Liberalismo e limiti della giustizia. La critica comunitaria di Sandel e MacIntyre
di Michele Franceschelli – 15/07/2008
Fonte: anchesetuttinoino
Liberal o comunitari?
di Manuel Zanarini – 16/07/2008
Fonte: anchesetuttinoino
RECENSIONE A Marcello Veneziani, “Comunitari o liberal. La prossima alternativa?” (Laterza,2006)
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“NON GLI EGOISTI MA GLI ESTRANEI, A VOLTE BENEVOLI, SONO I CITTADINI DELLA REPUBBLICA DEONTOLOGICA”, Michael Sandel,
“Il Liberalismo e limiti della giustizia”
Michale Sandel fa parte del gruppo di autori americani
riconducibili al movimento comunitarista di Etzioni;
stiamo parlando, oltre che allo stesso Sandel, di Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Robert N. Bellah, Michael Walzer, Roberto Mangabeira Unger.
In questo articolo cercherò di mettere in luce alcuni degli aspetti che contraddistinguono il pensiero di Sandel e MacIntyre.
Con diverse differenze tra di loro, questi autori condividono la tesi che individua nella caducità, banalità e incompletezza
dei rapporti sociali, nella perdita dei sentimenti di appartenenza, nell’inettitudine di arrivare ad una qualsiasi formulazione della
nozione di bene comune, i tratti più evidenti della crisi che avvolge le società moderne.
Nel suo libro “Il liberalismo e limiti della giustizia” edito da Feltrinelli 1994, scritto con un linguaggio accademico e poco divulgativo, Sandel si dilunga ad analizzare e a criticare le tesi di John Rawls, autore della celebre “Teoria della Giustizia”, 1971, nella quale Sandel ritrova tutti i presupposti teorici che fondano i disagi della modernità sommariamente sopra elencati.
Rawls viene considerato come uno dei più importanti assertori moderni della visione neutra e procedurale della democrazia. Le sue idee hanno infatti influenzato notevolmente il pensiero liberal-democratico del XX secolo, e il suo libro rappresenta un’opera di filosofia politica fra le più studiate del novecento.
Quella intrapresa da Sandel non è pertanto una semplice querelle accademica, ma una sfida rivolta contro una delle punte di diamante della rinascita del contrattualismo. A tal scopo l’Autore analizza puntigliosamente le tesi di Rawls, mettendone alla fine in evidenza l’inevitabile conseguenza: la progressiva scomparsa della comunità dalla vita sociale del paese.
La tesi di Rawls si incentra sulla formulazione della giustizia come equità, sulla tesi della posizione originaria e del velo di ignoranza.
Pur con diverse sfumature, sono formulazioni tipiche facilmente rintracciabili all’interno della scuola teorica liberale e neutralista.
La giustizia come equità di Rawls, la sua teoria liberale della giustizia, aspira infatti a situarsi in uno spazio super partes rispetto alle diverse concezioni morali che si contendono il campo della sfera pubblica delle democrazie occidentali; la base imprescindibile per l’erezione di una società giusta ed equa nei confronti delle diverse anime che ne fanno parte è identificato nella neutralità del consesso politico.
Per fondare la sua idea di neutralità e imparzialità delle istituzioni, Rawls ricorre alla sua teoria della posizione originaria, che non è che una riedizione dell’idea del contratto sociale.
All’inizio, all’origine delle società umane, è immaginata da Rawls una situazione iniziale di scelta, la posizione originaria appunto, in cui i cittadini sono chiamati a scegliere i principi di giustizia su cui fondare il modello di cooperazione sociale.
I cittadini nella posizione originaria si trovano in una condizione speciale: per i criteri della loro scelta essi non ricorrono alle loro identità particolari, alle loro doti naturali, alla loro collocazione sociale o alle proprie concezioni del bene; su tutte queste informazioni viene steso un velo d’ignoranza, che non le rende utili e disponibili per una scelta come questa, di portata generale.
Il velo di ignoranza permetterebbe di valutare impersonalmente i principi di giustizia su cui si definiscono i termini equi per la cooperazione sociale e di scegliere questi ultimi razionalmente.
