f.Lamendola, Il disperato: colui che ha perso l’incanto del mondo?

1883002366.jpgOltrepassare la delusione per non sciupare la bellezza del mondo
di Francesco Lamendola – 25/07/2008

fonte arianna editrice

Nella fresca notte d’estate la pallida luce lunare investe la cortina di nuvole dal basso e ne rischiara i bordi, che navigano in cielo come una flottiglia di icebergs quando arriva il disgelo nei mari polari e la banchisa si frammenta in una miriade di blocchi delle più varie dimensioni. È uno spettacolo, maestoso, superbo, profuso con solenne generosità a chi non teme il sopraggiungere del sonno ed è ancora capace di alzare gli occhi verso l’alto, con commossa reverenza.
Negli squarci tra gli innumerevoli frammenti di questa banchisa celeste, sullo sfondo di un blu cupo quasi nero, brillano le stelle, vivide e ammiccanti come un arcano enigma che ogni notte torna ad interrogarci; e che ogni notte conserva, elusivo e trionfante, il suo inafferrabile segreto di lacerante bellezza. La Via Lattea, da un lato, si distende come una pioggia lattiginosa, come una infinita nevicata di gelido splendore, soffondendo una strana e primigenia tenerezza nello sfavillio di mondi che sfidano il pallore metallico della luna.
Lo sguardo corre da una estremità all’altra del cielo, dall’uno all’altro orizzonte; e, sullo sfondo scurissimo delle cime degli alberi che fremono nella notte, si inebria e quasi si stordisce davanti a una tale vastità, a un tale sfarzo, a una tale magnificenza.

Ci siamo chiesti perché sia così raro, tra gli esseri umani, il sentimento di gratitudine per una simile bellezza offerta loro, continuamente, dalla natura; e siamo giunti alla conclusione che esso è raro per la semplice ragione che la maggior parte di loro non lo ha mai visto. Guardato, forse sì, almeno qualche volta; ma visto, proprio no. E non solo lo spettacolo sfarzoso e intimidente del cielo stellato, ma ogni altro spettacolo, anche il più ordinario, che la natura ci dona senza posa: lo stormire della fronda di un pioppo; una rondine che sfreccia, rientrando al suo nido; la gloriosa corona di nebbie che ammanta le cime dei monti, all’alba, prima che il sole del nuovo giorno le disperda come un sogno voluttuoso.
La maggior parte degli esseri umani non vede tali cose, per la stessa ragione per cui non vede la bellezza morale dei propri simili, ma si limita a concupire avidamente la loro bellezza fisica: così come l’industriale non vede, in un bosco, che la possibile ricchezza fornita dal legname, o il tecnico, davanti all’argenteo disco lunare, non pensa che al modo di costruire una nave spaziale più efficiente e più veloce per raggiungerla. E la ragione di questa incapacità di vedere realmente le cose per quello che sono in se stesse non è la fretta o la superficialità o il rozzo utilitarismo, poiché ciascuno di questi atteggiamenti è un effetto e non la causa.
La causa ultima della cecità davanti allo spettacolo dell’anima delle cose è la delusione da cui siamo intossicati.

Da bambini, quando non eravamo ancora intossicati, sapevamo vedere l’anima delle cose e coglievamo tutti questi lampi di bellezza profusa nel mondo, dallo stormire della fronda allo scintillio di migliaia di stelle nel cielo notturno.
Ma poi siamo diventati adulti: il che, per la maggior parte degli uomini e delle donne, vuol dire rimanere delusi dalla realtà.
Al tempo stesso, essi credono che il segno della propria maturazione consista nel dissimulare accuratamente la propria delusione, al punto da non vederla più essi stessi. Ma, anche se non la vedono, tuttavia la sentono, eccome: è come convivere con un organismo in decomposizione. È questo che li intossica, che li avvelena giorno per giorno; è questo il segreto della loro tranquilla disperazione.
La maggior parte degli adulti vivono disperati, ma occultano la propria disperazione; e, così facendo, aggravano il male e si precludono ogni possibilità di redenzione. Nascondono la testa sotto la sabbia e pensano che, così facendo, ogni pericolo se ne andrà per conto suo.

