suo terreno di lotta, la “messa in forma” operaia della organizzazione politica. Non a caso, la rivolta di Piazza Statuto è rimasto un episodio isolato che conferma la regola. Il “rifiuto del lavoro” e il “salario come variabile indipendente”, e cioè le pratiche della sua autonomia rispetto al capitale, si esprimevano, dunque, sul terreno della fabbrica e si misuravano sui risultati materiali che riuscivano a raggiungere (più salario e meno lavoro). Da parte operaia, questa pratica vuol dire ciò che Tronti chiama «un uso politico della congiuntura». E, d’altra parte, negli anni ’70, la tesi dell’autonomia del politico, elaborata dentro l’esperienza dell’operaismo, che cos’è se non la presa d’atto, seppure non dichiarata fino in fondo, di questa impossibilità di produrre soggettività operaia fuori della fabbrica? Ma questa è un’altra storia.
Dalla fabbrica al territorio: il passaggio non sarà in mano alla classe operaia. Altre figure sociali, altrettanto rudi e pagane, attraverseranno la metropoli ma non avranno più né la fabbrica né il lavoro al centro della loro azione. Per questo il ’77 non chiude la stagione dei movimenti ma apre il tempo delle rivolte metropolitane sul consumo. Ma dire consumo non vuol dire, anche qui, rinchiudere quei soggetti dentro puri meccanismi economici. C’è tutto un lavoro da fare sul rapporto ostile e non risolto tra mercato e consumo, sui conflitti che scatena, sulla crisi che produce nelle regole e nell’ordine di un sistema. E’ questa una lettura altra rispetto al punto di vista operaio? Non lo credo. E’ ancora una volta una lettura di parte su ciò che è quello che abbiamo davanti. E’ un modo di leggere gli avvenimenti che non mi ha mai più abbandonato da quel viaggio in treno Torino-Roma anche se non ci sono più gli operai organizzati in potenziale classe antagonista. (a cura di G.Trotta e F.Milana, DeriveApprodi, pp. 894, euro 50 libro + cd rom) mi sono sentito come quel personaggio di Stephen King che, costretto a un viaggio a ritroso nel tempo, è convinto che «tornare dove si è cresciuti è come contercersi in un esercizio di yoga, ficcarsi i piedi in bocca e ingoiarsi pian piano finché non resta più niente: non si può fare e chiunque sia sano di mente dovrebbe essere fottutamente felice che non si possa fare…». Tornare dove si è cresciuti: è invece il percorso che mi accingo a fare e anche per questo mi sento figlio, seppure un po’ degenere, di quella «gabbia di matti», come la chiama Mario Tronti, che andò a formare il gruppo di persone che faranno sul campo l’esperienza operaista. Nel libro, la “gabbia di matti” è rappresentata dalle splendide interviste, oltre che allo stesso Tronti, a Rita di Leo, Aris Accornero, Alberto Asor Rosa, Mauro Gobbini, Massimo Paci, Sergio Bologna, Romano Alquati, Vittorio Rieser, Claudio Greppi, Antonio Negri, Massimo Cacciari.
«L’operaismo italiano degli anni Sessanta comincia con la nascita di Quaderni rossi e finisce con la morte di Classe operaia . Punto. Questa è la tesi»: così inizia il saggio introduttivo di Mario Tronti. 1961-1966 sono dunque i limiti temporali dove avviene la «scoperta della classe operaia come soggetto politico». Dopo non ci sarà più un operaismo politico , ma «una forma di uso degli operai da parte di un gruppo» politico. E seguita: «Quello che cerco di dimostrare adesso è che l’operaismo di cui stiamo parlando fu essenzialmente una forma di rivoluzione culturale (…) E più che un modo di fare politica (…) fu piuttosto un modo di fare cultura politica». E’ tanto vero questo che sono spinto a fare una piccola diversione autobiografica. Non ho mai amato questo genere di scrittura. Ma dato ormai che sono nel pieno del mio esercizio di yoga tanto vale usarla non fosse altro che per rendere più manifesta questa “esperienza intellettuale di formazione”. Nei primi anni Sessanta ero troppo giovane per poter conoscere direttamente queste persone e inoltre venivo da una formazione culturale lontana dalla sinistra. Nel 1968 la situazione era invece matura. Stavo scrivendo la mia tesi di storia sugli “Scioperi operai durante la Resistenza”. Per completare la mia ricerca mi si offerse, nell’autunno di quell’anno, l’occasione di andare a Torino presso l’archivio del Centro studi Piero Gobetti. Qui incontrai Romolo Gobbi – seppi dopo che era una delle figure più attive dell’operaismo torinese – che lavorava presso il Centro. Gobbi era un personaggio di rara intelligenza, ma difficile nei rapporti, collerico, aggressivo a tal punto da non conoscere assolutamente cosa volesse dire la parola mediazione. Ma tutto questo conta poco, conta il fatto che demolì senza tanti complimenti la mia tesi. Poi, poco prima che ripartissi per Roma, mi diede alcuni numeri di una rivista che non conoscevo. Mi disse in maniera perentoria di leggerli perché altrimenti avrei seguitato a scrivere «stronzate» (disse proprio così) sulla classe operaia. Li cominciai a leggere in treno e quello fu il mio primo incontro con Classe operaia . Subito dopo ci fu quello con Operai e capitale . L’impatto con il pensiero operaista fu devastante per la mia ancora giovane cultura: cambiò in maniera irreversibile il mio modo di pensare, di scrivere, di studiare, di osservare il mondo. Perché proprio di un altro “punto di vista” si trattava: non solo nemico di quello borghese, ma nemico anche di quello che era allora e che è rimasto ancora oggi egemone dentro la sinistra ufficiale. Non a caso, un pensiero e un “punto di vista” o, meglio, una “pratica teorica del punto di vista” capaci più di ogni altro di produrre una lettura alta della politica e del conflitto, ma sempre minoritari e sempre sconfitti nello scontro politico interno tra le varie anime della sinistra. A chi li proponeva fu dato in sorte non lo scettro del principe e neanche la poltrona di suo consigliere, ma il riconoscimento di essere uno dei “tanti piccoli cattivi maestri”. Scrive Tronti: «Il punto vero della differenza tra l’operaismo reale, nostro, e l’operaismo formale del Pci, stava nel concetto di centralità operaia. Centralità politica». Era il punto discriminante: al centro della politica per il Pci c’era il partito e non la fabbrica. La fabbrica (come modello di lavoro politico e intellettuale) dentro il partito non riuscì mai ad entrare e Lenin (prima le lotte operaie poi lo sviluppo capitalistico) sarà andato pure in Inghilterra ma non varcò neanche una volta il portone delle Botteghe Oscure. Quel corpo a corpo continuo tra teoria e storia, tra politica e storia («l’operaio alla catena di montaggio in nessuna pagina di Classe operaia lo troverete come portatore di storia, in ogni pagina come portatore di politica»), quel primato assegnato alla lotta operaia e alla sua insubordinazione contro il lavoro che spezzava dentro la fabbrica, qui e ora, la sua subalternità storica, quella rivendicazione di “essere parte” contro l’universalismo egualitario e umanitario come visione riformista e borghese del mondo, quella supremazia del “ciò che è” su “ciò che è stato detto e scritto” che era il cardine del pensiero operaista, tutto questo risultava improprio all’ordine della tradizione del partito comunista dove era sempre la Storia e la sua continuità che si ergevano a giudici del presente. Ma tutto questo, alcuni della mia generazione, pochi in verità, hanno avuto la fortuna di incontrarlo nel loro percorso di formazione. Il machiavelliano peso della fortuna non ci ha voltato le spalle.
Ma perché si concluse la stagione dell’operaismo politico prima ancora della sconfitta della classe operaia? E qui le motivazioni che porto divergono da quelle, diciamo così, “ufficiali”. Mi situo su una linea più spontaneista che leninista, più da soggetto metropolitano che non da militante comunista. Ne sono consapevole ma la storia non passa invano.