In queste tesi Sandel rintraccia le fondamenta teoriche della disgregazione sociale, dell’ individualismo radicale, dell’ anomia, dell’ egoismo,
e quindi della progressiva scomparsa della comunità dalla vita sociale del paese. La dimostrazione di ciò è data dalla visione complessiva dell’uomo che fonda teorie di Rawls: affinchè la giustizia liberale sia la prima virtù infatti, di noi devono essere vere certe cose, in primis quello di considerarci come essere indipendenti dagli interessi e dai legami che possiamo avere in ogni circostanza. In questa visione non dobbiamo immedesimarci nei nostri obiettivi ma sempre avere la facoltà di situarci un passo indietro per passarli in rassegna ed esaminarli ed eventualmente rivederli.
Accanto alla nozione di io indipendente Sandel evidenzia la visione dell’universo morale in cui quest’io deve abitare: l’universo dell’etica deontologica.
L’universo dell’etica deontologica è un luogo sprovvisto di significato intrinseco, un mondo senza un ordine morale oggettivo in cui è possibile appunto concepire un io indipendente, un soggetto staccato e anteriore ai suoi scopi e ai suoi fini.
Quest’ etica deontologica non ha la capacità di riscattare la sua promessa liberatoria nei confronti del soggetto, ma al contrario lo rende schiavo delle circostanze di cui si riteneva dovesse essere padrone. Infatti quello che succede ad un io indipendente quale ci viene presentato nella posizione originaria, non è un io sovrano capace di scegliere volontariamente, ma un io che si trova in balia innanzi ad una scelta puramente preferenziale di desideri preesistenti, indifferenziati in quanto a valore, con i migliori mezzi per soddisfarli.
Ancora più profonde le considerazioni in merito alle conseguenze che l’etica deontologica ha sulla nostra vita morale.
La deontologia insiste nel volere che noi ci riteniamo io indipendenti, indipendenti nel senso che la nostra identità non è mai legata ai nostri obiettivi e ai nostri affetti.
Considerarsi indipendenti in questo modo significa privarsi in gran parte di tutte quelle lealtà e convinzioni la cui forza morale consiste in parte nel fatto che vivere coerentemente con esse è inseparabile dal ritenerci quelle particolari persone che siamo. “Fedeltà come queste sono qualcosa di più di valori che per caso io ho o di obiettivi che io sposo in un momento dato qualsiasi. Esse fanno sì che io abbia verso qualcuno dei doveri superiori a quelli che la giustizia richiede o addirittura permette, non in ragione di accordi che io abbia fatto, bensì in virtù di quegli affetti e di quegli impegni più o meno duraturi che, presi nel loro insieme, definiscono parzialmente la persona che sono”. (Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia)
Una persona incapace di affetti costitutivi di questo genere non equivale ad un agente idealmente libero e razionale, ma ad un individuo completamente sprovvisto di spessore morale.
Avere carattere significa avere la consapevolezza di trovarsi in una storia che non evoco nè controllo, la quale comporta tuttavia delle conseguenze per le mie scelte e per il mio comportamento.
Quando agisco in base a qualità del carattere più o meno resistenti la mia scelta dei fini non è arbitraria come quando in assenza di affetti costitutivi la deliberazione sfocia in una scelta puramente preferenziale.
Quando decido mi chiedo non solo che cosa voglio ma chi sono realmente, e quest’ultima domanda mi porta oltre ad una concentrazione ai miei desideri soltanto, fino a riflettere sulla mia stessa identità.
La possibilità del carattere in senso fondante è indispensabile anche per un certo genere di amicizia, un’amicizia contraddistinta da reciproco intuito oltre che da affetto.
Ma per persone ritenute incapaci di affetti costitutivi, atti di amicizia come questi si trovano di fronte a un potente handicap: per quanto io possa volere il bene di un amico ed essere disposto ad incentivarlo, solo l’amico stesso può sapere che cos’è quel bene. Questo accesso limitato al bene degli altri deriva dalla portata ristretta della riflessione su di sè.
