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FRANCESCA RIGOTTI
Ho dimenticato l’ombrello
L’ombrello: nel suo destino c’é l’essere dimenticato
Quanti ombrelli abbiamo acquistato? E quanti perduti? Che cosa rappresenta un ombrello nel nostro immaginario? Forse la cosa che, più di ogni altra, ha come destino l’essere dimenticata. Per questo certi filosofi hanno visto in quest’umile oggetto, addirittura, un simbolo dell’Essere.
E soltanto grazie al loro spiccato sense of humour che gli inglesi definiscono “umbrella” (quindi ciò che fa ombra) quello schermo di stoffa che protegge dalla pioggia la persona che lo regge per il manico.
Sotto l’ombrello
Bisogna dire che in certe località tale oggetto, facendo onore al suo nome, serve davvero a proteggersi dai raggi solari (però allora è, propriamente parlando, un parasole) anche se forse non proprio negli umidi paesi britannici. Ma già che la temperatura del pianeta sta precipitosamente salendo, chissà che non vada a finire che pure a quelle latitudini l’ombrello finisca per riparare davvero dal Sole. L’ombrello è, in ogni caso, sentito come un riparo, una protezione, dal sole, dalla pioggia, dagli attacchi nemici: “sotto l’ombrello dell’ONU”, si diceva una volta, prima che l’unica superpotenza residua dei nostri giorni se ne infischiasse allegramente delle disposizioni dell’unione delle nazioni per bombardare qua e là a sua unica discrezione. Che l’ombrello svolga funzioni di protezione lo conferma comunque pure Johann Sebastian Bach in uno dei suoi più famosi mottetti, Jesu, meine Freude, facendo invocare ai suoi coristi la protezione divina dalle tempeste della vita, dai nemici, dal demonio, “sotto il tuo ombrello”, “un-ter dei-nem Schir-men”, si-si-la-sol-fadiesis-mi.
Ombrello e oblio dell’essere
E’ comunque curioso che la parola ombros, in greco antico, significhi pioggia. Questo fatto potrebbe dare adito a false etimologie, una vera specialità di alcuni grandi filosofi che insieme a Isidoro di Siviglia facevano a gara a chi le sparava più grosse. Maestri in quest’arte, Platone e Heidegger. Il primo, conoscendo soltanto il termine ombros per pioggia e non la parola e forse nemmeno l’oggetto ombrello non poteva elucubrare nulla sul tema. Avrebbe invece potuto farlo Heidegger, cui invece erano noti entrambi. E invece no. Nessuna etimologia per l’ombrello, vera o falsa che fosse. Bensì un accostamento rivelatore, presente, oltre che in Heidegger, in Nietzsche e in Derrida: l’accostamento tra ombrello e oblio, anche perché l’ombrello è per definizione ciò che si dimentica.
La dimenticanza, l’oblio, godono di una posizione centrale nella filosofia in quanto contribuiscono a definire uno dei suoi concetti fondamentali: la verità. La parola greca per verità, alétheia, è infatti formata da un prefisso negativo a- (alfa privativo) e da un elemento, leth, che indica ciò che è nascosto, coperto, latente, parola latina apparentata all’elemento suddetto, e che ritorna anche nel nome del Lete, il mitico fiume dell’oblio. Sicché alétheia, verità, abbraccia non solamente il senso di ciò che è vero, ma anche di ciò che non si può (o non si deve) dimenticare. E che cosa non si deve dimenticare in filosofia, secondo Heidegger, se non l’essere, tant’è che la verità è proprio, secondo l’etimologia appena illustrata, la via al disvelamento dell’essere? Ora, l’oblio dell’essere, iniziato già agli albori della filosofia, è stato più volte rappresentato, scrive ancora Heidegger in La questione dell’essere, “per dirla con un’immagine, come se l’essere fosse un ombrello che la dimenticanza di un professore di filosofia ha lasciato da qualche parte”.
L’ombrello di Nietzsche
Il luogo comune vuole che i professori di filosofia siano distratti e che gli ombrelli vengano dimenticati. Come l’essere, nascosto e bistrattato in attesa di essere trovato e portato alla luce, la verità estratta dalle profondità oscure degli abissi marini a guisa della Afrodite del Trono Ludovisi che emerge tra le bianche spume delle onde sorretta da bianche braccia femminili.
Negli abissi marini giace sommerso anche l’azzurro oblio (la “blaue Vergessenheit”) di Nietzsche, anch’egli dimentico dell’ombrello come il professore distratto di Heidegger. “Ho dimenticato l’ombrello” lasciò scritto Nietzsche in un frammento de La gaia scienza, buttando lì l’appunto tra virgolette e senza commenti. Ma qualcuno ritrova e riporta alla luce e alla verità della filosofia l’ombrello di Nietzsche e questi è Jacques Derrida, che parte da quell’ombrello dimenticato per andare a ricamare sul tema dell’oblio, facendo dell’ombrello simulazione “di verità nascosta tra le sue pieghe”. O anche, in una specie di decriptazione psicoanalitica, un fallo “pudicamente ripiegato nei suoi veli”. Pure la verità di Derrida, a seguire queste tracce, porta alla ricerca del sollevamento dei veli, della trasparenza senza pieghe e senza riserve: l’oblio dell’ombrello come oblio della cosa poi ritrovata, riletta, interpretata, illuminata. O forse no? Forse è preferibile l’azzurro oblio di Nietzsche perché permette agli smemorati di dimenticare le loro stupidaggini (“Beati gli smemorati perché avranno la meglio sulle loro sciocchezze”, sciocchezze, Dummheiten, non errori come pudicamente si traduce in italiano). Forse è preferibile lasciare l’ombrello dimenticato là nell’angolo, come fa Nietzsche, e rinunciare a quella poca protezione che può dare, dal Sole, dalla pioggia, andandosene a capo scoperto e senza riparo sotto le intemperie.
per Approfondire
J.Derrida, Sproni.Gli stili di Nietzsche, Milano, Adelphi, 1991.
M. Heidegger, La questione dell’essere, in Segnavia, Milano, Adelphi, 1987.
F. Nietzsche, La gaia scienza, Milano, Adelphi, 1991.
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 1948.
H. Weinrich, Lete. Arte e critica dell’oblio, Bologna, Il Mulino, 1999.