Patrizia Gioia ,La banalità del male

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PATRIZIA GIOIA , La banalità del male, l’invidia del velo e la nostalgia della cellulite.

Troppo spesso diciamo di sì a sterili imbecillità, ci adeguiamo ad un modo, un mondo, credendo di essere, per quell’aderire, già cambiati. Il tempo del cambiamento non ha regole”solo” umane, ma necessita dell’umano perché quel cambiamento avvenga, soprattutto necessita d’amore e di pazienza, come dicono, a memoria mia, le parole di una poesia di Tagore: o uomo scellerato,
non puoi tirare le radici perché il fiore nasca!
LA BANALITA’ DEL MALE
L’INVIDIA DEL VELO
E LA NOSTALGIA DELLA CELLULITE
alla maniera di Patrizia Gioia.
In ricordo di Alessandro e a lui grata.

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Molti anni fa, all’inizio degli anni 70, trascorrevo le vacanze estive sull’isola di Tavolara, di
fronte a Porto San Paolo, Olbia, poco distante da quella parte dell’isola che sarebbe stata poco
dopo eternamente ferita da una delle più robuste operazioni commerciali, trasformando una
natura naturalmente “smeraldo” in una pacchiana innaturalità di esibizione di ricchezza e nudità.

Tavolara era allora un piccolo Eden, niente luce, niente alberghi, acqua attinta dal piccolo pozzo davanti alle capanne di paglia che ospitavano i pochissimi ospiti, amanti di questa selvaggia e profumatissima natura. Si mangiava sotto un pergolato il pesce che si pescava, cucinato da uno
dei due figli del re di Tavolara, la cui tomba s’ergeva, modestamente maestosa rispetto alle altre,
nel piccolo cimitero dell’isola.

Noi eravamo quasi tutti artisti e, con amici giornalisti, uno dei quali sarebbe poi diventato famoso, si giocava la partita della domenica, più o meno alla maniera in cui la descrive Salvatores in Mediterraneo.
Noi ragazze eravamo serie e spregiudicate, le prime a toglierci il reggiseno senza tanto pudore. Avevamo seni piccoli, ancora adolescenziali, che stavano in una coppa di champagne, diceva
sempre un nostro amico. Io ogni sera verso le sei, nella mia capanna, massaggiavo, picchiettando rumorosamente il palmo delle mani sulle cosce, la crema anticellulite e dall’altra capanna, ormai un rituale, il mio amico mi faceva il verso cantando: “applausi”, in accordo con le mie vigorose manate
e in disaccordo con una cellulite che avrebbe sempre disubbidito nonostante la mia diligenza.

Bei tempi, anche la cellulite può divenire nostalgia.
E bel tempo, qualche temporale che passava subito, un vento che se ne andava sempre un po’ più in là, uscite sul gozzo del bell’Enrico, chiacchierate fino a tarda ora con bicchierini di “fil u ferro” ( la grappa distillata di contrabbando) che aprivano il cuore e scioglievano la lingua disegnando parole e sogni che sentivamo possibili e molti dei quali si sarebbero realizzati.

In uno di questi anni, un amico di Bergamo, figlio di un importante avvocato della penisola e amico di un altrettanto importante avvocato dell’isola, ospitò con i suoi bambini la figlia di questo avvocato, una bella bambina che poteva avere circa sei, sette anni, e, udite udite, la bambina non era mai stata al mare e soprattutto non si era mai messa in costume da bagno.

E noi, madri, l’accogliemmo praticamente quasi nude e la costringemmo a spogliarsi, (davvero
la costringemmo perché lei non voleva!), davanti a noi tutti e a mettersi il costume da bagno
della sua amichetta.
Ditemi se questa non è violenza, di cui eravamo tutte, almeno spero, inconsapevoli.
Ci sembrava naturale visto che volevamo cambiare il mondo, era invece un altro modo per non cambiarlo affatto, non era emancipazione la nostra, ma una mortificante inconscia vendetta, del resto la “giusta via” è riportare in equilibrio gli opposti che vivono in noi e fuori di noi, è ritornare in armonia e l’armonia è Amore.