Per persone piene in parte di una storia che esse hanno in comune con altri, per contrasto, conoscere se stesse è una cosa più complicata. E’ anche una cosa meno esclusivamente personale. “Se la ricerca sul mio bene è limitata dall’esplorazione della mia identità e dall’interpretazione della storia della mia vita, la conoscenza che cerco è meno trasparente per me e meno opaca per gli altri. L’amicizia diventa un modo di conoscere oltre che di piacere”. (Sandel, op. cit.)
Sandel conclude pertanto che vederci come la deontologia vorrebbe significa privarci di quelle qualità di carattere, di riflessività, e dell’amicizia che dipendono dalla possibilità di avere progetti e affetti costitutivi. Vedere noi stessi come dediti a impegni come questi significa ammettere una comunità più profonda di quella descritta dal contrattualismo, una comunità di comprensione condivisa di sè oltre che di affetti allargati.
“La storia della mia vita è sempre inserita nella storia di quelle comunità da cui traggo la mia identità” A. MacIntyre, Dopo la virtù.
Proprio partendo da queste ultime riflessioni di Sandel, in particolar modo per ciò che concerne l’importanza della propria storia e della propria identità per le proprie scelte morali, ci possiamo ricollegare ad alcune tesi sostenute da un altro importante membro dei comunitaristi americani: Alasdair MacIntyre, autore del libro: Dopo la virtù, uno studio di teoria morale, 1981, la sua opera più famosa, alla quale è legato il suo nome.
Non è possibile compiere in quest’articolo un’analisi dettagliata di questo libro. Qui mi preme sottolineare la parte che MacIntyre dedica all’importanza della storia, dei ruoli e dell’identità delle persone.
MacIntyre dice che per comprendere noi stessi, la prima domanda che ci dobbiamo porre non è che cosa devo fare, ma bensì di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte.
Rispondendo a questa domanda scopriamo che il nostro io è situato in un personaggio di una storia che ha una propria coerenza ed unità. MacIntyre parla a tal proposito di identità stretta.
Pertanto qualsiasi tentativo di chiarire il concetto di identità personale indipendentemente e separatamente da quelli di storia e di narrazione è condannato al fallimento.
La storia della mia vita è sempre inserita nella storia di quelle comunità da cui traggo la mia identità.
MacIntyre sottolinea per esempio come nelle antiche culture greche, medievali e rinascimentali il pensiero e l’azione morale del singolo sono in sintonia con l’organizzazione sociale della comunità, e ogni individuo riveste un ruolo e un rango prestabilito entro un sistema ben preciso, che trova nelle categorie del casato e della parentela le sue più alte espressioni. In tali forme, ogni uomo sa chi è proprio perché conosce il proprio ruolo sociale e, in forza di ciò, sa anche quali sono i suoi doveri e i suoi diritti nell’ambito della comunità di cui fa parte: in questo caso, la virtù è il frutto dei valori tradizionali e della comunità.
Il valore e la funzione di una virtù sono pertanto localizzati all’interno di “pratiche”, intese come attività perseguite secondo regole stabilite all’interno di una comunità e ogni azione o asserzione diviene intelligibile se inserita in un ordine narrativo, ciò che conferisce unità alla vita individuale, finalizzato alla realizzazione della vita buona; questa e ogni altra attività si situa all’interno di una tradizione morale, che non esclude tuttavia innovazioni e critiche.
La vita morale e la ricerca del bene sono sempre imprese comuni, nelle quali l’unità narrativa della vita individuale è necessariamente connessa con quella della comunità di appartenenza. La nozione stessa di “pratica” individua lo sfondo sociale condiviso nel quale l’esercizio delle virtù è inserito e da cui trae intelligibilità.
In analogia a ciò che facciamo con noi stessi, dove la prima domanda che ci dobbiamo porre non è che cosa devo fare, ma bensì di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte, comprendere le società significa in primis individuare l’insieme delle storie che costituiscono le sue fondamenta, le sue risorse drammatiche originarie (la mitologia per esempio).
La tradizione morale aristotelica così ricostruita da MacIntyre costituisce l’antitesi speculare della posizione emotivista e dell’individualismo burocratico che ne è la controparte politica, sulla cui analisi l’autore si sofferma ampiamente nella prima parte del suo libro “Dopo la virtù”.
liberal o comunitari?
di Manuel Zanarini – 16/07/2008
Fonte: anchesetuttinoino
Marcello Veneziani* con “Comunitari o liberal. La prossima alternativa?” (Laterza,2006) affronta la questione del “comunitarismo”, considerandola in opposizione alla concezione “liberal”.