La delusione che li ha resi dei disperati non è una singola delusione, per quanto grande e amara essa sia stata, anche se accade che essi vi si fissino sopra in modo da aver sempre a portata di mano l’oggetto del proprio rancore. È come se volessero gridare al mondo: «Avete visto tutti, ecco ciò che mi ha impedito di diventare un grand’uomo o una gran donna!». E chiamano in causa la decisione dei genitori di far loro interrompere gli studi, favorendo un fratello o una sorella; o il matrimonio precoce con la persona sbagliata, che ha tarpato loro le ali; o la nascita indesiderata di un figlio, che li ha costretti a sgobbare per mantenere la famiglia e a riporre per sempre i loro sogni nel cassetto; e così via.
Tuttavia, la verità è che, di norma, non di una singola delusione si tratta, ma di una somma d’infinite delusioni, medie e piccole e, per così dire, quasi quotidiane; delusioni che subentrano al trauma di veder scemare in sé – e, di riflesso, fuori di sé -, l’incanto del mondo.
Per il bambino, il mondo è un luogo incantato; per l’adulto, è un luogo profano, arido e banale: il luogo della perenne disillusione.
E non si tratta, si badi, di una delusione dovuta al fatto che le aspettative o le speranze erano troppo grandi; ma, al contrario, dovuta al fatto che non lo erano abbastanza. Colui che sente l’incanto del mondo può subire questa o quella delusione, esattamente come chiunque altro; ma non potrà subire lo schiaffo cocente e definitivo della delusione, della delusione esistenziale. Perciò non diverrà mai un disperato, e manterrà salva la propria anima.
Il disperato, colui che ha perso l’incanto del mondo e si è lasciato sopraffare dalla delusione, diviene un ossesso e cova in sé, alimentandoli segretamente, un rancore e una collera tremendi. Può non esserne egli stesso consapevole, ma è così. E può accadere che quel rancore e quella collera esplodano all’improvviso, nelle circostanze più banali, magari per un incidente di nessun conto, per una parola di troppo, per uno sguardo ironico. Allora il deluso, il frustrato, il disperato si erge di colpo come un demone della vendetta, e scaglia sul primo che passa i fulmini di una violenza lungamente coltivata e repressa.
Le cronache dei giornali e della televisione sono pieni di questi sfoghi di rabbia improvvisa che degenerano in violenza cieca, incontrollata. E, poi, si sprecano le parole di rito da parte dei conoscenti e dei vicini: «Chi mai avrebbe potuto immaginarlo! Sembrava una persona così a modo e tranquilla…». Perché il diavolo non si vede fino a quando non irrompe dalle tenebre, scatenandosi con furia bestiale.
E in fondo a queste persone – che non sono per nulla, lo ripetiamo, dei casi eccezionali – c’è, né più né meno, il diavolo.
Ed ecco che il cittadino tranquillo e obbediente alle leggi, di colpo, scopre in sé una furia omicida, e la sfoga sulla prima vittima designata.

Possediamo, ad esempio, l’orazione composta da Lisia per il processo relativo all’uccisione di Eratostene, nella quale il grande oratore greco difende davanti ai giudici ateniesi il suo cliente Eufileto.
Questi ha trucidato con le sue mani l’uomo che lo disonorava con la propria moglie, in casa sua e in presenza di testimoni, dopo averlo freddamente aspettato, in modo da sorprenderlo in flagrante. Eufileto, probabilmente, venne assolto: le leggi di Atene stavano dalla parte di questa piccola belva ringhiosa che, invece di domandarsi perché sua moglie preferisse giacere con un altro, preferì vendicare l’affronto al suo prestigio virile togliendo la vita al rivale. Un assassinio giudiziario in piena regola: come tanti altri, del resto, ve ne sono stati sia prima che dopo di allora, lucidamente premeditato e freddamente eseguito all’ombra protettiva della pubblica moralità, di cui lo Stato era garante.
L’abilità di Lisia, veramente diabolica, fu quella di far credere che tutto era avvenuto casualmente e senza premeditazione; cosa, a nostro avviso, quasi certamente falsa.

Io allora, o giudici, dopo averlo colpito, lo getto giù, e strettegli le mani all’indietro e legatolo, domandai perché introducendosi nella casa mia mi facesse vituperio. Ed egli confessava di essere colpevole, invero, e pregava e scongiurava di non ucciderlo, ma di accettare una somma di denaro. Io invece risposi: «Non io ti ucciderò ma la legge della patria, quella che tu violando, ritenesti minore dei piaceri, e più preferisti farti reo di un simile reato verso la donna e verso i figli miei, piuttosto di dar retta alle leggi e di essere onesto. In tal modo, o cittadini, egli ebbe in sorte ciò che le leggi stabiliscono per quelli che compiono tali cose, e non già che sia stato portato dentro dalla via, né che si sia rifugiato presso il focolare domestico, come affermano costoro. Infatti come avrebbe potuto farlo uno che, colpito nella camera, cade subito, anzi gli legai le mani all’indietro, e se vi erano dentro tanti uomini a cui non avrebbe potuto sfuggire, non avendo del ferro né sbarre Né alcuna altra cosa con cui difendersi da quelli che erano entrati.

Eufileto, dunque, si vanta di aver ucciso a freddo un uomo solo, nudo e disarmato, mentre lui era circondato da amici; di aver respinto le scuse di lui e l’offerta di un risarcimento pecuniario, come allora si usava; e di aver sgozzato quell’uomo inerme, come un vitello, sotto gli occhi della moglie che – pur non essendo più nominata – era certamente lì, ancor nuda nel letto, e ricevette forse sul viso gli schizzi di sangue dell’amante, mentre la spada lo trafiggeva.