L’esperienza operaista si chiuse, a mio parere, non perché la rivista Classe operaia non riesce a costruirsi e a costituirsi come «gruppo dirigente, modello di ceto politico alternativo a quello del movimento operaio» o per la preoccupazione, seppure fondata, che questa irrealizzabilità potesse fossilizzarsi in una pratica da gruppuscolo, come sostiene Tronti. Perché queste sono solo le conseguenze della causa vera: e cioè del fallimento dell’ipotesi che vedeva la classe operaia, nei punti più alti del suo sviluppo, come soggetto capace di varcare quel passaggio storico e politico che si chiama rivoluzione. Il punto di vista della classe operaia ha fin da allora escluso proprio quello che sosteneva l’operaismo: se è vero che «solo a livello di forza-lavoro sociale e quindi di classe operaia si può parlare di una classe sociale, dovremmo in fondo arrivare a dire che soltanto a livello di classe operaia si può parlare in senso specifico di processo rivoluzionario, di rivoluzione, di rottura rivoluzionaria». Che le lotte operaie determinassero lo sviluppo capitalistico non voleva dire che quelle lotte potessero aprire un processo rivoluzionario. Né che si presentava agli operai la possibilità concreta di farsi Stato o partito. Non sono stati né l’uno né l’altro. Il forzare questi passaggi, il piegare a un uso strategico la lotta operaia andava proprio contro “ciò che è” la classe operaia. La “rude razza pagana” non ha fatto il salto oltre il meccanismo della rivendicazione salariale non perché le è mancata la forza ma perché il suo nemico vero era il lavoro e non il capitale, o, meglio, il capitale in quanto lavoro. In quegli anni, la sua stessa fuoriuscita politica dal capitale, la sua trasformazione da forza-lavoro a classe operaia, si è dispiegata tutta dentro la fabbrica proprio perché la sua soggettività si esprimeva nella intensità delle forme di lotta (passività, assenteismo, cortei interni) che nascevano all’interno del rapporto di produzione, dentro l’organizzazione della catena di montaggio. La fabbrica e solo la fabbrica era il suo terreno di lotta, la “messa in forma” operaia della organizzazione politica. Non a caso, la rivolta di Piazza Statuto è rimasto un episodio isolato che conferma la regola. Il “rifiuto del lavoro” e il “salario come variabile indipendente”, e cioè le pratiche della sua autonomia rispetto al capitale, si esprimevano, dunque, sul terreno della fabbrica e si misuravano sui risultati materiali che riuscivano a raggiungere (più salario e meno lavoro). Da parte operaia, questa pratica vuol dire ciò che Tronti chiama «un uso politico della congiuntura». E, d’altra parte, negli anni ’70, la tesi dell’autonomia del politico, elaborata dentro l’esperienza dell’operaismo, che cos’è se non la presa d’atto, seppure non dichiarata fino in fondo, di questa impossibilità di produrre soggettività operaia fuori della fabbrica? Ma questa è un’altra storia.
Dalla fabbrica al territorio: il passaggio non sarà in mano alla classe operaia. Altre figure sociali, altrettanto rudi e pagane, attraverseranno la metropoli ma non avranno più né la fabbrica né il lavoro al centro della loro azione. Per questo il ’77 non chiude la stagione dei movimenti ma apre il tempo delle rivolte metropolitane sul consumo. Ma dire consumo non vuol dire, anche qui, rinchiudere quei soggetti dentro puri meccanismi economici. C’è tutto un lavoro da fare sul rapporto ostile e non risolto tra mercato e consumo, sui conflitti che scatena, sulla crisi che produce nelle regole e nell’ordine di un sistema. E’ questa una lettura altra rispetto al punto di vista operaio? Non lo credo. E’ ancora una volta una lettura di parte su ciò che è quello che abbiamo davanti. E’ un modo di leggere gli avvenimenti che non mi ha mai più abbandonato da quel viaggio in treno Torino-Roma anche se non ci sono più gli operai organizzati in potenziale classe antagonista.

Massimo Ilardi, L’operaismo degli anni 60ultima modifica: 2008-06-24T17:53:04+02:00da mangano1
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