Franco Russo, ” Vogliamo un altro mondo” di Piero Bernocchi

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da LIBERAZIONE 5 LUGLIO 2008
Franco Russo

“Vogliamo un altro mondo”. Un libro di Piero Bernocchi indaga i movimenti politici di massa dal Sessantotto ai Social forum

Cercasi disperatamente società
La sinistra oltre l’autorappresentanza

(Piero Bernocchi, Vogliamo un altro mondo , Datanews (pp. 203, euro 14)

Usando la “grande divisione” tra prescrizione e descrizione, si può utilmente dar conto dello sforzo di elaborazione compiuto da Piero Bernocchi, Vogliamo un altro mondo , Datanews (pp. 203, euro 14), dicendo subito che le prescrizioni, indotte dalle pratiche di movimento, sono convincenti, tranne quella sulla nonviolenza, mentre sulle descrizioni delle dinamiche politico-sociali trovo delle accentuate semplificazioni. La tensione teorica ruota intorno al concetto di “movimento politico di massa”, che supera la scissione tra “politico” e “sociale” minando così alla radice il ruolo del partito, e delle avanguardie in generale. Si parte da una citazione del Che fare? di Lenin, che teorizza una coscienza tradeunionistica della classe operaia capace di trasformarsi in coscienza politica solo grazie all’intervento delle teorie filosofiche frutto delle élites intellettuali (transfughe dalle classi borghesi). A ragione Bernocchi si chiede come questi “custodi platonici” possano essere “custoditi”: chi garantisce che essi operino per la classe e non contro i suoi interessi? L’esperienza storica dimostra che le avanguardie diventano oligarchie che perseguono i propri interessi e combattono le loro lotte intestine in nome della linea giusta, ogni fazione ritenendo di essere l’interprete autentico del proletariato.

Il ’68 ha esercitato una critica di massa a questa visione oligarchica e autoritaria della politica, che ha comportato una “statalizzazione della società”, aprendo la via a quella che Pino Ferraris ha definito una rivolta “protestante” contro l’elitismo e il burocratismo: come Lutero chiamò ogni cristiano a interpretare da solo la Bibbia senza l’intermediazione della Chiesa, così il Sessantotto fece politica senza i partiti e senza burocrazia.

Una seconda “lezione”. Si è sempre presupposto che il soggetto della trasformazione fosse il solo proletariato, essendo la contraddizione fondamentale quella tra capitale e lavoro; l’esperienza di questi decenni mostra che il conflitto radicale abbraccia una pluralità di sfere, senza che tra di esse possa essere stabilita una gerarchia: il patriarcato, l’ambiente, la questione del territorio dell’energia dell’acqua e dei beni comuni, così come il “lavoro mentale” prodotto dalla rivoluzione informatica, sono esempi dell’allargamento dei fronti anticapitalistici. Per questo tra i movimenti, anche tra quelli di singolo scopo (single issue), non si devono stabilire una scala di priorità, dovendosi invece prevedere forme di “patti di mutua assistenza” per dar maggior vigore alle rispettive lotte. Quest’impostazione paritaria dei diversi movimenti, di qualsiasi dimensioni essi siano, discende da una trasformazione strutturale: la mercificazione globale che pervade l’intera società e la vita di ognuno/a. Essa comporta una pluralità di conflitti che aprono la via alla “grande e radicale trasformazione” della società borghese, perché in grado di contestare ogni aspetto della vita sociale e personale. Nel passato si è creduto che la rivoluzione proletaria, con la presa del potere, desse luogo automaticamente alla trasformazione di ogni aspetto del vivere associato – si pensava addirittura alla nascita dell’uomo nuovo (il maschile era di rigore!) – ora la pluralità dei conflitti rende possibile contrastare i micro e i macropoteri: dalle relazioni di coppia alla subordinazione gerarchica in fabbrica, dalle scelte sessuali alla critica degli oppressivi valori tradizionali.

La quarta indicazione frutto delle pratiche dei movimenti è che la sostituzione del mercato – giustamente indicato come luogo di verifica dell’efficienza delle scelte produttive degli imprenditori -, se vuole evitare di cadere nella pianificazione centralizzata le cui scelte vengono invece affidate al partito-Stato e alla burocrazia economica, richiede una piena trasparenza della rappresentanza dei bisogni, dunque richiede democrazia partecipata e consensuale. Cosa, come, dove, chi deve produrre, tutto ciò non essendo più devoluto agli imprenditori privati o allo “Stato proletario”, deve essere il frutto di processi decisionali democratici per “tentativi ed errori”: questo nuovo tipo di democrazia, che non aggrega le preferenze ma le modifica nel corso delle procedure deliberative, può condurre a decisioni consensuali. Le modalità operative del Social Forum ne sono una sperimentazione e un’anticipazione. Va però notato che in esso si trattano questioni politiche, di mobilitazione, e non produttive e sociali: non si discute di come organizzare e di quante risorse destinare alla scuola, o alla riforma agraria o alle fonti rinnovabili. Siamo, nel Social Forum, ancora allo scambio di opinioni, non alla rappresentanza di bisogni. Con ciò non svilisco le pratiche discorsive del Social Forum, che, anzi, senza presunzioni accademiche, attuano metodi elaborati dai teorici della democrazia deliberativa, da Jon Elster in forma magistrale.