C’è poi un altro genere di vendetta, quella anarcoide e vitalistica del borghese frustrato che vuol sentirsi vivo, almeno una volta nella vita, vendicandosi di tutti e di tutti, e infrangendo ogni morale e ogni legge: misero superuomo in sedicesimo di stile hollywoodiano, che insegue una sua «verità» esistenziale mediante la violenza, il sesso sfrenato e l’abuso di alcolici.
Può essere un marito rassegnato che, all’improvviso, si trasforma in una furia omicida: come Stephen Rojack, il protagonista del romanzo di Norman Mailer An american dream (1965), il quale, nel giro di una sola notte, strangola la moglie Deborah, che odia; sodomizza la giovane cameriera tedesca, Ruta, con la scusa che, tanto, «è una nazista»; picchia un negro; e che, di exploit in exploit, si ubriaca al suo stesso senso di onnipotenza, libertà assoluta e rifiuto consapevole delle leggi costituite.
I sentimenti che prova, mentre fa all’amore con la cameriera, nella stanza vicina a quella in cui giace il cadavere ancora caldo della moglie assassinata, sono di puro odio, mescolato a una bramosia animalesca della quale si compiace come di una prova lampante della sua prepotente virilità e della sua inesauribile forza vitale (N. Mailer, Un sogno americano, traduzione di Ettore Capriolo, 1966, 1976, pp. 43-44):

…Sentii improvviso il desiderio di evitare il mare e di scavare la terra, lo stimolo puro del desiderio di scegliere altra via. Ma lei resistette e per la prima volta parlò: «Verboten!».
Tuttavia mi era già impadronito di qualche pollice del verboten. In odio virulento e complesso, un’esposizione particolareggiata del durissimo mondo dei poveri, l’esperienza di un topo di città: tutte queste cose passarono da me a lei e placarono il mio ardore. Adesso potevo continuare per un pezzo. E continuai. Quell’altra presenza (che, potrei ricordarvi, porta alla creazione) mi si era spalancata, e io vi andai. Poi la lasciai e tornai dove avevo cominciato, una lotta accanita e piccante per guadagnare un pollice e poi ancora un altro cruciale quarto di pollice; la mia mano era sui suoi rossi capelli tinti a tirarli con violenza in un movimento di contorsione verso l’alto, e sentivo il dolore che dal suo cranio si insinuava come un palanchino lungo tutto il corpo e spingeva in su la trappola, ed eccomi installato, quel quarto di pollice in più era ormai cosa mia; il resto fu facile.
«Sei una nazista» dissi, non so bene perché.

Raramente uno scrittore, dai tempi del marchese De Sade, ha saputo descrivere con tanto realismo il meccanismo infernale di odio e perversione che può nascondersi dietro un amplesso, come ha fatto questo moderno cantore di un superomismo da strapazzo di una borghesia terribilmente e cronicamente frustrata, complessata e incattivita (Stephen Rojack ha sposato un’ereditiera e le è socialmente inferiore).

La delusione, dunque.
Si suol dire che bisogna imparare a convivere con le delusioni: ma questa è, appunto, la cosa da non fare, nel modo più assoluto. Tanto varrebbe dire che bisogna imparare a convivere con un cadavere in putrefazione che qualcuno ci ha legato sulla schiena, e che noi ci portiamo dietro ovunque andiamo.
Nossignori: le delusioni vanno espulse, per evitare che ci intossichino.
Si obietterà che, così facendo, noi non impareremo mai nulla dalla vita, perché le delusioni sarebbrero le grandi maestre che ci aiutano a crescere.
Non è vero.
Dobbiamo far tesoro delle cause che hanno prodotto la nostra delusione, ma non dobbiamo assolutamente tesaurizzare la delusione in se stessa. Non c’è niente di buono in un cadavere martoriato, che valga la pena di essere tesaurizzato. È meglio, molto meglio seppellirlo sotto un buon metro di terra, e imparare a guardare avanti.
Soprattutto, è necessario scongiurare il pericolo che la somma di tante piccole delusioni si trasformi in noi nella delusione, nella delusione della vita.
La vita è sempre una fiaba affascinante, se noi conserviamo in essa la fede che avevamo da bambini.
C’è bisogno che noi portiamo nel mondo non la nostra delusione, la nostra amarezza ed il nostro rancore, pronti ad esplodere in cieca violenza, magari contro noi stessi (anche Stepehen Rojack ha pensato, più volte, al suicidio); ma bensì la nostra freschezza, il nostro entusiasmo e la nostra capacità di scorgere lo splendore del mondo, ovunque profuso da un ospite tanto generoso, quanto discreto e rispettoso della nostra autonomia.
Le nostre vite sono intrecciate le une alle altre.
Se imparassimo a conoscerci con onestà, a perdonarci senza vigliaccheria e a volerci bene senza eccessive indulgenze, potremmo partecipare anche noi al dono di tutta quella bellezza in cui siamo immersi, e che – tanto spesso – non riusciamo neppure a vedere.

Forse, vale la pena di fare almeno un tentativo.

f.Lamendola, Il disperato: colui che ha perso l’incanto del mondo?ultima modifica: 2008-07-29T17:39:00+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo