Da IL PUNTO ROSSO Quella che segue è una voce composta da Mimmo Porcaro per un Dizionario di politica in forma di libro. Questo progetto oggi si è trasformato in un Dizionario o Lessico di scienze umane che prossimamente verrà inserita in una nuova sezione del nostro sito.Cominciamo a metterla a disposizione nella sezione Archivio. ( IL PUNTO ROSSO)MOVIMENTO. L’importanza di una definizione.Le diverse forme dell’azione sociale, ed in particolare quelle che riguardano i comportamenti collettivi, sono spesso molto simili tra loro, o comunque contigue:sovente una forma deriva dall’altra, per un processo di differenziazione, e nell’altra può sempre confluire, perdendo così i suoi tratti originari. La costante metamorfosi di ciascuna di queste forme fa sì, dunque, che la precisa definizione di ognuna di esse sia tanto problematica quanto necessaria.Ancor più necessaria è, tale definizione, nel caso del movimento, e non solo per esigenze di chiarezza analitica. Il comportamento collettivo che si realizza nei movimenti, infatti, è contiguo a quello della folla, ha qualcosa a che vedere con la moda, può somigliare a quello di un gruppo di pressione, sorge, in alcuni casi, dalle associazioni mutualistiche, è storicamente correlato (e non solo per opposizione) a quello tipico del partito, e infine viene registrato, a volte, anche nelle imprese e nell’apparato di Stato. Il movimento è senz’altro irriducibile a tutte queste modalità d’azione ed a questi ambiti. Eppure è frequente il caso in cui gli avversari di un movimento tendono a denigrarlo, paragonandolo all’agire caotico ed irrazionale di una folla o alla passeggerainfatuazione per una moda; oppure ad addomesticarlo, riducendolo ad una lobby votata alla negoziazione diplomatica, o a pura associazione di self help, o inducendolo a trasformarsi in un partito. Come è frequente il caso – e non solo nelle forme contemporanee della produzione – di aziende che cercano di mobilitare i propri lavoratori costruendo uno “spirito di impresa” che richiede un’adesione simile a quella richiesta dai movimenti; nonché il caso di Stati (quasi sempre totalitari o autoritari) che cercano nei movimenti la legittimazione persa altrove, trasformando così uno dei più importanti attori extraistituzionali in una risorsa per rafforzare le istituzioni.Peraltro, la tendenza a dissolversi nell’una o nell’altra delle forme contigue è anche endogena ai movimenti stessi, che possono assumere i tratti d’una folla disordinata (ad esempio, dopo una carica delle forze di polizia), isterilirsi in stili di vita passeggeri, rifugiarsi nella costruzione di nicchie sociali, scegliere la via della pressione lobbistica o del partito “addomesticato”, prestare i propri inguaggi ed il proprio stesso personale dirigente alle imprese ed allo Stato. La definizione di cosa propriamente sia (e, prima ancora, di cosa non sia) un movimento è dunque non solo operazione conoscitiva, ma anche – almeno per chi al movimento partecipa e vuole attingere tutte le risorse possibili da questa modalità d’azione – operazione apertamente politica: è l’incessante demarcazione dalle interpretazioni riduttive che dei movimenti danno sia coloro che li avversano che coloro che li sostengono.Che cosa il movimento non è: aggregati, interessi, mutualismi, partiti.I movimenti devono prima di tutto essere distinti dai puri e semplici fenomeni di aggregato, ossia dai comportamenti reattivi e irrazionali (come il panico di una folla), o adattivi (come la moda). Quello del movimento è piuttosto, come vedremo, un comportamento razionale, intenzionale ed anche organizzato, volto atrasformare una situazione, e non semplicemente a reagire ad essa o a conformarvisi. Inoltre il comportamento di aggregato non dà luogo, a differenza del movimento, a specifiche – e spesso nuove – forme di solidarietà tra i diversi individui: è semplicemente un comportamento comune a molti, ma questa comunanza, empiricamente rilevabile, non ha nulla a che vedere con la condivisione di valori liberamente prodotta da un movimento.E’ poi molto importante distinguere i movimenti dai gruppi di interesse che, considerati dal punto di vista dell’azione, sono definibili anche come gruppi di pressione. E’ gruppo di interesse ogni aggregazione di individui che si organizzi per tutelare specifici interessi propri o altrui, senza per questo assumere forma di partito, ma facendo pressione sui decisori pubblici grazie all’esercizio del potere del numero, del ruolo produttivo, del denaro, della capacità informativa o altro. La distinzione tra movimenti e gruppi di interesse è spesso difficile da tracciare, e la difficoltà aumenta col sorgere dei gruppi di interesse pubblico, ossia delle aggregazioni che perseguono cause sociali (quali la tutela dell’ambiente o delle specie animali). Spesso i movimenti si comportano anche come gruppi di interesse, sorgono dalla trasformazione di questi, ed in questi si possono a loro voltatrasformare. Ciò che comunque distingue le due forme d’azione è il fatto che il gruppo d’interesse predilige la negoziazione diplomatica e segreta con i partiti, l’amministrazione o il governo, mentre il movimento è votato al conflitto aperto, ed è finalizzato ad ottenere incisive trasformazioni dell’ambito a cui si riferisce. Inoltre, e soprattutto, mentre il gruppo di pressione tutela interessi già definiti, il movimento è piuttosto un processo di definizione di nuovi interessi, e quindi sviluppa nuove solidarietà e, a volte, nuovi rapporti sociali fra i suoi aderenti. Anche quando, ad esempio, un movimento sorge come sviluppo d’una precedente associazione professionale, esso aggiunge alle immediate solidarietà di classe o ceto quelle che sorgono dalla comune decisione di ampliare lo spazio dell’azione e di arricchirne le modalità. Questa distinzione è valida anche nei confronti dei gruppi di interesse pubblico, perché anche questi ultimi prediligono la negoziazione al conflitto,nonché il segreto sulle negoziazioni stesse (che spesso si accompagna a forti campagne pubblicitarie sugli scopi del gruppo), e sovente riducono le nuove solidarietà, nate nella scelta d’unacausa comune, alla routine di un ”impegno sociale” vissuto come moda o atto caritatevole.S’è appena fatto cenno alle associazioni professionali. Ebbene, anche nel caso del mutualismo operaio e contadino, così forte a cavallo dei due secoli scorsi e così importante nella genesi del movimento dei lavoratori, è opportuno notare che, se le solidarietà, l’organizzazione e le competenze che il mutualismo sviluppa sono spesso la precondizione della nascita d’un vero e proprio movimento, quest’ultimo sorge proprio quando si avverte l’insufficienza delle sole istituzioni mutualistiche che operino come mere, per quanto vitali, forme di resistenza e di elaborazione culturale (Neveu). E non è un caso se queste istituzioni riprendono vigore, almenonelle intenzioni, proprio quando il movimento dei lavoratori e la sua capacità di influenzare lo Stato declinano. Ciononostante, si può dire che la contiguità fra movimenti e mutualismo è più stretta, e senz’altro più produttiva, di quella tra movimenti e gruppi di pressione, giacché le associazionivotate al self help producono sovente risorse finanziarie, conoscitive e soprattutto culturali che nutrono di sé sia le fasi di riflusso e resistenza che quelle di nuovo avanzamento dei movimenti.Più ovvia sembra essere, infine, la distinzione fra movimento e partito. Il partito è un’organizzazione precisamente identificabile, che prevede un’elevata formalizzazione delle procedure decisionali e di quelle relative all’adesione, generalmente orientata alla competizione elettorale, finalizzata ad ottenere modificazioni complessive della normazione e dell’organizzazione statuale. Mentre il movimento esibisce in genere, all’opposto, le caratteristiche della fluidità e dell’informalità, non partecipa direttamente – di norma – alle competizioni elettorali, è sovente orientato verso scopi delimitati. La trasformazione di un movimento in partito viene quindi considerata come una perdita delle caratteristiche creative e dell’apertura del movimento alla società, mentre la speculare trasformazione di un partito in movimento, o l’accentuazione dellecaratteristiche “di movimento” di un partito, dovrebbe coincidere con un indebolimento dei formalismi e, più in generale, della distinzione tra il partito e i soggetti sociali a cui si riferisce.Eppure, l’evoluzione dei movimenti (e della percezione di essi da parte dell’opinione pubblica e della riflessione scientifica) induce via via a sfumare questa distinzione ed a renderla sempre piùincerta. Come vedremo, infatti, il movimento non è semplicemente l’antitesi dell’organizzazione, può prevedere un significativo grado di formalizzazione di alcune procedure decisionali, può partecipare (attraverso “liste civiche” o strumenti simili) a competizioni elettorali, e può nutrire progetti di trasformazione generale della società e dello Stato. D’altronde, gli stessi partiti stanno subendo trasformazioni che, se da un lato li separano ulteriormente dalla società, e quindi dai movimenti, dall’altro li rendono meno rigidi e più “porosi”: peso crescente delle procedureinformali rispetto a quelle formali, apertura a gruppi di interesse e a frazioni di movimento, delega di molte delle funzioni comunicative a quegli stessi media a cui anche i movimenti spesso, di fatto, si affidano. Probabilmente sarà necessario, in tempi non troppo lunghi, aggiornare ed affinare leusuali distinzioni trai due termini. Per ora può valere il criterio secondo cui, se è vero che il movimento può divenire maggiormente organizzato, darsi relazioni più formalizzate, partecipare in qualche modo alle elezioni, scegliere obiettivi di trasformazione generale riguardanti anche il sistema politico, il partito, invece, deve sempre essere un’organizzazione formale votata almutamento del sistema politico in funzione di obiettivi a carattere generale, pena la perdita dellapropria identità e funzione di partito. Specularmente, caratteristica di un movimento sarà quella dinon ridursi mai alla riproduzione di alcune delle funzioni del partito, e di conservare, accanto all’eventuale assunzione di queste ultime, i tratti specifici dell’azione collettiva non partitica.Che cos’è un movimento: evoluzione di un concetto. – Componendo tra di loro i suggerimenti di diversi studiosi (ed in particolare di Tilly, Della Porta, Melucci e Touraine) si può definire come movimento quel processo di azione collettiva nel quale si costituiscono reti (altamente informali) di individui e associazioni che, connettendo soggetti individuali o di gruppo prima dispersi o confinati in modalità abituali di azione, giunge a produrre nuove identità solidali e, su questa base, a dar vitaad un conflitto contro gli esistenti equilibri, per affermare l’esistenza di nuovi attori e indurre significative trasformazioni nel complesso di un sistema sociale o in parti rilevanti di esso.Prima di giungere alle definizioni che abbiamo qui concentrate, la riflessione sociologicopoliticaha attraversato varie fasi, nel corso delle quali il movimento è stato visto prima come una patologia del sistema, poi come un elemento della sua fisiologia, ed infine non più come un oggetto particolare della sociologia, ma addirittura come il modo attraverso il quale una società costruisce sé stessa.Tale riflessione è, agli inizi, correlata alle critiche di matrice elitista della società di massa, ed il movimento non viene distinto, un questi casi, dal comportamento della folla (Le Bon, Tarde). Più che dello studio del movimento si deve parlare, qui, di una “psicologia delle masse” svolta infunzione di prevenzione dei più pericolosi sommovimenti popolari, e successivamente condensata nelle tecniche di mobilitazione che consentono a partiti o regimi totalitari di integrare il movimento nella costruzione dello Stato.E’ solo col comportamentismo statunitense, ed in particolare con Smelser, che la nozione dmovimento comincia ad assumere un’autonoma fisionomia concettuale. E diviene, proprio in Smelser, l’indice di una disfunzione sociale, il segnale dell’emergere di un problema che le istituzioni non hanno previsto, o che non possono trattare per la momentanea assenza di risorse specifiche. Anche se Smelser inizia a prendere in considerazione le “credenze” degli aderenti per spiegare le dinamiche del movimento, non cessa però di considerare quest’ultimo come uncomportamento puramente reattivo, come un segnale che dovrà sparire assieme alla disfunzione che lo ha attivato, ancora una volta come espressione di una qualche irrazionalità, come indice d’unproblema scaturito dal malfunzionamento di un sistema dato, e non come posizione di un nuovoproblema, magari risolvibile solo all’interno d’un sistema diverso.Decisi progressi nella trattazione autonoma del concetto si hanno, sempre in ambiente statunitense,grazie alla cosiddetta teoria della mobilitazione delle risorse (McCarthy, Zald). Questa riconosceuna specifica razionalità all’azione dei movimenti, studia le condizioni che ne rendono possibile lanascita, e le individua soprattutto nella presenza di organizzazioni che offrono le risorse necessarie alla mobilitazione, organizzazioni che si comportano come veri e propri imprenditori politici capaci di investimenti razionali e conformi allo scopo (nozione, questa, aderente al fenomeno, tipicamentestatunitense, delle associazioni di professionisti dediti all’organizzazione di campagne politiche).Nonostante l’economicismo implicito in molte delle sue tesi, la teoria della mobilitazione dellerisorse contribuisce a chiarire la distinzione tra il movimento e la “condizione di classe”. Non èsufficiente far riferimento all’appartenenza ad una comune condizione sociale per spiegarel’adesione ad un movimento, ma è necessario studiare le forme di socialità volontaria che siaffiancano a quelle imposte dalla collocazione di classe. E’ infatti nell’ambito di questa scuola, macon un originale impostazione di carattere storico, che si colloca la riflessione di Tilly. A parere diquest’ ultimo i movimenti devono essere studiati come articolazione di due fattori: la catness, ossial’appartenenza ad una comune categoria, e la netness, ossia l’adesione volontaria ad un reticolo diassociazioni. La minore o maggiore convergenza tra i due fattori trova espressione nella catnet, cheindica il grado di coerenza tra la collocazione di classe e le forme associative.L’esplosione del ’68 si accompagna ad un deciso incremento degli studi sul movimento e adun’ulteriore e più convinta rivendicazione dell’autonomia teorica del concetto. Numerosi studiosi(tra gli altri: Touraine, Alberoni, Tarrow, Della Porta, Melucci) sottolineano la nascita di nuovimovimenti sociali, differenti dai precedenti per obiettivi, organizzazione e funzione complessiva. Sitratta quasi sempre di movimenti legati a rivendicazioni di carattere “postmaterialistico” (qualitàdella vita, autonomia decisionale dei soggetti, ecc.), e quindi scarsamente desumibili da unacollocazione di classe e piuttosto ascrivibili ad autonome scelte individuali e collettive (ma suquesto torneremo). Usando il linguaggio di Tilly si può dire che qui la netness prevale sulla catness,e da ciò consegue sia il carattere spesso monotematico dei singoli movimenti (ossia l’emergere deisingleissuemovements), sia il fatto che per i nuovi movimenti diviene decisiva l’elaborazionecreativa dell’identità, un’identità che non può più essere reperita nel persistere di una memoria diclasse. Al carattere non classista (o non direttamente classista) della mobilitazione si accompagnainoltre una struttura organizzativa molto articolata e, soprattutto, policefala. Mentre il movimentooperaio dava e dà vita a reti associative “centrate” a beneficio di un polo (in genere, il partito), inuovi movimenti prediligono reti policentriche, costituite spesso da associazioni scarsamenteformalizzate e costituite ad hoc. Ma il più importante apporto degli studi sui nuovi movimenti,almeno dal punto di vista dell’evoluzione del concetto, sta nel ruolo che ad essi viene assegnato. Ilmovimento appare ormai come un comportamento collettivo dotato di autonoma e specificarazionalità, capace non solo di indicare disfunzioni, ma di elaborare istanze e progetti che leistituzioni, da sole, non sarebbero più in grado di raccogliere e di immaginare. Un fattore decisivo,insomma, della dinamica delle società contemporanee (che, a parere di Della Porta, sono ormaidefinibili come “società di movimenti”) ed un attore sociopoliticodi primaria importanza.Questa positiva considerazione del ruolo del movimento trova probabilmente la sua massimaespressione nella riflessione di Touraine. Pur essendo a pieno titolo partecipe della tipizzazione deinuovi movimenti sociali, Touraine si differenzia per il fatto di considerare il movimento non solocome un particolare, pur se importantissimo, attore sociale, ma come il modo stesso in cui la societàviene prodotta, come evento capace di definire un nuovo orizzonte della storicità: in tal senso ilmovimento non è espressione di un conflitto, ma è la matrice del conflitto, poiché disegna ex novo ivalori e le procedure di una società, quindi anche le caratteristiche della sua interna dialettica. E’ perquesto che il sociologo francese sottolinea un’importante distinzione tra le diverse forme che imovimenti assumono. Vi sono movimenti tesi semplicemente a reintegrare norme sociali violate o arivendicare identità conculcate; altri orientati ad una semplice lotta, ad un conflitto con valenzequasi solo redistributive; altri, infine, capaci di ridefinire del tutto le norme sociali, inaugurando unanuova epoca della società e dei suoi conflitti: e sono solo questi ultimi a meritare pienamente,secondo Touraine, l’appellativo di “movimento”.La definizione riassuntiva che abbiamo proposto all’inizio di questo paragrafo mette in risalto isoggetti del movimento (le reti di individui ed associazioni), la creazione di nuove identità, ilconflitto che dal movimento è prodotto. Descriveremo ora meglio ciascuna di queste componentidella definizione. Prima, però, deve essere precisato che in quanto è un processo attivato da diversisoggetti, individuali e di gruppo, ed in quanto non è semplice espressione