Carlo Diana, L’utopia una peste buona

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dal sito di APRILE,
ripreso dalla mailing list del circolo Rosselli

CARLO DIANA, L’utopia una peste buona, 24 GIUGNO 2008

sul libro MODUS VIVENDI di Zygmunt Baumann
nella foto Z.BAUMANN

L’approfondimento Nel suo Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Zygmunt Bauman restituisce un senso di grande attualità a questo concetto capace di spingere l’uomo ad impegnarsi per il cambiamento del reale e quindi anche per una vita collettiva e individuale migliore
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Bauman è un autore prolisso e prolifero, pubblica quasi ogni anno. Ricorda molto J. Rifkin per assiduità di pubblicazione e prolissità. L’ultimo capitolo di “Modus vivendi” è il più prezioso, il più bello, perché raccorda l’analisi sociologica dei giorni nostri ad alcuni capisaldi del pensiero filosofico di rottura fra medioevo e modernità. E’ l’analisi dell’utopia, partendo da “Utopia” di Tommaso Moro. La sottolineatura della linea di demarcazione fra mondo premoderno e modernità è affidata all’idea di cambiamento, al sentimento di speranza, assente in un mondo piatto dai confini fisici e psicologici definiti, predeterminati, stabiliti una volta per sempre. L’utopia è l’incunearsi di un progetto di cambiamento capace di sovvertire il sentimento di rassegnazione a disuguaglianza, ingiustizia, povertà. E’ la speranza che si fa progetto e smuove risorse umane psicologiche, prima individualmente e poi, come il propagarsi di una peste buona, collettivamente. Bauman non ne parla, ma sullo sfondo si sente forte l’influenza dell’aspetto religioso sull’idea di rassegnazione su cui il mondo premoderno poggia. Ed il medioevo appare come una transizione, e la rassegnazione temporanea stagnazione della speranza ad una vita migliore. Appena prima, il mondo greco non poteva coltivare un’utopia perché la viveva, culmine di altri processi storico-psicologici che sempre hanno visto l’uomo proiettato al cambiamento. Nella Grecia antica la divinità non era di là da venire ma presente, agiva nella quotidianità, interveniva col suo senso di giustizia -non sempre pienamente comprensibile- a punire, premiare, preordinare eventi, censurare comportamenti. Una divinità tanto simile alla umanità che ne esalta i difetti incarnandoli nel dio.

Di questo aspetto Bauman non dice apertamente, ma va da sé che la fine del medioevo arriva da Nord, è strettamente legata al larghissimo consenso che le idee di Lutero prima e Calvino poi raccolgono fin giù a Roma. Riforma e Controriforma segnano lo spartiacque di due epoche. Rinascimento e Barocco sono la rappresentazione matura di comportamenti sociali ed espressioni artistiche costruiti per alcuni decenni sulla speranza. Speranza che un cambiamento è possibile, utopia di una vita migliore per tutti.
Bauman tratteggia le figure di “guardiacaccia” e “giardiniere” come metafore di comportamenti sociali. Il primo riguarda l’attività di conservazione dell’esistente, propria del premoderno, nell’idea che tutto sia già in equilibrio ed il male ed il bene siano equamente distribuiti secondo previsione di natura benedetta da Dio. Il giardiniere vi si contrappone, nella modernità egli esalta l’autonomia umana e la scelta d’un progetto che modifichi gli assetti naturali, nella speranza di costruire un equilibrio migliore a beneficio di tutti. L’utopia è la morte della rassegnazione e figlia della speranza. Ma se la storia sentenzia che nessuna utopia si è mai realizzata, scrive anche che in quella tensione ideale e nella pretesa di realizzala l’itinerario è costellato di conquiste a favore della condizione umana. L’attività del giardiniere, per quanto arbitraria e dissacrante (o forse proprio per quello) innesta cariche psichiche individuali e collettive capaci di svegliare propensioni psicologiche assopite e frustrate per secoli. Il medioevo va oltre la rassegnazione, divinizza gli immutabili equilibri di natura disegnando la figura di parassita psicologico adottato da un femminino mortifero (madre natura immutabile) che destina l’uomo a stanziarsi, lo ferma, lo condanna al rachitismo culturale e lo schiaccia nella sua immutabile condizione di nascita.