Sulla nonviolenza, a mio parere, Bernocchi formula giudizi che non vanno alla radice dei problemi. Questi sono nel fatto, posto in luce da M. Kaldor, che le guerre, di Stato o di resistenza, sono oggi guerre contro i civili, e che sia gli Stati sia i “resistenti” operano secondo il paradigma del “nemico combattente”: hors la loi, al di fuori della legge umana, dunque espressione del male assoluto e come tale “degno” di venire eliminato. Da qui le pulsioni fondamentaliste. A fronteggiarsi sono Bush e bin Laden: ambedue incarnazioni, l’uno per l’altro, del bene e del male metafisici. Carl Schmitt ce lo aveva ben spiegato già nella teoria del partigiano. Inoltre non si può liquidare l’enigma storico del perché ogni movimento di liberazione armato ha prodotto una società militarizzata. In Italia, la Resistenza è stata volta a sconfiggere i nazifascisti per dare vita a una Costituzione, di cui è fondamentale la norma precettiva di ripudio della guerra (il famoso articolo 11). Questo ripudio non vale solo per e tra gli Stati, vale sempre e per tutti/e: altrimenti da valore assoluto, diviene un valore dimezzato nelle disponibilità della politica, cioè della ragion di Stato.

Non sono uno storico, per questo non ho mai scritto sul ’68, però sul filo della memoria vorrei sostenere la tesi del “Sessantotto breve” contro quella del “decennio rosso”. Siamo tutti d’accordo che dopo il 1968 avvennero una degenerazione dei gruppi con i “loro mille Lenin” e la formazione di un ceto politico di movimento; quello su cui dissento è che ci sia stato un decennio rosso plasmato politicamente dai gruppi o dai movimenti sociali. Che negli anni Settanta, è peraltro la tesi di Piero Sansonetti, non ci sia stato solo terrorismo ma una “civilizzazione” e modernizzazione del Welfare italiano, è altrettanto indubbio. Il mio punto è: chi le guidò? Non i gruppi, questa è la mia risposta. Non lo furono perché essi – invece di tematizzare, cioè di dar e rendersi conto delle esperienze che si andavano sperimentando – si rifugiarono nelle ideologie del passato: lungi dallo scavare, ed è solo un esempio tra i tanti, nell’antiautoritarismo (nelle scuole in fabbrica in famiglia), e svolgerlo nelle sue implicazioni, essi affissero gli occhi sulla vetusta teoria del potere. Il “lavoro di lunga lena” non venne intrapreso e quando si trattò di contendere il campo al PCI e al sindacato con proposte innovative, i gruppi ebbero una contorsione autoreferenziale.

Valgano i fatti. Lo Statuto dei lavoratori porta la firma del socialista Brodolini, e fu il frutto dell’elaborazione di Gino Giugni, guidato dalle teorie di Sinzheimer e Kahn-Freund su “legge e lavoro”: venne contrastato dall’estrema sinistra in quanto riformista. La legge sull’aborto fu dovuta alla pertinacia dei radicali e alla diffusione del femminismo; quella sul divorzio porta la firma di Baslini e Fortuna, e al referendum abrogativo del 1974 i gruppi furono pressoché silenti; la riforma sanitaria è del 1978 quando i gruppi erano finiti. Certo si dirà, tutto ciò si ottenne grazie alla presenza dei movimenti di lotta. Il punto, ripeto, è chi politicamente guidò la fase. Come Bernocchi, ho sempre avversato il PCI per la sua cultura nazionalpopolare e la sua politica di compromesso, ma esso con la CGIL fu la guida del “decennio rosso” post Sessantotto, traendone i benefici in termini elettorali, di egemonia e di governo.

Anche nelle fabbriche si ebbe un poderoso, duraturo, movimento, in cui prevalsero però i consigli di Trentin e Carniti: comitati di base e assemblee operaie sparirono o furono assolutamente residuali. La stessa storia politica del femminismo ci dice che essa con i gruppi ebbe alla fine poco a che spartire, tanto che mise in crisi Lotta continua, e che molte sue rappresentanti scelsero il PCI di Berlinguer. Vedere una continuità dei movimenti al di là della valenza politica, mi pare un esercizio consolatorio: ben scavato vecchia talpa! Ma c’è stata la talpa?

Ci sarebbe un’ultima questione, di assoluto rilievo teorico, che enuncio soltanto: la rappresentanza. Bernocchi è sempre molto pungente contro i professionisti della politica, a cui per ora contrappone ciò che a mia volta chiamo i professionisti del movimento e dell’associazionismo. In verità il grande tema, posto dal giovane Marx – si legga la straordinaria pagina della Critica della filosofia del diritto : «ogni funzione è rappresentativa: come il calzolaio è mio rappresentante in quanto soddisfa un bisogno sociale, come ogni uomo è rappresentante dell’altro uomo» – cioè della reciproca rappresentanza dei bisogni non è stato risolto. Essa implica la fine della rappresentanza “politica”, e che ognuno/a svolga un’attività produttiva socialmente utile per gli/le altri/e. Altrimenti saremo solo dei “preti”, che rivendicano il potere esclusivo di cantar la messa del “bene comune”. A dirlo è sempre il giovane Marx.

05/07/2008

Franco Russo, ” Vogliamo un altro mondo” di Piero Bernocchiultima modifica: 2008-07-05T19:03:37+02:00da mangano1
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