di una preesistenteesigenza sociale, ma definizione progressiva di questa esigenza stessa, il movimento non può essereconsiderato come un “personaggio” che fin dall’inizio percorre – con minore o maggioreconsapevolezza – il proprio destino, ma piuttosto come un sistema d’azione (Melucci). Ilmovimento può essere compreso solo come il risultato, mutevole ed instabile, delle numeroseinterazioni che si svolgono fra i suoi componenti e fra essi ed il complesso dell’ambientecircostante (inclusi gli avversari del movimento stesso: Stati, imprese ed altri poteri sociali). Questeinterazioni producono e modificano via via le identità, gli obiettivi, le reti organizzative e lestrategie, in un processo dagli esiti non predeterminabili, non pienamente governabile da nessunodei soggetti in campo. Un processo che non coincide immediatamente con gli aspetti visibili delmovimento stesso e che può essere decifrato, da chi vi partecipa e da chi lo analizza, solo grazie aduno sforzo di riflessione e di astrazione.Dopo aver descritto i soggetti, le identità ed i conflitti che sono caratteristici del movimento,descriveremo quindi le interazioni tra essi ed il sistema politico ed economico. Solo allora saremo ingrado di trattare delle dinamiche del movimento e dei suoi effetti.Soggetti del movimento: individui e associazioni.Nelcaso del movimento è assai importantenotare che esso è composto da individui e da associazioni, e non è riducibile né ad un puroaddensamento di individui né ad una pura alleanza tra associazioni. La distinzione tra individui edassociazioni permette di sottolineare il già ricordato carattere informale, e quindi mobile ed elastico,dell’aggregazione che dà vita al movimento. Da un lato è proprio il fatto che il comportamentodegli individui sia irriducibile a quello delle associazioni (e quindi non sia deducibile dalla dinamicadi queste ultime) ad offrire al movimento le sue caratteristiche creative, la sua capacità di spiazzarele classificazioni abituali. Dall’atro è proprio la pluralità e la segmentazione delle associazione afavorire quella relativa libertà di aggregazione degli individui che consente la formazione di nuoveidentità sociali.Anche se, come vedremo, il comportamento degli individui all’interno di un movimento non riflettemeccanicamente la loro condizione sociale, è in genere solo da determinati strati sociali cheprovengono i soggetti che al movimento partecipano. Se è vero che la dinamica socioeconomica, insé stessa, nulla può dire sui tempi e sulle modalità di formazione dell’azione collettiva, è indubbioche quest’ultima è legata, generalmente, ai fenomeni di trasformazione sociale ed ai conflitti che aquesta si accompagnano. Gli attori dei movimenti si trovano quasi sempre trai membri dei gruppi inascesa o di quelli che subiscono processi di declassamento. Agli uni e agli altri il movimentofornisce risorse organizzative e, prima di tutto, risorse simboliche relative alla costruzionedell’identità, condizione essenziale dell’azione sia dei gruppi nuovi che di quelli preesistenti, i qualiultimi molto spesso definiscono più precisamente o addirittura reinventano la propria identitàproprio quando sono minacciate le loro precedenti condizioni d’esistenza. Si può poi registrare unsostanziale accordo, almeno fino ai tempi più recenti, sul fatto che quasi mai i veri protagonistidell’azione sono gli “ultimi”, ossia i soggetti che vivono alla periferia d’un sistema dato. Quasisempre si ha a che fare con soggetti “semiperiferici”, quando non si tratti addirittura di attori chesvolgono di fatto un ruolo nevralgico all’interno d’un sistema, ruolo non adeguatamentericonosciuto negli equilibri esistenti. In altri termini, la ribellione che sovente è alla base dellanascita d’un movimento non è spiegabile in termini di deprivazione assoluta, ma in termini dideprivazione relativa (Gurr): non si ribella chi è maggiormente deprivato, ma chi sperimenta unoiato tra una condizione attuale ed una potenziale, o passata. Ciò non significa che i gruppimaggiormente deprivati non partecipino all’azione, ma che questi danno spesso vita ad azionisporadiche, giacché non posseggono le risorse che consentono una mobilitazione duratura, oppureentrano in gioco dopo che altri hanno dato vita al movimento (Pizzorno).Ulteriore condizione della nascita d’un movimento è, lo si è già detto, l’esistenza di un reticolo diassociazioni (e quindi di organizzazioni più o meno formalizzate) che sia capace di sedimentareidentità, elaborare indirizzi e strategie, offrire supporti tecnici e, appunto, organizzativi. Lacomprensione dell’importanza delle associazioni nella genesi e nella persistenza del movimento (dicui siamo debitori, in primo luogo, alla teoria della mobilitazione delle risorse) ha contribuito nonpoco a liberare il movimento stesso dall’alone di indeterminatezza, caoticità ed occasionalità delquale lo circondavano le teorie tese a segnalarne il presunto carattere irrazionale, Ma va detto chel’importanza di questo fattore deve essere rammentata anche a molti studiosi ed attivisti vicini aimovimenti che (soprattutto in Italia e, qui, sulla scorta d’una ricezione semplicistica delle tesi diAlberoni) tendono a presupporre la spontaneità assoluta di questa forma d’azione e la suapermanente opposizione a qualsivoglia momento organizzativo. Invece, la parte preponderante deglistudi considera le associazioni come un elemento costitutivo del movimento. Esse infatti non soloconsentono la persistenza, la riconoscibilità e la tendenziale coerenza dell’azione, ma, sia nellaforma di coordinamenti occasionali che in quella di più stabili “istituzioni”, offrono anche le sedi incui può svilupparsi quel mutuo riconoscimento dialogico che è essenziale alla formazione diun’identità. Si tratta, peraltro, di associazioni dai tratti organizzativi assai particolari, sia riguardoalla loro natura, sia riguardo al loro numero ed ai loro rapporti. Esse sono spesso, infatti,scarsamente formalizzate, in gran parte fornite di numerosi canali di ingresso e di uscita, dotate digerarchie interne che, in moltissimi casi, sono assai fluide, e vengono legittimate più dallaconformità al movimento che da ragioni di autoconservazione. E, soprattutto, sono associazionimolteplici e differenziate, raramente ordinate in maniera gerarchica. Non tragga in inganno il fattoche uno dei più importanti movimenti della modernità, quello operaio, ha conosciuto per un lungoperiodo un’organizzazione centrata sul partito: sia al suo sorgere che nelle cicliche fasi dirinnovamento esso ha fatto perno proprio sulla pluralità e sulla differenza delle proprie associazioni(società di mutuo soccorso, centri di educazione popolare, comitati territoriali, consigli, ecc.). Perdescrivere la forma d’organizzazione tipica del movimento la sociologia parla quindi a buon dirittodella rete di associazioni (e di individui), e lo fa da tempo, ben prima, cioè, che la rete divenisse,come oggi appare essere, la modalità preminente, o comunque capillarmente diffusa, dell’azionesociale.Anche se il conflitto interorganizzativo non è affatto assente, ed anche se ciascuna organizzazionenon è immune dalle tendenze oligarchiche già denunciate da Michels a proposito del partito(tendenze favorite a volte proprio dall’informalità dell’aggregazione), l’elasticità e la pluralità delleorganizzazioni è il fattore che consente quella continua negoziazione dell’identità, quella mobilitàdel rapporto trai diversi attori, quella creatività e quella capacità di innovazione sociale che sono trale caratteristiche principali dei movimenti.La costruzione dell’identità e la ridefinizione del ruolo della “classe”.L’esistenzadi reti diindividui ed associazioni non consente, da sola, di parlare di “movimento”. Anche alcuni gruppi diinteresse possono essere strutturati in questa forma, che può essere comune anche a molti fenomenivicini alla moda o comunque agli stili di vita, come le tifoserie calcistiche o i fan di stelle canore ocinematografiche. Perché vi sia un movimento è necessario che dentro le reti si formi una nuovaidentità, e che essa sia tale da dar luogo ad un conflitto rilevante per l’ordine sociale. Si può anzisostenere che la produzione della nuova identità (e quindi dell’autoconsapevolezza di nuovi attorisociali) sia la caratteristica principale del movimento (Touraine, Pizzorno), una caratteristica cheoffre un senso supplementare sia alle reti che alla loro azione conflittuale. E’ la definizionedell’identità, insomma, a realizzare quella rottura dei codici abituali che dà luogo ad un’azionecollettiva di forma inedita, e cioè ad un movimento.L’importanza della questione dell’identità è emersa in particolare negli studi relativi ai cosiddettimovimenti “postmaterialistici” sorti nel secondo dopoguerra. In questi studi si è molto insistito,come si è visto, sul fatto che l’identità dei soggetti dei nuovi movimenti non derivava dal loro ruolosociale (dall’appartenenza di classe o di ceto) ma da una scelta di valori e comportamenti che, sepure erano resi possibili dalle risorse offerte dall’ambiente, non per questo erano l’effetto necessarioed inevitabile della determinata conformazione di una società o di una classe. La netness, ossia lasocialità volontaria, insomma, sarebbe qui ben più importante della catness, ossia dell’originesociale. E questa possibilità di produrre identità in maniera relativamente indipendente dal ruololavorativo diverrebbe via via più importante nella società contemporanea, una società in cui iconflitti relativi all’attribuzione dell’identità divengono sempre più decisivi (Melucci). Ma lacentralità assunta dalla socialità volontaria consente di valutare con sguardo diverso anche la storiae le prospettive dei movimenti di classe. Le ricerche degli storici del movimento operaio(Thompson, in particolare) ed anche le stesse ricerche di Tilly dimostrano che la netness gioca unruolo fondamentale anche nella identificazione delle spesso diversissime figure del lavoro in unaclasse, orientata dai medesimi valori e da obiettivi politici comuni. La stessa formazione dellamassa operaia come soggetto di azione non è l’effetto inevitabile dell’addensamento di moltilavoratori nelle fabbriche, ma implica una rottura con la socialità eterodiretta imposta dal dominiodel capitale e la costruzione di nuove relazioni (Canetti). Anche il movimento dei lavoratori,dunque, lungi dall’essere un risultato quasi spontaneo della generale proletarizzazione del lavoro, èil frutto di un’inedita elaborazione di valori e stili di vita, ed è quindi un “movimento” in sensoproprio. Va infine aggiunto, a questo riguardo, che anche di fronte ai movimenti non proletari degliscorsi decenni, v’è stato chi, come Melucci, ha voluto considerarli comunque come movimenti “diclasse”, intendendo con questo termine l’insieme dei soggetti che confliggono con i detentori dellerisorse materiali, culturali e simboliche considerate decisive per una determinata società. Oppurechi, come Gundelach, ha visto agire in essi i “nuovi ceti medi”, composti essenzialmente dailavoratori dei servizi. La relazione tra movimento e classe, dunque, non viene elaborata dallasociologia dei movimenti in maniere univoche, tendenti sempre a sostituire il primo termine alsecondo nella spiegazione delle dinamiche conflittuali della società moderna.La costruzione dell’identità e la ridefinizione dell’ “azione razionale”.L’’importanzaprogressivamente riconosciuta alla costruzione dell’identità come elemento costitutivo delmovimento ha contribuito non poco (insieme alle critiche direttamente rivolte alla “razionalitàeconomica” come principio organizzatore della produzione e della società) a ridiscutere ipresupposti della cosiddetta “teoria dell’azione razionale”, che pretende di dedurre e spiegare tutti icomportamenti sociali sulla base del rapporto costi/benefici. Definendo in tal modo l’azionerazionale, il sorgere dei movimenti apparirebbe come qualcosa di completamente irrazionale, equindi inspiegabile. Come ha infatti chiarito uno dei principali esponenti della suddetta teoria,Mancur Olson, nemmeno i movimenti dovrebbero sfuggire al paradosso del free rider, che consistenel fatto che, quando si tratti della produzione di “beni pubblici”, il singolo non ha interesse apartecipare all’azione collettiva in quanto può fruire dei suoi risultati a prescindere dal proprioimpegno individuale. Per il singolo non è razionale, ad esempio, pagare il biglietto del tram, giacchéè sufficiente che gli altri lo paghino perché il servizio funzioni. Egualmente, non è razionale, per ilsingolo, partecipare ad uno sciopero: astenendosi dal partecipare egli può comunque ottenerebenefici dall’azione (degli altri) senza doverne affrontare i costi. Vero è che, se è generalizzato, ilcomportamento del free rider diviene irrazionale (e qui sta il paradosso): se nessuno pagasse ilbiglietto, e se nessuno scioperasse, non vi sarebbero più benefici per alcuno. Ma, poiché la teoriadell’azione razionale spiega i comportamenti di gruppo a partire da quelli del singolo individuo, epoiché l’individuo è qui considerato solo come una unità di calcolo economico, la conclusione nonpuò essere che una: l’azione collettiva non è (tranne che in casi assai particolari) un’azionerazionalmente motivabile.Molti autori (cfr. in Pasquino) hanno rilevato come l’incapacità di spiegare l’esistenza di fenomenicosì evidenti ed importanti, quali sono i movimenti, dimostri tutte le carenze della teoria dell’azionerazionale. Ed hanno osservato che alle motivazioni meramente economicistiche vanno aggiunte, percomprendere appieno i fenomeni collettivi, quelle di tipo “espressivo”, ossia legate ai valori ed allapiù generale identità sociale. Fra i tanti, Bourdieu ha sistematizzato il distacco dalla teoriadell’azione razionale, sostenendo che vi sono diversi stili di razionalità a seconda dei diversi ambitiin cui gli individui ed i gruppi si trovano ad agire, ed ha parlato, a proposito dell’azione deimovimenti, di azione ragionevole, ossia d’un’azione i cui motivi possono essere razionalmenteargomentati pur non facendo ricorso (o ricorrendo solo in parte) al semplice calcolo utilitaristico.Ma ancora più efficace, forse perché prende le mosse dagli stessi presupposti scelti da Olson,appare la critica proposta da Hirschmann: secondo quest’ultimo, il beneficio ottenuto da chipartecipa all’azione collettiva non deve essere calcolato sottraendo ai risultati i costi sostenuti perraggiungerli (impegno, sacrificio, dedizione), bensì aggiungendo questi ultimi ai primi, giacchél’attività profusa nelle esperienze collettive deve essere considerata, almeno entro un certo limite,non già come un costo, ma come una soddisfazione in sé: lo sforzo, in questo caso, è già premio a séstesso, in termini di riconoscimento sociale e gratificazione simbolica.Peraltro, anche se è indiscutibile che l’analisi dei movimenti sia uno degli ambiti di ricerca in cuimaggiormente sono evidenti i limiti della teoria dell’azione razionale, il contributo di Olson nondeve essere banalizzato. Come hanno notato Tilly e Neveu, insistendo sull’impossibilità di spiegarei movimenti sulla base di una razionalità economicistica, Olson ha enfatizzato proprio il fatto, su cuiqui stiamo ragionando, che i movimenti non possono essere dedotti e previsti a partire dall’esistenzadi interessi materiali convergenti. Per spiegare i movimenti bisogna far ricorso ad un tipo dirazionalità sociale che, anche se non è esclusivamente altruistica o solidaristica, non è certoriducibile al perseguimento diretto di determinati interessi materiali. Questa diversa razionalitàconsiste prima di tutto nella definizione di una identità, e solo successivamente nell’individuazionedegli interessi ad essa conformi. La questione dell’identità è quindi preliminare a quella degliinteressi (Pizzorno). Un movimento non sorge come espressione di interessi dati e dei conflittinecessari a perseguirli: è piuttosto il processo storico nel quale viene ridefinito l’intero orizzontedegli interessi e dei conflitti che innervano una società (Touraine).Conflitti e repertori d’azione: il ruolo della “protesta”. – Spesso i movimenti vengono ridotti, daalcuni dei loro critici, ma anche da alcuni dei loro sostenitori, a puro e semplice conflitto: i primi lofanno per denunciarne un presunto carattere “distruttivo” e non “costruttivo”, i secondi per esaltarnela dimensione “alternativa”. In realtà il conflitto può essere agito dai più svariati attori sociali(partiti, sindacati, lo Stato stesso): quel che caratterizza il movimento è piuttosto la produzione di unconflitto come espressione di un processo di costruzione di una nuova identità collettiva tramitereticoli mobili di individui ed associazioni. Peraltro, senza il conflitto, né una nuova identità né unreticolo organizzativo sarebbero sufficienti a dar luogo ad un movimento: si dà movimento soloquando vi sia un conflitto, più o meno acuto, tra un insieme di attori sociali e uno o più avversari,situati nel sistema sociale o in quello istituzionale, o in entrambi. Tanto è consustanziale il conflittoal concetto di movimento, che la stessa formazione di un’identità avviene in gran parte attraversoun’opposizione, e sfocia in una bipartizione dell’universo simbolico secondo la dicotomia noi/loro.E’forse proprio l’identificazione di un comune avversario uno dei fattori che maggiormente spiegail formarsi di “un” movimento operaio dal coacervo di figure professionali estremamentedifferenziate in cui si articola da sempre (e dunque non solo nell’epoca più recente) l’universo dellavoro (Thompson). Ed è ancora l’individuazione di alcuni centri decisionali a cui imputare laglobalizzazione e la sua forma liberista (WTO, FMI, Banca Mondiale) a consentire l’aggregazionedel movimento altermondialista e l’abbozzo di elementi comuni di identità in un fronte assaicomposito e frastagliato (Della Porta, Agnoletto).L’importanza del conflitto è testimoniata anche dal fatto che la distinzione tra i diversi movimenti(e tra le diverse fasi della vita di ciascuno di essi) fa spesso perno proprio sulla distinzione tra idiversi repertori d’azione conflittuale a cui il movimento fa ricorso. Se la rivolta, il boicottaggio ela distruzione delle macchine segnano gli albori del movimento operaio, lo sciopero e lamanifestazione, quando