E ancora oggi, ogni volta che “vogliamo” che una donna si tolga il velo è violenza, pura violenza, perché il velo è un simbolo che “significa” qualcosa di culturalmente penetrato nella carne ( spirito e corpo inseparabili) e non comprenderne l’importanza è ignoranza, e l’ignoranza genera, sempre, violenza. Velata o no che sia.

Per una donna islamica i capelli rappresentano la sensualità e, come parte erotica, sacra, da tenere “velata” , da rispettare e onorare ( del resto anche noi si entrava in Chiesa coprendoci il capo col velo). Così come per noi donne occidentali ( almeno un tempo) i nostri seni la rappresentavano e chiedere a queste donne, anzi pretendere da loro, di togliersi il velo, è la stessa violenza che noi donne occidentali abbiamo fatto a noi stesse, arrivando poi, e parlo per me, a farla a quella bambina.

Naturalmente sto parlando “al di là” di un velo e di un reggiseno, sto parlando del “fare sacro”,
e dell’attenzione di che cosa si sacrifica ogni volta, chè se non pienamente illuminato in noi, farà sempre nuove vittime.
Oggi me ne rendo conto e, credetemi, provo un grande dolore, per quello che oggi “sento” che quella bambina può avere allora provato dentro il suo piccolo cuore e provo dolore per me, per
il “bello” che oggi so che mi sono “tolta” togliendomi “banalmente” un reggiseno, e un dolore ancora più grande per il “bello” che vorremmo togliere a chi ancora “il bello” lo vive, sacralmente
e umanamente, il velo per esempio.

Troppo spesso diciamo di sì a sterili imbecillità, ci adeguiamo ad un modo, un mondo, credendo
di essere, per quell’aderire, già cambiati. Il tempo del cambiamento non ha regole”solo” umane,
ma necessita dell’umano perché quel cambiamento avvenga, soprattutto necessita d’amore e di pazienza, come dicono, a memoria mia, le parole di una poesia di Tagore: o uomo scellerato,
non puoi tirare le radici perché il fiore nasca!

E se fosse invidia la nostra? Un’altra, seppur “velata”, forma di vendetta e d’ignoranza?
La nostra parte sacrificata che torna e chiede giustizia.
A noi? Noi che ci consideriamo “gli sviluppati”?
E se fosse nostalgia di quel che abbiamo perduto e che invece ancora loro hanno e vivono e gioiscono. Più o meno come la nostalgia della cellulite.?

Non si tratta di dire che loro sono giusti e noi sbagliati, o viceversa, si tratta di fermarci e di interrogarci su chi siamo e cosa stiamo facendo.
L’interculturalità è a questa conoscenza ( coscienza) e nuova sensibilità e responsabilità che ci invita e ci chiama.
Guardando l’altro posso conoscere meglio me stessa.
La violenza perpetrata su quella bambina mi ha permesso di vedere la violenza fatta a me stessa
e l’ascolto del suo dolore mi ha fatto incontrare il mio dolore più in profondità.
Ogni cultura è una forma di pensiero, altro dal nostro, a volte talmente altro che ci spiazza ed è proprio lì che dobbiamo fermarci ed ascoltare. Farci fecondare, fertilizzarci a vicenda, scoprendo anche qualcosa che dobbiamo imparare ad accettare, pur senza comprenderlo, magari non condividendolo affatto, ma guardandolo ed incontrandolo: il diverso.
Se riusciremo a fare un passo indietro, a non sentirci meglio di, più progrediti di, più sviluppati di, ma se sapremo ascoltare davvero l’Altro , rispettandolo, rispetteremo ancor più profondamente anche noi stessi, perché ancora più in profondità noi stessi ci conosceremo.
Più conosco un uomo nelle sue meravigliose profondità, più divento donna e viceversa.
E più mi conosco, meno ho paura di perdermi, e meno ho paura meno mi difendo e meno offendo.
E insieme, troveremo un modo nuovo di stare insieme, di vivere in maniera differente il mondo,
che è in relazione ad ognuno di noi.

Oggi posso chiedere “perdono” a quella piccola bambina, oggi che ho perdonato me di quello che di me ho “violato”.

Patrizia Gioia, alla mia maniera
30 giugno 2008
In ricordo di Alessandro e a lui grata.

Patrizia Gioia ,La banalità del maleultima modifica: 2008-06-30T12:51:02+02:00da mangano1
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