Rocco Ronchi, Preistoria del pot-comunismo

da Il manifesto del 24 agosto 2008

ROCCO RONCHI
MAQUILLAGE DEL PASSATO UNGHERESE
Memorie DI REVENANT
Che risposta dare ai revisionisti di ieri e di oggi che considerano la storia un remake dove tutto si trasforma, a maggior gloria dei vincitori? Una domanda riattualizzata dal bellissimo saggio di István Rév, Giustizia retroattiva. Preistoria del pot-comunismo per Feltrinelli

A PROPOSITO DEL LIBRO
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István Rév, Giustizia retroattiva. Preistoria del pot-comunismo (Feltrinelli, 2007)

Dobbiamo essere grati ai fascisti nostrani perché con le loro campagne mediatiche per la revisione del passato – dai libri di testo all’intitolazione delle vie – ricordano a una sinistra sempre più stordita e incline a un astratto e smemorato irenismo quale sia la vera posta in gioco nei ricorrenti dibattiti su storia, memoria e «pacificazione nazionale». Ormai lo si può affermare con una certa sicurezza: l’ascesa della destra in Italia, a partire dagli anni ’80, è stata preparata da una battaglia culturale che ha avuto come campo privilegiato il territorio, apparentemente così lontano dalle urgenze materiali, della memoria pubblica. Approfittando della mutata situazione internazionale e del disorientamento intellettuale della sinistra, la destra ha pensato che fosse innanzitutto necessario preparare un1094367202.jpg clima adatto alla riscrittura della storia. Il resto, pensavano i teorici di questa rivoluzione conservatrice, sarebbe venuto da sé, automaticamente. Hanno avuto purtroppo ragione.
Non dunque i vivi con i loro bisogni, ma i morti sono stati i protagonisti inconsapevoli di questo nuovo capitolo della non ancora conclusa guerra civile italiana. A ricordarcelo – e a ricordare agli storici di che materiale incandescente e per nulla obiettivo è fatta la storia – è un bellissimo saggio di uno storico ungherese, István Rév, titolato Giustizia retroattiva. Preistoria del pot-comunismo (Feltrinelli, 2007), un libro che, come purtroppo spesso accade in Italia ai grandi libri, è passato quasi inosservato.

Morti non del tutto morti
Il suo oggetto è un piccolo paese europeo, l’Ungheria, e la sua storia tormentata segnata da eventi tragici, primo fra tutti quell’insurrezione del 1956 repressa nel sangue dai carri armati sovietici e conclusasi (provvisoriamente) con il processo che due anni dopo vide la condanna a morte per impiccagione di Imre Nagy, il comunista riformatore che il 23 Ottobre del 1956, chiamato a gran voce dai dimostranti raccolti di fronte al parlamento, era diventato il primo ministro della rivoluzione ungherese. Quella data sarebbe divenuta fondativa per la nuova Ungheria democratica e anti-comunista che ebbe come battesimo proprio le onoranze funebri ufficiali riservate a Nagy il 16 giugno del 1989: di lui la nuova Ungheria, partorita dalla «rivoluzione di velluto», dovette sforzarsi di dimenticare l’intransigente lealtà «alla classe operaia internazionale» (ribadita di fronte ai suoi carnefici). Rév, tuttavia, non ricapitola fatti peraltro ben noti. Ciò che lo interessa non è la storia ungherese (e in senso lato europea) nella sua dimensione fisica, come successione di eventi regolati da rapporti di causa ed effetto, ma la storia nella sua dimensione invisibile e per così dire spirituale. «Spirito» non ha però qui un senso «spiritualista», piuttosto ha un senso «spiritistico». I veri protagonisti della storia ungherese raccontata da Rév sono, infatti, gli spiriti dei morti ammazzati dai fascisti ungheresi delle Croci Frecciate o nei processi-farsa staliniani, nelle strade di Budapest del ’56 o nei processi che ne seguirono. «Spirito», insegna l’antropologia religiosa, è il morto che non è ancora del tutto morto, che se ne resta sulla soglia tra l’aldiqua e l’aldilà e che, se non gli è resa giustizia e onorata sepoltura, continua a tormentare i vivi. Spirito è il fantasma, il revenant, colui che non conosce riposo a causa della ingiustizia subita dai vivi, una ingiustizia che riguarda la sfera del «ricordo». Imre Nagy impiccato e frettolosamente deposto in un’anonima tomba perché se ne cancellasse il ricordo è uno di questi «spiriti».

L’ansia di rifare il mondo
Impressionante è, a questo proposito, la testimonianza del suo carnefice, il segretario generale del Partito János Kádár (in carica dal 31 ottobre 1956 fino al 1988). Ancora nell’aprile del 1989, alla vigilia della deliberazione per la nuova sepoltura ufficiale di Nagy che avrebbe segnato la fine dell’Ungheria comunista, Kádár, divenuto nel frattempo presidente «onorario» del partito, non fu in grado di pronunciare pubblicamente il nome della sua più celebre vittima, tanto che nel suo sconnesso discorso lo chiamò «il morto», o «colui che morì».
Per Rév sono dunque i morti senza pace gli attori della storia ed è la memoria pubblica condivisa il teatro in cui la storia va in scena. Il post-comunismo ungherese non si sottrae a questo destino ermeneutico, così poco «obiettivo», così poco serenamente imparziale: più che mai, dovrà rileggere il passato, mobilitare i morti, cambiare il nome alle strade e spostare tombe nei cimiteri, porre nell’oblio intere generazioni, riscattarne altre. Il post-comunismo dovrà disfare rifacendo (undoing by remaking).
«In quel punto sospeso tra ciò che si era perduto (l’ordine comunista) e ciò che non si era ancora compreso, storici, politici, professionisti e dilettanti che si autoproclamavano esperti offrirono un aiuto: il remake del mondo. Il mio libro, continua Rév, è una cronaca di questo tentativo».
Il capolavoro kitsch di questo remake postmodernista del mondo è allora quella Casa del Terrore, frettolosamente costruita con il contributo determinante di esperti di effetti speciali (Attila Ferenczfy Kovács, scenografo del film Mephisto di István Szabó), alla vigilia delle elezioni ungheresi dell’aprile del 2002 e divenuta ormai una meta turistica abituale per chi si reca a Budapest. Voluta dalla destra radicale ungherese, doveva dissuadere l’elettorato da una scelta politica di centrosinistra ricordando gli orrori del comunismo. Bisognava fabbricare al più presto una memoria comune condivisa per la quale nazismo e comunismo fossero la stessa cosa secondo i dettami ideologici «americani» (ma chiunque abbia visitato la Casa sa bene che il comunismo è presentato come infinitamente più pernicioso del fascismo), per la quale gli ungheresi fossero assolti dall’accusa di essere stati complici attivi (ed entusiasti) nello sterminio di centinaia di migliaia di loro concittadini ebrei, rom e comunisti e il fascismo ungherese fosse solo una parentesi insignificante legata all’occupazione nazista (fatto per altro non vero). La Casa non ha perciò niente a che spartire con il Museo Ebraico di Libeskind a Berlino o con lo Holocaust Memorial Museum di Washington né con lo Yad Vashem di Gerusalemme. Non risponde a una richiesta di giustizia. Non vuole interrompere finalmente il moto incessante e persecutorio degli spiriti offrendo loro un luogo ove stare «ad imperitura memoria». La Casa del Terrore è un remake funzionale che disfa il passato rifacendolo. La memoria che attiva è tutta orientata al futuro prossimo dell’obiettivo politico da conseguire. Non è figlia della pietà ma della diade schmittiana amico-nemico. Il suo modello, osserva Rév, va ricercato assai più indietro nel tempo e in un’altra nazione: l’Italia. Quasi settant’anni prima che il primo ministro ungherese Viktor Orban inaugurasse la Casa del Terrore, «il 28 ottobre 1932, nel decimo anniversario della marcia su Roma, il Duce inaugurò la Mostra della rivoluzione fascista… La mostra bombardava i visitatori sperduti e sconcertati con documenti, oggetti, segni, simboli, immagini, fatti e artefatti.
La distanza fra fatto e finzione, costruzione e ricostruzione, documenti storici autentici e rifacimenti storici scompariva. L’effimero spazio rituale inghiottiva gli spettatori, cui era negato il distacco necessario per contemplare o anche solo per capire che cosa vedevano». Come il suo precedente romano, al quale architettonicamente si ispira, l’edificio di Budapest «è uno spazio di propaganda totale, in cui la morte e le vittime sono utilizzate come espedienti retorici».
I fascisti hanno avuto della storia un senso straordinariamente post-moderno. Il passato per loro non è da conoscere ma da conquistare soggiogandolo al presente al quale deve fornire un mito fondativo. I comunisti post-staliniani alla Kádár non la pensavano diversamente mostrando in tal modo l’intima complicità che li legava al loro preteso avversario storico. I loro Mausolei per gli eroi rivoluzionari (come le loro tombe anonime per i «controrivoluzionari»), costruiti anch’essi in fretta e furia per disfare e rifare la memoria della rivoluzione del ’56, rispondevano alla stessa logica retrospettiva. Ma c’è storia che non corrisponda a questa retrospezione interessata e parziale? C’è verità che non sia il risultato di un divenire conflittuale, di una lotta in corso dall’esito indeterminato? La memoria è qualcosa d’altro da questo revisionismo costantemente in atto? Che risposta dare, insomma, ai fascisti di ieri e di oggi che considerano la storia un remake del mondo, dove nulla sta fermo e tutto incessantemente si trasforma, cambiando di segno, in funzione dell’«accrescimento della potenza» dei vincitori?
La filosofia è imbarazzata di fronte a queste domande. Preferisce non porsele per paura di dovere dare una risposta negativa che metterebbe il suggello al carattere infernale di questo mondo. Walter Benjamin, più volte citato da Rév, queste domande invece se le era poste. Al centro della sua filosofia della storia non c’erano i vivi ma i morti. Bisognava trovare il modo di preservarli dalla furia dei vincitori. Bisognava impedire che la vittima «funzionalizzata» si mettesse al servizio del carnefice e della sua gloria mondana.

Senza pace nel ricordo
Bisognava altresì sfuggire a un doppia a tentazione, quasi irresistibile in questa situazione: da un lato quella ingenuamente positivista di aggrapparsi a una inconsistente verità oggettiva che se ne starebbe salda al di qua delle interpretazioni, dall’altro lato quella di una fuga verso la trascendenza, verso un dio-pura memoria che garantirebbe la vittima dall’oblio o dal remake del mondo ad uso dei vincitori. Né i «nudi fatti» né dio possono salvare i morti dal revisionismo e dare loro pace nel ricordo. Lo può invece il desiderio di «giustizia», vale a dire uno sguardo sulle cose umane che viene dal più remoto futuro, dalla fine del tempo storico che è il tempo dell’errore. Ad esso si appellava Imre Nagy nella sua pacata dichiarazione di fronte al tribunale che lo condannava a morte: « sento che verrà il tempo in cui… la giustizia potrà essere applicata al mio caso», disse. A esso si affida lo storico che non accetta di sacrificare la verità alla potenza.

Rocco Ronchi, Preistoria del pot-comunismoultima modifica: 2008-08-26T19:39:00+02:00da mangano1
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Un pensiero su “Rocco Ronchi, Preistoria del pot-comunismo

  1. Quanto scritto dal professore Rocco Ronchi è condivisibile, in considerazione dei mutamenti avvenuti la cosidetta sinistra non li ha accettati, oppure la paura di ammettere quanto successo e doverlo spiegare.
    Grandi scrittori e saggisti dell’Est europeo come Rev ne esistono a centinaia, dovremo ascoltarli e leggere le loro esperienze per comprendere
    che i totalitarismi sono la negazione per l’uomo.
    Vede professor Ronchi, non è stata preparata una battaglia culturale negli anni 80, ma quel tipo di sinistra obsoleta,(sopratutto in Italia)che hanno i mutamenti.

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