divengono la forma dominante, segnano, al di là della fase “eroica” e deimomenti più acuti di scontro, anche una tendenziale normalizzazione del conflitto operaio, la suaparziale – e mai definitiva – riconduzione nell’alveo delle fisiologiche negoziazioni sociali. Le fasidi rinnovamento del movimento operaio sono anche fasi di rinnovamento del suo repertoriod’azione, in quanto trasformano le vecchie modalità o ne aggiungono nuove. I conflitti industrialidegli anni ’70 aggiungono allo sciopero ed alla manifestazione la continua contestazione dei ritmi edelle modalità di lavoro. Quelli degli anni ’90, data la relativa difficoltà ad attuare scioperi incondizioni altamente sfavorevoli del mercato del lavoro, incastonano spesso le forme piùtradizionali in un complesso di modalità (boicottaggi, campagne informative) aventi in buonamisura lo scopo di coinvolgere l’insieme delle comunità locali interessate ed un più vasto fronte disoggetti (consumatori, ambientalisti ecc.). Ancor di più, i cosiddetti “nuovi movimenti sociali” sonotali proprio in quanto innovano fortemente l’azione conflittuale, sia perché introducono spessoforme di pratica dell’obiettivo (attuazione di “controcorsi” universitari, associazioni femministe diselfhelp,boicottaggi di imprese inquinanti, ecc.), sia perché attuano momenti di forte protestasimbolica, in gran parte legati all’uso del corpo come mezzo di ostruzione delle strategie avverse ocome mezzo di comunicazione efficace (sitinche costringono le forze di polizia a sgomberidifficili, e quindi maggiormente visibili, ostentazione di nudità, simulazione spettacolare deglieffetti di armi atomiche o chimiche, ecc.). Le forme di protesta simbolica, il cui uso è andatocrescendo dal ’68 in poi, sono ovviamente legate alla diffusione dei media (sia dei mediaistituzionali che di quelli indipendenti e “di movimento”), ed in quanto tali sortiscono un duplice edambivalente effetto, ossia quello di diffondere rapidamente i temi del movimento, aumentandonecosì gli aderenti e l’influenza nei confronti dei decisori, ma anche quello di legare l’azione delmovimento alle forme che sono più facilmente leggibili dai media stessi, a volte a detrimento dimodalità meno visibili, più laboriose ma anche più profonde dell’azione. E’ stato peraltro osservato(Neveu) che la spettacolarizzazione della protesta e la scelta del repertorio in funzione della suacomunicabilità fa sì che i media divengano in un certo senso “attori” del movimento, perchéquest’ultimo tenderà a decidere forme e tempi della protesta in funzione delle disponibilità reali opresunte dei produttori di informazione, i quali, dal canto loro, decideranno se amplificare o menoquesto o quel tema del movimento in funzione delle proprie autonome strategie. In alcune situazionisi possono registrare casi di “movimenti” puramente mediatici e virtuali: episodi occasionali diprotesta enfatizzati dai media, e per ciò stesso in qualche modo efficaci sui decisori pubblici, aiquali però non corrisponde nessun processo di formazione collettiva di una nuova identitàconflittuale.Quanto detto appena sopra è indice di un importante problema, che la riflessione sui movimenti hainiziato ad impostare, ma non ha mai sviluppato appieno: qual è l’effettivo ruolo della protesta nelladefinizione di un movimento sociale? A parere di Tarrow gli episodi di protesta (ancor più dellestesse organizzazioni di protesta) sono la vera punta di diamante dei movimenti, gli atti checonsentono una comunicazione tra questi ed il sistema politico e che possono costringere i decisoria recepire le nuove istanze sociali e a mutare indirizzo. Tanto che i cicli di vita dei movimenti siidentificano con i cicli della protesta (caratterizzati dall’estensione, dall’efficacia, dalla natura delleazioni di protesta), ovvero si identificano con la visibilità del movimento e con la sua maggiore ominore capacità di incidenza sui decisori. Tale impostazione è stata critica da Melucci: leggere imovimenti essenzialmente con la categoria della protesta significa leggerli, in un certo qual modo,dal punto di vista del sistema politico (e, aggiungeremmo, del sistema dei media), che registral’esistenza dei movimenti solo quando questi si presentano attraverso proteste esplicite. Da questoangolo visuale, però, scompare tutto il processo di sedimentazione organizzativa e di elaborazioneculturale che “precede” la protesta, e scompaiono tutti gli aspetti “non negoziabili” dei movimentistessi, i contenuti e le proposte che non sono traducibili nelle forme consentite dal sistema politicodato. Una simile critica alla nozione di protesta (critica avanzata da Melucci per megliocomprendere i movimenti degli anni ’80, che meno degli altri sono riducibili, a parere dellostudioso, agli atti evidenti di contestazione dell’autorità data) riacquista interesse, come vedremo,nell’analisi dei movimenti più recenti.Connesso al problema dei repertori d’azione, ed in particolare alla questione della protesta, maimportante anche per quanto concerne l’identità stessa dei movimenti, è il problema del ruolo delloStato come interlocutore, ma anche come canalizzatore, dell’azione collettiva. Così come i mediaspingono i movimenti verso azioni fortemente visibili ed eclatanti, lo Stato interviene sulla prassi diquesti ultimi, spesso condizionando in maniera assai sottile la formazione dei repertori d’azione.Tale condizionamento può avvenire in maniera programmata o in maniera spontanea. Nel primocaso, precise e deliberate scelte politiche dei governi possono indurre i movimenti all’una o all’altradelle forme d’azione, ad esempio costringendoli, a seguito di una netta chiusura degli spazi politici,a far ricorso alla violenza. Nel secondo caso è piuttosto la forma dello Stato ad essere efficace: adesempio, uno Stato che non contempla meccanismi di welfare, o li riduce progressivamente,favorirà nei movimenti la tendenza alla produzione diretta ed autonoma di servizi (mutualismo,selfhelp,ecc.); al contrario, uno Stato sociale sviluppato tenderà ad includere i movimenti nelprocesso amministrativo, sia interloquendo abitualmente con essi, sia trasformando uno strato deiloro aderenti in amministratori pubblici. Comunque vadano le cose, lo Stato non può mai essereconsiderato come un mero spettatore dei conflitti, né come un apparato che si limiti ad accogliere orespingere le domande sociali, ma è piuttosto un soggetto che attivamente codetermina la formadell’azione collettiva. E ciò vale per tutte le modalità di questa azione, giacché anche nel caso dellerelazioni neocorporative tra sindacati, associazioni datoriali e governo, o nel caso dei gruppi dipressione, lo Stato non è semplice attore tra gli altri, ma elemento che spesso definisce lo spazio e lepossibilità dell’azione degli altri soggetti.Il ruolo dello Stato nella definizione del repertorio d’azione dei movimenti non è, però, che ilsintomo di una più ampia capacità di intervento delle controparti dei movimenti nell’evoluzione enegli esiti di questi ultimi. Il che conferma la tesi secondo cui il movimento deve essere consideratocome un sistema d’azione, la cui definizione implica necessariamente, tra l’altro, la relazione con lesue controparti.Interazioni fra movimenti, Stato e capitale.Continuandoa ragionare sul rapporto fra movimenti eStato si deve considerare che quest’ultimo interviene sulla natura dell’azione collettiva ancheattraverso la formazione degli spazi politici ed attraverso la struttura delle opportunità politiche.Col primo termine si indica il processo di definizione della dimensione territoriale dello Stato (e,comunque, del potere politico) che determina l’ambito d’azione, e quindi spesso anche la forma, deimovimenti che con esso configgono. Come hanno osservato, pur se con accenti diversi, Tilly eRokkan, la nascita degli Stati nazionali contribuisce in maniera decisiva alla politicizzazione deimovimenti, abituandoli a far convergere le loro diverse espressioni attorno alla questione delgoverno, della formazione della classe politica, delle procedure decisionali pubbliche. Anche se ilmovimento non può avere, nei confronti dello Stato, lo stesso atteggiamento del partito, è indubbioche almeno una parte della sua azione (quella più direttamente osservabile) muta le suecaratteristiche quando debba confrontarsi con un interlocutore tendenzialmente unitario edomogeneo, e non più con un coacervo di poteri. Anche oggi la formazione degli spazi politicidimostra appieno la sua rilevanza, giacché è solo la nascita di sedi decisionali sopranazionali a poterspiegare la configurazione assunta dal movimento altermondialista. Ed è proprio il caratteredisomogeneo, tendenziale e comunque non concluso della globalizzazione a spiegare l’inevitabileoscillazione di tale movimento fra azioni globali ed azioni nazionali.Col secondo termine (la cui fortuna si deve al Tarrow) si indica invece la maggiore o minoreapertura di uno spazio politico già istituito, ed istituito come spazio – in linea di principio –democratico. In questo caso diverranno rilevanti il grado di coesione delle classi dominanti (la cuidivisione favorisce il sorgere dei movimenti), le strategie politiche di queste classi (a seconda deicasi, un movimento può essere sollecitato sia da un inizio di progetto riformista, poi interrotto, siadal persistere di atteggiamenti autoritari ed escludenti percepiti come ingiustificati), la forma più omeno accentrata del sistema istituzionale (spesso uno Stato “centralistico” ed un esecutivo fortepossono rispondere alle sollecitazioni dei movimenti meglio di uno Stato decentrato e di unesecutivo sottoposto a molti veti e controlli), il succedersi della fasi di “apertura” e “chiusura” delsistema politico, la maggiore o minore “porosità” dell’amministrazione.In ogni caso, sia che si pensi ai grandi processi di formazione degli spazi politici, sia che si pensi alvariare del “gioco” fra gli attori di uno spazio politico già dato, le ricerche svolte in questo campohanno messo in luce che un movimento non può essere spiegato solo – come sappiamo – facendoricorso alla sua configurazione sociale o alla sua catnet, ma anche indagando le complessecondizioni istituzionali nelle quali si svolge e che, in parte, contribuisce a definire in una costanteinterazione. Così la deriva statalistica che molti ritrovano nella vicenda del movimento operaio(Baumann, Bihr) è spiegabile anche con l’effetto di ritorno di quello Stato sociale che lo stessomovimento ha contribuito ad edificare. Così la relativa indifferenza del movimento altermondialistarispetto al potere politico, e la contemporanea convivenza di molte delle sue strutture con gliapparati amministrativi, sono probabilmente causate dalla particolare forma attuale della statualità,che si presenta come intreccio tra esecutivi (nazionali o sovranazionali) sempre meno influenzabilidalle lotte sociali ed agenzie amministrative aperte, invece, al concorso di molteplici attori pubblici,semipubblicie privati.Sia lo Stato che il capitale riescono però ad influenzare in maniera ancor più profonda la genesi e losviluppo dei movimenti, svolgendo nei loro confronti un ruolo attivo che consiste sia nellaproduzione involontaria dei soggetti che poi, trasformandosi, daranno vita ai movimenti, sianell’integrazione selettiva delle tematiche e degli aderenti dei movimenti all’interno di rinnovatimeccanismi di dominio.Quanto alla produzione involontaria dei soggetti del conflitto, è ovvio riferirsi al rapporto fracapitalismo e proletariato industriale. Nella visione di Marx, fatta propria da quasi tutti i più grandidirigenti dei movimenti socialisti e comunisti del secolo scorso, il capitalismo, concentrando massecrescenti di lavoratori, inducendoli alla cooperazione, sottoponendoli alla stessa disciplinaproduttiva ed agli stessi meccanismi di sfruttamento, favorisce lo sviluppo e la compattezza diquella classe che lo abbatterà. Più recentemente si è ritenuto che questa dialettica non si instauri unavolta per tutte, ma si riproponga ciclicamente, ed in modi nuovi, ad ogni nuova fase di vita delcapitalismo: così l’operaio massificato dell’epoca fordista, la cui nascita fu favorita dal capitalismoanche come antidoto alle capacità di resistenza manifestate dall’operaio di mestiere, dimostreràdiverse ma non minori capacità, opponendosi anch’esso alle mutate forme di sfruttamento. E nuoveresistenze vengono attuate dalle più recenti figure proletarie (individualizzate e precarie) “create”dal capitale come antidoto alla forza dimostrata dall’operaio massificato. Meno ovvia, ma non menonotevole, è la creazione di soggettività critiche come effetto inaspettato dell’azione dello Stato. E’stato più volte notato che il movimento del ’68 ha il suo retroterra anche nella scolarizzazione dimassa. Ed anche i movimenti del secolo appena nato devono una parte della loro genesi ad unaspecifica modalità dell’azione statuale, ossia all’attivazione di una governance che coinvolgenumerose associazioni di “società civile”, deputate, nelle intenzioni dei gruppi dominanti,all’alleggerimento dei costi del welfare, ed alla gestione efficace e “compassionevole” degli effettidel neoliberismo, ed invece rivelatesi sedi di formazione di una robusta opposizione a quest’ultimo.Quanto ai processi di integrazione selettiva, significativi esempi possono essere forniti da alcunidegli esiti dei movimenti degli anni ’70. Nell’ambito della produzione industriale, i lunghi cicli dilotte di quegli anni non sono certamente rimasti senza effetti, giacché non solo hanno condotto adun momentaneo ma significativo rafforzamento dei lavoratori, ma hanno lasciato un segno anchenelle riorganizzazioni e nelle innovazioni introdotte per contrastare e smorzare il conflitto. Nonpochi infatti hanno interpretato le nuove modalità della produzione come una risposta alle esigenzedi autonomia e di libero sviluppo della soggettività avanzate dai lavoratori “fordisti”: il rigidocomando della catena di montaggio è stato sovente sostituito, anche grazie alle tecnologieinformatiche, da un’organizzazione centrata sull’autoattivazione dei lavoratori, che nonobbedirebbero più a minuziose regolamentazioni della loro attività ed ai quali verrebbe invecerichiesta la massima capacità inventiva e relazionale. Per alcuni (HardtNegri,Virno) questetrasformazioni indicano una già avvenuta modificazione strutturale del processo di lavoro, chesarebbe ormai, di fatto, controllato dai lavoratori stessi, e sul quale il capitale eserciterebbe undominio puramente esteriore e parassitario. Per altri (BoltanskyChiapello)il processo di lavororesta saldamente in mano al capitale che ha provveduto ad integrare in esso (ed in maniera distorta)alcune delle esigenze di autonomia individuale segnalate dal movimento, separandole però daquelle di eguaglianza sociale che in precedenza le accompagnavano. Così come la produzione diideologie giustificative del nuovo capitalismo avrebbe arruolato nei propri apparati gli intellettualidi origine movimentista disposti a cantare comunque le lodi della flessibilità, mettendo d’altro cantoa tacere quelli che mantengono un atteggiamento fortemente critico nei confronti dell’attualeproduzione industriale.Analogamente, lo Stato ha integrato nei propri meccanismi di funzionamento alcuni dei temi emersicon forza a partire dal ’68, ed in particolare quello della democrazia diretta. In questo caso, lademocrazia diretta (ridotta quasi sempre alle sue varianti plebiscitarie, referendarie e mediatiche) èstata separata dal nesso che la legava all’autorganizzazione sociale, e si è presentata come critica esuperamento delle tradizionali mediazioni politiche, ovvero come “democrazia immediata” avantaggio di forme di legittimazione diretta dei leader.Ad un livello più profondo, la carica antiautoritaria del ’68 è stata disgiunta dal suo connubio con leistanze di democrazia organizzata ed egualitaria, dissolvendosi nell’esaltazione dell’ “informale”rispetto alla “forma” (tassello non secondario nel processo di dissoluzione del ruolo del diritto), e ditutto ciò che è “basso” contro tutto ciò che è “alto”, travolgendo con ciò non solo il ruolo, ormaitramontato, degli intellettuali “educatori”, ma anche le esigenze di autoeducazione popolare. E leistanze di autonomia del corpo e del desiderio sono state accolte e depotenziate in un raffinatodisciplinamento della sessualità che passa proprio attraverso la sua continua esaltazione e ladefinizione eterodiretta dei modi e delle forme del piacere.Effetti dei movimenti: tra modernizzazione e critica. – L’efficacia di un movimento sociale nondovrebbe essere valutata semplicemente in base ai risultati da esso raggiunti (se per risultati siintendono conquiste immediatamente visibili in termini di norme giuridiche o di mutamento deirapporti di forza), ma in base ai più generali effetti da esso indotti nel complesso della società. Lavalutazione in base ai risultati, infatti, ha senso soprattutto quando si discuta di attori che, come ipartiti o i sindacati, sono formalmente identificabili, hanno canali regolari e prestabiliti di accesso aimeccanismi decisionali, consentono ponderazioni anche quantitative della variazione della loroforza (numero di iscritti o di elettori, “posti” conquistati nell’amministrazione o negli organismiconcertativi, provvedimenti normativi ottenuti, contratti stipulati, ecc.). Gli effetti dei movimentisono invece, in genere, di altra natura, ed a volte possono essere registrati solo dopo un significativolasso di tempo. Se ne può proporre un elenco sommario ed indicativo, ordinato secondo una scalacrescente di profondità ed ampiezza.Al primo gradino di questa scala possono essere posti i veri e propri risultati visibili, che spesso imovimenti comunque raggiungono, ottenendo il ritiro d’una norma contestata o l’approvazione diuna norma invocata. Vanno poi considerati gli effetti più generali sul quadro normativo, checonsistono soprattutto nel mutamento dell’agenda politica, ovvero nella messa all’ordine delgiorno, presso i decisori formali, di tematiche prima censurate o completamente ignorate. Ilmutamento dell’agenda politica può assumere poi, in determinate condizioni, la caratteristicadell’apertura di un vero e proprio ciclo di riforme, o addirittura di un processo rivoluzionario. Sial’uno che l’altro