Secondo l’autore, le attuali classi della politica sono ormai superate: destra/sinistra, conservatori/laburisti,ecc. sono definizioni ormai vuote.
Il risultato è la grande corsa verso il centro, verso un terreno che annulla le identità, le differenze di valore e di pensiero, caratterizzato dal pragmatismo economico, e dal progressismo etico-culturale. Inoltre in questi ultimi anni si assiste ad uno svuotamento di potere da parte della politica, col relativo trasferimento in mano ai tecnocrati e alla finanza. Questo fenomeno è agevolato dalla mondializzazione, che presenta il capitalismo mondialista come uno “stato etico mondiale”, che in nome dell’”ingerenza umanitaria”, “diventa l’assistente morale e militare delle forze della globalizzazione”.
Questo interventismo, tipico degli Stati Uniti, sta generando due forti reazioni: in Occidente la fuga dalla politica ed il rifugio nel localismo; nel Mondo il sorgere del terrorismo, lo scoppio di guerre e il riaffacciarsi dei nazionalismi.
Alcuni autori, come Salvatore Veca, individuano il conflitto in corso come quello tra universalismo e tribalismo. Ma Veneziani fa notare che in realtà allo stato attuale, il tribalismo non è altro che un sottoprodotto dell’universalismo, usato dalle forze globalizzatrici per scardinare la sovranità nazionale (come il caso Kossovo ha ampiamente dimostrato), quindi è destinato ad estinguersi quando non sarà più utile.
In realtà, le due categorie che realmente possono garantire quel confronto dialogico fondamentale per la democrazia, sono “comunitarismo” e ideologia “liberal”.Intanto questi due termini vanno definiti.
Per “liberal”, Veneziani intende quell’aria politica e culturale tipica del mondo anglosassone, che si caratterizza per l’opposizione ai “conservatori”, all’interno della quale rientrano tanto i progressisti, quanto i laburisti, i democratici di sinistra, i radicali e alcuni parti dei comunisti. L’idea principale è quella di slegare l’individuo da ogni legame culturale e sociale che lo lega agli altri. Quindi “creare” un individuo senza un territorio preciso di riferimento, senza confini precisi, il cosiddetto “cittadino del mondo”. Pone al centro l’universalismo e l’internazionalismo, che si esplicano nella dottrina dei “diritti universali dell’uomo”.
Lo scenario socio-politico viene interpretato unicamente come risultato dell’agire umano, quindi viene dato alla Natura solamente un ruolo marginale. La conseguenza è che le ingiustizie sociali vengono interpretate come frutto di una situazione modificabile dagli stessi individui che in fondo le hanno generate.
Dall’altra parte ci sono i “comunitari”. Anche all’interno di questo schieramento, vi sono elementi di varia estrazione politica e culturale: la nuova destra, ambientalisti, la nuova sinistra, ecc. Ma in realtà non si può parlare di un movimento concreto comune, più che altro di idee guida in comune.
La nascita di questo “schieramento”, almeno all’interno della discussione contemporanea, si può fare risalire ai “communitarians” americani (Sandel, McIntyre,Etzioni,ecc.) e a qualche altro pensatore europeo (De Benoist, Maffesoli, Barcellona, ecc.).
Anche in questo caso si possono individuare delle idee portanti. Fondamentale diventa sottolineare un orizzonte sociale ritenuto comune a tutti i membri della collettività. Di conseguenza, importanza cruciale viene assegnata alla “identità” collettiva, alle radici comuni rintracciabili nella Tradizione, al legame sociale- religioso- famigliare, che definisce l’individuo in concreto. Mentre per i “liberal” il legame sociale diventa un vincolo che limita l’individuo, i “comunitari” lo interpretano come il “filo di Arianna” che ci lega agli altri, e che ci permette di caratterizzarci in un “Io” con un luogo eletto e originario che ci determina, in considerazione di riti comuni, usanze, costumi di un popolo che ritengo mio, e che costituiscono degli archetipi su cui orientarsi. Da qui l’importanza di rifarsi ai valori della Tradizione, di contro a quelli derivati dal consenso influenzato dai media o dalle mode del momento. Proprio in quanto l’umanità viene interpretata come un’insieme di “comunità” ben distinte le une dalle altre, si auspica una loro organizzazione a cerchi concentrici, dalla più piccola a quella più grande. Anche la percezione della situazione attuale è diversa. Qua, avendo un ruolo centrale la Tradizione e quindi dei valori comuni e formanti che sono antecedenti all’individuo di per sé, la realtà viene vista come “voluta dal Fato”, e quindi sulla quale l’uomo può intervenire fino a un certo punto.
Una volta giunti alla loro definizione, e che Veneziani dichiara apertamente di parteggiare per i “comunitari”, l’autore passa ad analizzare come potrebbe dispiegarsi tale confronto nello scenario politico odierno, cosa che rappresenta il fine ultimo del suo lavoro. Il problema è che oggi viene accettata unicamente la scelta “liberal”, altri tipi di concezione socio-economiche sono bandite dalla vita politica (basta guardare la finta opposizione Berlusconi-Veltroni per rendersene conto). Affinché si possa parlare concretamente di dialogo democratico, è necessario che entrambe le opzioni abbiano pari dignità, seppur all’interno di un “orizzonte condiviso”, formato da quei principi che uno schieramento ritiene accettabile nell’altro. Per esempio i “liberal” condividono coi “comunitari” la tutela della libertà del singolo, un sistema che limiti la forza del “potere”, la tutela delle minoranze, la tutela della famiglia, ecc. Certamente, ogni schieramento le declina a modo suo, ma in questo consiste il “gioco democratico”. Quello che generalmente mette “fuori gioco” i “comunitari” è l’accusa di razzismo. In realtà, Veneziani evidenzia come questo rischio sia possibile per entrambi: per i comunitari escludendo chi non si riconosce nei valori fondanti la comunità (stranieri, omosessuali, ecc.); mentre per i liberal, l’esclusione riguarda chi non si riconosce nella loro etica, ritenuta universale e giusta (si vedano le “guerre giuste” contro i “barbarici” paesi islamici).
Una volta chiarite le definizioni minime, Veneziani passa ad un’analisi critica delle due posizioni. Cominciando con l’ “idea liberal”. Il pericolo principale nell’affermazione del principio “liberal”, che in definitiva è quello che si può constatare nell’attuale situazione, è l’avvento del “pensiero uniforme”, dovuto all’appiattimento e alla scomparsa delle differenze. Il dato di fondo che consente questa uniformità di pensiero, è dato dal “contrattualismo”, cioè dalla idea che la società si basi su un “contratto” originario, e quindi gli individui stanno assieme solo per una valutazione economicistica di costi/benefici. Questo porta a ritenere i singoli come contraenti tutti uguali che agiscono in un mercato libero da vincoli socio-culturali. Questo, in realtà, viene ritenuto falso dall’autore, e ciò è facilmente dimostrabile. Infatti, è riscontrabile nella vita quotidiana, come la maggior parte degli sforzi che compiamo giornalmente non hanno un fine pratico, quantificabile materialmente, come per esempio le attività legate all’amore, alla famiglia, allo sport, all’amicizia,ecc. Sono tutte situazioni che si pongono al di fuori di una logica mercantile. Questo significa che ognuno si muove per ragioni proprie, che non sono universali, quindi è un voler ribaltare lo stato naturale dell’uomo, il considerare la società come formata da individui “omogenei”, che si muovono unicamente perseguendo fini “economicamente valutabili”.
Altro pericolo grave dell’idea “liberal”, è il capovolgimento della considerazione della “libertà”. Infatti, questa non è mai un “fine”, ma semmai uno strumento per raggiungere degli obiettivi sociali. Se si considerano i regimi più dispotici, il comunismo o il nazismo per esempio, ci si accorge che tutti sostengono di voler perseguire la “vera libertà”: quella di classe per Marx, quella razziale per Hitler, ecc.
Quindi, il concetto di libertà non va assolutizzato, ma “relativizzato” in base ai fini che si intende perseguire.
Veneziani, in polemica con Dario Antiseri che ripropone il pensiero di Popper, passa in rassegna, negandoli, alcuni principi ritenuti fondamentali del mondo “liberal”: la legittimità della violenza per imporre la democrazia, anche nel caso si dovesse esercitare contro gli anti-democratici; l’equivalenza tra libero mercato e libertà, basta guardare il caso della Cina per rendersene conto; il fatto che la libertà economica presupponga (quindi porti) la pace, gli Stati Uniti basano la loro esistenza sulla guerra; la necessità di lasciare libero il mercato nel maggior modo possibile, mentre si vedono quotidianamente i danni che questo comporta; la necessità di porre limiti ai mass-media (soprattutto sulla violenza), quando in realtà nella maggioranza dei casi il “trash” viene usato per assecondare il libero mercato; infine il concetto secondo ilquale, come afferma Popper, “sono gli uomini che esistono, ciò che non esiste è la società”, cosa che impedisce la formazione di una morale comune lasciando il singolo in balia del mercato.
Infine, nonostante venga solitamente affermato il contrario, il totalitarismo, elemento dominante del secolo scorso, deriva molto più facilmente da una concezione “liberal”, che non da una tradizionale. Infatti, rappresenta l’esaltazione dell’Illuminismo, tanto che sorge all’indomani della Rivoluzione Francese, dell’idea che l’uomo possa creare il “paradiso in terra”, sostituendo Dio con nuovi culti: il “culto del littorio” nel Fascismo (si veda a riguardo il libro “Fascisti” di Giordano Bruno Guerri), quello del materialismo storico nel Comunismo (che raggiunge l’apice nella “tabula rasa” di tutto ciò che esiste” di Mao), ecc.
A questo punto, Veneziani passa ad analizzare i problemi e le soluzioni poste dalla “ragione comunitaria”.
In quest’ottica i mali principali della società moderna sono legati proprio alla perdita del “sentire comunitario”, cosa che porta ad una difficoltà di definire un “bene comune”. In particolar modo si possono evidenziare: la “non partecipazione sociale”, che genera l’individualismo di massa e la “privatizzazione integrale”; lo svilimento del lavoro in una ripetitiva, e per usare un termine marxista, alienante routine; la perdita del sentimento religioso che sconfina nell’agnosticismo; l’abbandono della politica, si veda a proposito il fenomeno dell’antipolitica alla Beppe Grillo, politica che peraltro si slega dalla vita concreta dei cittadini per diventare uno “show business”, in mano ad una oligarchia che gestisce i mass media, il riferimento a Berlusconi è quanto meno ovvio; il dominio del nichilismo, figlio della secolarizzazione illuminista e dell’individualismo, ecc.
Uno delle cause dei “guai moderni” è la crisi del concetto di “pluralismo”; infatti, ormai si esprime solo attraverso i partiti, anche a causa di un sistema elettorale che affida loro ogni potere in materia, mentre sono queste strutture che dovrebbero inserirsi in un “pluralismo comunitario”, fatto da corpi sociali intermedi ( su base territoriale, di categorie professionali, sociali o culturali). Questo fa sì che il consenso sia lottizzato per aree di influenza, e non su ragioni politiche, e, non avendo “oppositori” reali forti, il potere è ormai passato in mano a poteri economici sovranazionali.
Quale è l’alternativa proposta dai comunitaristi? La “democrazia comunitaria”, caratterizzata dal “pluralismo partecipativo”, basato su radici, storia, tradizioni comuni, con la differenza che in questo caso, i singoli non solo partecipano alla vita sociale, me si sentono parte di essa.
Storicamente, sono esistite due tipi di comunità: una, quella tradizionale, cancellata dall’avvento della società moderna; l’altra, sorta nel secolo scorso, sulla scorta della filosofia di Hegel, nella quale per sopperire al vuoto del legame sociale, ha istituito lo “stato etico”, a scopi pedagogici imposti con strumenti coercitivi (nazionalismi, fascismo, comunismo,ecc.).