Ma le utopie sembrano potersi coltivare finchè l’istanza è rivolta ad un’autorità che può rispondere. Per tutta la modernità e nell’epoca contemporanea lo stato nazionale ha rappresentato l’interlocutore finale e l’arbitro di ogni rivendicazione sociale, di qualsiasi progetto di cambiamento. La post-modernità segna la cessione graduale di quote di sovranità nazionale ad organismi sovranazionali e sposta i centri decisionali fuori dal contesto sociale dove il conflitto si consuma. Ad una rivendicazione locale si risponde con una norma europea; contro una rivendicazione di salvaguardia del diritto all’acqua potabile in un paesino, si dispone l’intera strategia organizzativa della Banca Mondiale che arriva fin dentro la delibera comunale ed affida all’impresa “acqua pulita s.p.a.” della regione l’autorità di aumentare a dismisura i costi dei servizi idrici e chiudere i rubinetti in caso di morosità. I comportamenti sociali nell’epoca della globalizzazione devono scontare questa asimmetria spaziale tra domanda sociale e risposta istituzionale. L’autorità pubblica nazionale è vissuta essenzialmente per la sua funzione burocratica. Ha perso l’autorevolezza insita nella sua funzione pubblica, degradata a ruolo notarile. Le domande sociali, pure a forte contenuto utopico, vengono ricacciate nel privato dove irrimediabilmente impoveriscono. Cittadini tendono a rimpicciolire in consumatori, utenti e clienti. La domanda collettiva di soddisfazione di bisogni pubblici viene polverizzata in richiese individuali del cliente-consumatore all’azienda di produzione. Per questa via il mezzo per la soddisfazione del bisogno collettivo non sta più nell’attività di rivendicazione all’autorità pubblica ma si sposta nella possibilità privata di accaparrarsi i mezzi/ricchezza necessari per provvedere autonomamente, in solitudine. L’attività di progettazione della utopia rinsecchisce in quella del “cacciatore” . Da guardiacaccia della natura immutabile a giardiniere d’una esistenza tutta da costruire e progettare, l’uomo postmoderno si fa cacciatore di possibilità apparentemente infinite. Egli deve procurarsi selvaggina ad ogni costo, competere con un infinito numero di altri cacciatori. Se boschi e foreste in realtà infiniti non sono, egli non se ne cura, il problema non è suo e non deve risolverlo lui. Egli misura il futuro come fanno i bimbi, a ore, a giorni. Finchè avrà un cespuglio sotto il naso ed una mosca zoppicante da catturare, il cacciatore del terzo millennio non riuscirà a connettere il problema delle risorse al tempo. Non avrà un progetto che ecceda il proprio immediato appetito, non un’idea di costruzione faticosa di un altro modo di vivere, neppure un incontro con l’altro fuori dagli ipermercati di merci e al di là dei bazar del divertimento.

E se diffusamente si parla di utopia come di “irrazionale”, “impraticabile”, “irrealistico”, “irragionevole”, non è solo un segnale di preoccupante scadimento linguistico o di malizioso slittamento semantico. Hannah Arendt nel suo “Vita activa” smaschera tutta l’attività linguistica concentrata sui mutamenti dei significati delle parole e del senso di esse, puntualmente preceduta a sovvertimenti nel mondo del lavoro, nelle previsioni legislative, nel campo dei diritti umani e sociali. Se l’utopia viene relegata nel novero di attività irrazionali, è probabile che presto dovranno incriminare poeti e comici, attori e pittori. Poiché neppure una forma artistica non allineata ai criteri di economicità insiti nell’attività del “cacciatore” può essere tollerata in una società senza utopie.

Carlo Diana, L’utopia una peste buonaultima modifica: 2008-06-26T19:17:33+02:00da mangano1
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