si sostanziano di una profonda trasformazione delle classi dirigenti: ed i movimentisono spesso, ed in maniera crescente, il luogo di formazione delle competenze, dei valori e delpersonale politico che tendenzialmente sostituisce il personale precedente. Ad un livello ancor piùprofondo si colloca, poi, la politicizzazione di temi prima considerati impolitici, ovvero esenti dalladiscussione pubblica ed intangibili da una pratica collettiva di trasformazione: si pensi alla criticadella tecnologia abbozzata dal movimento operaio degli anni ’70, alla fuoriuscita delle tematichedel corpo e della sessualità dalla sfera puramente privata, dovuta al movimento femminista, allacritica di massa iniziata dal movimento altermondialista nei confronti di dinamiche economiche cheerano state invece considerate, negli anni precedenti, come espressione di leggi “naturali”,indiscutibili ed immodificabili. Un effetto ancor più diffuso ed esteso dei movimenti è, infine, latrasformazione dei codici culturali, degli stili di vita e degli orientamenti di valore di numerosissimiindividui, effetto che va ben al di là della stessa politicizzazione di temi impolitici perché riguardaanche comportamenti che, pur non traducendosi necessariamente in azione collettiva, modificanocomunque il tessuto della vita quotidiana e costituiscono il sedimento di lungo periodo e laprecondizione dell’azione collettiva stessa. Lo “spettro” degli effetti di un movimento è dunque,come si può vedere, assai ampio, oscillando dalla trasformazione delle classi dirigenti allatrasformazione dello stesso “popolo”, svariando dalla produzione normativa a quella di forme divita prima inesistenti.L’ampiezza di questi effetti fa sì che il movimento venga spesso considerato come uno dei fattoripiù rilevanti della modernizzazione, ossia della continua trasformazione delle strutture sociali e deicomportamenti, indotta in primo luogo dalla dinamica tecnicoeconomicadella societàcontemporanea. Questa “alta” considerazione del movimento contiene però il rischio d’una suariduzione a meccanismo di adattamento della società alle innovazioni prodotte nella sfera in essadominante, quella, appunto, tecnicoeconomica,riduzione che cancellerebbe la caratteristicaspecifica del movimento stesso, che è la già ricordata capacità di creazione di novità sociali.Riduzione che è coerente con l’interpretazione del movimento come semplice episodiodell’aumento della partecipazione politica, semplice ampliamento della platea dei soggetti abilitati aconcorrere alle decisioni pubbliche. Il movimento oscilla dunque, sia nelle valutazioni che nevengono date, sia nel suo comportamento effettivo, tra l’essere una realizzazione dellamodernizzazione oppure una sua particolare interpretazione, un’interpretazione critica che può sialiberare tendenze che nella modernizzazione sono solo implicite, e che vengono censurate dai poteriche guidano il processo, sia resistere ad una particolare innovazione proponendo soluzionialternative ai problemi dell’organizzazione sociale. La vicenda dei più importanti movimenti deidue secoli scorsi può essere letta proprio come oscillazione fra due diversi atteggiamenti neiconfronti della modernizzazione, come combinazione contraddittoria di processi che da un latointegrano, alla fine, gli attori dei movimenti nelle dinamiche dominanti, e da un lato offrono costantipossibilità di emancipazione. Così il movimento operaio presenta forti tratti di istituzionalizzazione,accanto al risorgere ciclico di forme di autorganizzazione e di produzione autonoma di valori. Cosìil movimento del ’68 ha prodotto un nuovo ceto politicomediaticooscillante fra tuteladell’individualismo e populismo decisionistico, ma anche i saperi ed i valori capaci di interpretarecriticamente la modernizzazione e di costituire il ponte per cicli successivi di azione collettiva.La periodizzazione dei movimenti: cicli e fasi.Illegame del movimento con le ondate dimodernizzazione, le sue particolari motivazioni all’azione (dettate in prevalenza dalla scoperta diesigenze e valori e non dalla fedeltà ad un’organizzazione), l’attività di integrazione selettiva svoltadalle sue controparti, concorrono a spiegare il fatto che la dinamica di ogni movimento realmenteesistente possa essere agevolmente descritta in termini ciclici. Una descrizione che consente anche(a parere di Tarrow e Pizzorno) un approccio realistico alla storia dei movimenti, evitando digridare alla rivoluzione ad ogni nuova mobilitazione collettiva e di leggere nel suo riflusso ladefinitiva scomparsa di un conflitto.Cicli relativamente semplici sono individuati da chi, come Hirschmann, legge i movimenti comeespressione delle fasi di ricerca d’una felicità pubblica, inevitabilmente destinata alla delusione edal riflusso nel perseguimento della felicità privata. Più nota, e forse più significativa, è l’ipotesiproposta da Alberoni: il momento più importante dei movimenti è quello iniziale, aurorale, è lostato nascente, ricco di processi innovativi, al quale si contrappone la successivaistituzionalizzazione, che normalizza l’azione ed attenua la sua carica creativa. Ad un più alto livellodi complessità e di capacità descrittiva si colloca il ciclo della protesta individuato da Tarrow. Aparere dello studioso inglese ogni movimento nasce quando un conflitto strutturale diviene esplicitoe visibile grazie ad una particolare struttura delle opportunità politiche. Alla nascita segue unmomento di espansione connotato soprattutto dall’aumento dei partecipanti e dalla diffusione dinuovi repertori d’azione. Stabilizzatasi l’espansione della partecipazione ed aumentato il numerodelle organizzazioni di movimento, la concorrenza fra queste ultime induce una progressivaradicalizzazione del movimento. Infine, l’effetto congiunto dell’attenuarsi “naturale” dellamobilitazione collettiva da un lato e dell’attività dello Stato dall’altro (fatta, quest’ultima, disegmentazione delle esigenze del movimento, di cooptazione d’una sua parte e di repressionedell’altra) conducono all’estinguersi della protesta, e quindi del movimento stesso, che lasciacomunque, come stabile eredità, un ampliamento delle forme legittime di azione collettiva.A tutte le letture cicliche, spesso indubbiamente capaci di descrivere e prevedere numerosifenomeni, va forse contestata un’eccessiva linearità e, soprattutto, l’attenzione ai soli aspetti visibilidell’azione dei movimenti, che tralascia quei processi di formazione, di evoluzione e disedimentazione che non sono immediatamente evidenti, ma nondimeno possono determinare inmaniera decisiva sia la dinamica d’un movimento che l’apertura di cicli successivi. Utile, da questopunto di vista, risulta la distinzione, proposta da Melucci, tra fasi di visibilità e fasi di latenza d’unmovimento: sono spesso gli aspetti non visibili dei movimenti (la loro elaborazione culturale, laloro più o meno formale tessitura organizzativa) a determinare sia le modalità d’azione piùfacilmente verificabili sia il deposito di valori ed associazioni che prelude a nuove espansioni dellostesso movimento o a nuovi cicli di mobilitazione. La distinzione ha il pregio di non identificarel’attività del movimento con la semplice protesta e di non ridurne gli esiti all’aumento dei soggettidella partecipazione politica ed all’arricchimento delle sue modalità.Problemi posti dai nuovi movimenti.E’lecito supporre che l’esperienza dei movimenti socialisorti a cavallo del XX e del XXI secolo possa in breve condurre ad una revisione di almeno alcunidegli schemi teorici che abbiamo finora descritto.Le più importanti novità sono quelle evidenziate dal movimento altermondialista, la cui nascitaviene fatta in genere coincidere, per convenzione, con le mobilitazioni di Seattle (1999) e di PortoAlegre (2001). E sono novità che riguardano sia le modalità che gli obiettivi ed i soggettidell’azione.Quanto alle modalità d’azione, si può forse dire che quella pluralità di temi e di associazioni che èsempre stata una caratteristica di tutti i movimenti (ed in particolare di quelli della seconda metà delsecolo scorso), diviene col movimento altermondialista non più un semplice dato di fatto, ma unarisorsa coscientemente ed esplicitamente valorizzata. Ad esempio, i diversi movimenti sortinell’Italia degli anni ’70 sono stati considerati come facenti parte di una medesima “famiglia” (DellaPorta) perché esibivano alcuni importanti tratti comuni (antiautoritarismo, tendenza alla democraziadiretta, ecc.). Ma tale unificazione di diverse esperienze sotto una medesima categoria era, ed è,soprattutto un’operazione analitica (per quanto legittima e fruttuosa): nella realtà il movimento deiconsigli operai, quello degli studenti, quello femminista, quello ambientalista e tutte le altreanaloghe esperienze erano, nella loro azione concreta, essenzialmente indipendenti. Le convergenzeerano molteplici e significative, e però quasi sempre occasionali, ed i mutamenti culturali e politiciindotti da quel ciclo di mobilitazione, se pure furono l’effetto dell’insieme dei movimenti, nonsortirono da un qualche coordinamento, ma dal convergere caotico di stili di vita e forme d’azione.Se pure era frequente il caso di persone coinvolte contemporaneamente in diversi movimenti, quellapluralità di appartenenze era vissuta spesso come occasione di conflitti, a volte come scissione dellapersonalità, come costante spinta a scegliere tra un’identità ed un’altra. La stessa pluralitàassociativa era sovente vissuta come un limite, il passaggio dall’una all’altra associazione eratraumatico, ogni dissenso significativo si risolveva spesso (e non solo quando coinvolgeva piccolipartiti) nella costruzione di un’altra organizzazione concorrente con la prima. Il movimentoaltermondialista nasce invece immediatamente come convergenza di associazioni e tematichediverse, che tentano di coordinarsi pur mantenendo autonomia strategica. Il dissenso vienetendenzialmente considerato come un arricchimento delle prospettive e dei repertori d’azione, e lasua espressione non dà luogo a rotture insanabili, ma a differenziazioni che vengono gestitepreservando spazi di attività comune. L’appartenenza plurima viene considerata come unarricchimento della personalità, come il tessuto di base dell’azione unitaria, e viene per questomotivo accettata, quando non incentivata. Ogni singolo movimento monotematico, pur mantenendoil proprio ambito specifico d’azione, converge con gli altri sulla base di comuni valori e, spesso, dicomuni strategie. Se è vero che un tale modello di gestione positiva della pluralità edell’eterogeneità del movimento non è sempre operante, è altrettanto vero che esso fa parte delcodice genetico del nuovo ciclo di mobilitazione, tanto che, quando non si realizza, questo fatto èpercepito come un problema la cui soluzione è essenziale per il futuro della mobilitazione.Se poi si guarda agli obiettivi, risulta chiara l’inadeguatezza di teorie che considerano i movimenticontemporanei come espressione di bisogni “postmaterialisti”, come segnali delle esigenze di unasocietà che ha ormai lasciato alle spalle i problemi della sopravvivenza e può quindi concentrarsisulle richieste di autonomia e creatività individuale. Pur se queste richieste sono fortemente presentinel movimento, i suoi intendimenti (come rileva Della Porta) riguardano allo stesso titolol’appropriazione e la gestione di beni pubblici usualmente considerati come “immateriali” (il sapere,l’informazione, i servizi) e di altri di natura assai più “pesante” (la terra, l’acqua, l’insieme dellerisorse ambientali): tutti ritenuti egualmente essenziali per una sopravvivenza gravementeminacciata dalla globalizzazione capitalistica.Quanto ai soggetti sociali della mobilitazione, infine, v’è una chiara presenza, accanto alle figureche sono frutto dei più avanzati sviluppi tecnologici e produttivi (lavoratori informatici, gestori di”reti”, ecc.), proprio di quegli “ultimi” che la sociologia ha quasi sempre considerato incapaci diapporre il proprio segno distintivo su un ciclo di mobilitazione, e capaci, al più, di parteciparvisuccessivamente ed in maniera subalterna. Valga l’esempio dei contadini, dei popoli indigeni, deglistessi migranti: “ultimi” che sovente sanno dotarsi delle strumentazioni tecniche necessarie ad agirein rete ed a gestire rilevanti aspetti comunicativi e simbolici. Oltre a ciò, è da considerare il fatto cheil nuovo ciclo di mobilitazione rimette in discussione l’idea dell’ormai definitivo carattere postclassistadei nuovi movimenti. In verità, I movimenti attuali, se da un lato sembrano confermare chele ragioni della mobilitazione non sono da ricercarsi nel particolare ruolo sociale degli individui, manelle loro scelte, e se addirittura possono essere interpretati proprio come critica del ruolo sociale inquanto tale e rivendicazione d’una autonomia degli individui dalla loro posizione di classe (Ceri),dall’altro inducono a chiedersi – come già era stato fatto per i movimenti degli anni ’70’80 – se inessi non si registri, invece, proprio l’espressione di ruoli sociali nuovi e particolari. Oggi infatti,oltre alla considerazione della forte presenza (soprattutto nella realtà extraeuropea del movimento)di una notevole componente di contadini e di nuovi proletari (Aguiton), non sono pochi i tentativi diascrivere l’attuale mobilitazione ad uno o più soggetti in qualche modo legati ad una connotazionedi classe: si pensi ad esempio alle elaborazioni di Hardt e Negri (che vedono nella “moltitudine” ilsoggetto produttivo che oggi confligge con i proprietari dei mezzi di produzione) o a quelle, pursituate ad un diverso livello d’astrazione, di Ginsborg (che ripete l’idea d’un “ceto medio riflessivo”come protagonista delle attuali forme di partecipazione democratica). Quel che è certo è che lapresenza delle classi nel movimento attuale, oltre a porre problemi a quella parte della sociologiadei movimenti troppo legata all’idea d’un superamento dei conflitti tradizionali, ne pone anche allasociologia delle classi. Se infatti è vero che le classi partecipano come tali al movimento, è anchevero che lo fanno non più ponendosi come soggetti esclusivi o egemoni, votati essenzialmente alconflitto di lavoro, ma come parti di ampie coalizioni aventi una vasta gamma di obiettivi. E se èvero che il movimento rappresenta anche la forma di mobilitazione politica di nuove classi, o dinuove frazioni della “classe lavoratrice” (come, ad esempio, i lavoratori dei servizi o, ancor di più,quelli del “terzo settore”), è anche vero che questa mobilitazione non si traduce immediatamente inrivendicazioni economiche, ma nella richiesta di poter esprimere appieno un particolare ruolo nellaproduzione di rapporti sociali solidali. Cosa che conferma, ma allo stesso tempo modifica eradicalizza, il già noto assunto secondo cui una comune collocazione “strutturale” non spiegaautomaticamente la nascita di un movimento, né si esprime automaticamente in comunirivendicazioni economiche. Sembra oggi che l’azione culturale ed associativa che prima rendevaesplicita una comunanza di intenti e di interessi in qualche modo “già data” nella realtà produttiva,sia divenuta piuttosto, per molti lavoratori, il modo stesso della creazione di una comune condizionedi classe. Riassumendo, e semplificando al massimo, si può dire che, se l’analisi ha finora oscillatotra l’idea d’una “classe” come espressione di un comune ruolo sociale e l’idea d’un “movimento”come effetto d’una miriade di scelte indipendenti dal ruolo, oggi siamo forse di fronte ad una nuovaclasse il cui comune ruolo sociale viene costruito proprio attraverso le scelte (e le reti associative)che conducono al movimento.In conclusione, deve essere indicata una più generale modificazione del ruolo dei movimentirispetto alla società ed allo Stato. Se da un lato il movimento altermondialista non sembra per oraconcentrarsi né sulla richiesta della proprietà dei mezzi di produzione, né sul problema dellaconquista dello Stato, e sembra piuttosto sviluppare le tendenze, già presenti nei movimentiprecedenti, all’autorganizzazione economica e politica, dall’altro la sua composizione, e lacomposizione dei suoi avversari (capitale e Stato), lo inducono a superare il ruolo tradizionalmenteassegnato ai movimenti anche dalla sociologia più vicina ad essi: il ruolo, cioè, dei soggetti che,facendo ricorso essenzialmente alla protesta, formulano domande a cui le istituzioni economiche epolitiche devono dare risposte. La notevolissima densità associativa del movimento e la fortepresenza, in esso, di capacità specialistiche spesso assai elevate, fanno sì che il movimento non siaassolutamente riducibile ad una funzione di protesta, formuli contemporaneamente le domande e lerisposte, segnali problemi e definisca soluzioni. D’altro canto, un capitalismo ormai interessatoquasi esclusivamente all’aumento del valore per gli azionisti (e quindi al profitto a breve termine) edun ceto politicoamministrativodecisamente tecnocratico e privo di quelle linee di connessione conla società che una volta erano assicurate dai partiti (oggi sostituiti dal marketing politico e dalleagenzie specializzate in sondaggi), non sembrano affatto in grado di leggere le domande sociali,prima ancora di poter approntare le opportune risposte.Sembra insomma che il movimento attuale sia in qualche modo costretto a tentare esiti diversi daquelli, pur importantissimi, dei movimenti precedenti, non potendo accontentarsi degli effetti dellasedimentazione culturale e dell’ampliamento della partecipazione politica, non potendo ridursi amero episodio di una modernizzazione che oggi appare assai problematica. Su di esso incombequindi, probabilmente, il compito che un tempo fu del partito: quello di formarecontemporaneamente il “popolo” (strutturandone le richieste, elaborandone la cultura) e una nuovaclasse dirigente che non si limiti a lasciarsi cooptare negli apparati preesistenti. Un compito difficileda teorizzare per la sociologia politica, abituata da decenni a contrapporre concettualmentemovimento e partito, ma ancor più difficile da realizzare per il movimento stesso.
Mimmo Porcaro, Vedi alla voce ” Movimento”
Mimmo Porcaro, Vedi alla voce ” Movimento”ultima modifica: 2008-06-25T00:46:32+02:00da
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