Oggi, richiamando la spaccatura nell’ambito comunitarista che evidenziammo nell’articolo introduttivo, Veneziani evidenzia la necessità di uscire dalla logica “statalista”, che impone i valori comunitari “dall’alto”, per entrare in una fase costitutiva “dal basso”, partendo dalle piccole comunità (vicinato, paesi, ecc.) per formare comunità più grandi, in modo da combattere l’enorme alienazione che coinvolge l’individuo nella società liberale. In questo contesto la comunità, almeno in Italia, si incontrerebbe col senso di solidarietà sociale ispirato dalla “dottrina sociale della Chiesa”.
Una delle accusa che maggiormente vengono rivolte alla “comunità” è quella del rischio di sfociare nel “tribalismo”, rappresentando un gruppo omogeneo ma estremamente chiuso all’ “altro”, sia esternamente (nazionalismo), che internamente (intolleranza verso il “diverso”).
In realtà, Veneziani, supporta una “comunità aperta”, parafrasendo Popper, in cui verso l’esterno ci si renda conto che il nemico non è rappresentato dalle altre comunità, che più facilmente capiranno il tipo di aggregazione, ma chi vuole negare in principio la comunità; mentre all’interno, la comunità deve promuovere, intervenendo attivamente, solo sui “valori” che riguardano l’intera comunità, mentre sugli altri può tranquillamente astenersi da ogni intervento, fintantoché non intervenga la violenza sugli altri individui.
Infine, presenta altre due coppie di “valori” che fondano la cultura comunitaria in contrapposizione a quella liberal.
La prima è quella che vede da un lato l’ “onore” contrapposto alla “generosità”, che si differenzia dal “donare” la quale viene concepita per togliere spazio all’utilitarismo nei rapporti sociali (quindi tipicamente comunitaria). L’ “onore” serve a compensare l’aspetto corale della comunità, per dare peso alla responsabilità individuale, il coraggio di assumersi le proprie responsabilità di fronte alla comunità. Questo comporta un forte senso dell’ “estetica”. Oggi, al suo posto è invece arrivato il “look”, il vuoto apparire, col risultato che non si tutela più la presentabilità dell’individuo nei confronti dei suoi simili, ma solo la sua immagine.
Di contro, per limitare l’individualismo liberal, viene concepita la “generosità”, che nasce dall’incontro del pietismo cattolico, col socialismo e l’illuminismo, al fine di fornire gesti umanitari verso “gli ultimi” del sistema individualista capitalista. Contro l’assunzione di responsabilità, viene così supportata la tolleranza verso “chi sbaglia” a discapito delle vittime (si pensi alla retorica dei diritti dei criminali, a discapito delle vittime, come nel caso dei terroristi contro le famiglie dei morti).
La seconda coppia è quella che vede la comunità come “figlia di un luogo”, con gli elementi caratteristici che lo compongono (le bellezze naturali, la sua storia, le sue tradizioni, ecc.), mentre la società come “figlia di un tempo”, concepita come liberazione dai vincoli passati, con l’idea di un progresso costante e senza fine (la classica concezione dei “cittadini del mondo).
Penso che l’opera di Veneziani sia di particolare interesse, soprattutto per il tentativo di calare la riflessione sul “comunitarismo” all’interno dell’attuale scenario politico. Ma incontra un limite nella definizione degli elementi costitutivi della “comunità”, restando a mio avviso molto vago sulle basi del “sentire comune” fondante appunto la comunità, fatto salvo l’accenno al Cattolicesimo e alla sua Dottrina sociale della Chiesa, cosa che a mio avviso rappresenta una forzatura, dal momento che, come indica giustamente De Benoist, non è certo nel Cristianesimo che si possono trovare le radici di una comunità italiana, ancor meno nel caso di una comunità europea.
*Nasce a Bisceglie (BA) nel 1955, ha fondato “L’Italia settimanale”, “Lo Stato”, è stato direttore de “Il borghese” e attualmente collabora con diversi quotidiani (“QN”, “Libero”, “Il giornale”,ecc). E’ uno dei pochi che si qualifica come “intellettuale di destra” e seppur con qualche posizione critica è vicino ad Alleanza Nazionale.
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