Giuseppe Magni, 68 e totalitarismo

l ’68 e la scoperta del totalitarismo

Di Giuseppe Magni
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Secondo Glucksmann, nel suo ultimo libro riguardante il’68 in Francia, l’esperienza determinante, la più entusiasmante di quel breve, magico periodo, fu quella di una vera e propria esplosione di libertà. Nel maggio parigino avvenne una vera e propria ribellione contro l’autoritarismo nelle sue più varie espressioni, sia negli slogan, che nelle manifestazioni pubbliche, che nei comportamenti individuali.
Il testo, recentemente tradotto, espone un lungo dialogo, molto articolato, fra il noto filosofo André Glucksmann e il figlio Raphael di 29 anni, regista di documentari politici e collaboratore di vari quotidiani. Il sottotitolo del volume recita infatti: Dialogo tra un padre e un figlio su una stagione mai finita (1). Diciamo subito che si ha l’impressione di una certa frammentarietà degli argomenti trattati, probabilmente dovuta alle caratteristiche colloquiali, a volte persino un po’ stucchevoli e superficiali: non siamo di fronte sicuramente ad uno scritto fra i migliori del filosofo e polemista. Però, detto questo, resta la vivacità e l’acutezza dei giudizi ben controbattuti dal figlio, con le proprie esperienze di trent’anni dopo.
Ma entriamo nel merito: ciò che colpisce è il giudizio del ’68 come una vera e propria frattura (rupture) delle tradizioni sclerotizzate, anche e soprattutto della sinistra. E’ la rottura con anni di immobilismo, di apatia sociale e di impotenza politica, una vera cesura fra il “prima” e il “dopo”, quindi una interruzione di una continuità del tempo, una irruzione – giocosa e prepotente – del nuovo. Sono le azioni imprevedibili dei partecipanti al movimento che producono la novità, che interrompono la monotona routine del tempo, che ne fanno iniziare un altro completamente differente.
Non a caso André Glucksmann rimprovera Sarkozy di non averne capito lo spirito di novità, quando nell’aprile 2007 nella campagna elettorale che lo porterà alla vittoria, attacca il ’68 affermando che bisogna “liquidare l’eredità” di questo evento. Proprio per difendere – al di là di ovvie critiche, anche feroci, che non vengono risparmiate – la novità che si è diffusa negli anni successivi, è scritto questo pamphlet a quattro mani. Anzi la vittoria travolgente di Sarkozy, anch’essa una frattura della continuità, è figlia di quella “rupture”: insomma Sarkozy non sarebbe stato possibile senza la novità del maggio ’68. Proprio riconoscendo le analogie fra le due irruzioni del nuovo, dell’imprevisto, Glucksmann ha sostenuto il candidato della “rupture”, anche se di destra, contro la candidata della continuità, Ségolène Royal, anche se di sinistra.
L’irrisione, la beffa, sono i modi con i quali nel ’68 si esprime questa rottura. Emblematico un episodio di un mattino davanti alla Sorbona, quando Daniel Cohn-Bendit, con splendida insolenza “con il microfono davanti alla bocca, dopo aver rifiutato di dar la parola al ‘principe’ dei poeti comunisti gli urla: ‘Louis Aragon, hai del sangue sui tuoi capelli bianchi!’” (2) ed esige che il vecchio nume del comunismo francese spieghi agli studenti più giovani le sue patetiche odi a Stalin e le sue oscene elegie alla gloria dei Gulag.
Rottura come irrisione, come slogan libertari, questo in sintesi lo spirito del maggio ’68 secondo Glucksmann, che non a caso individua nell’anarchismo e nel “situazionismo” le matrici più originali del movimento (e in Cohn-Bendit il rappresentante più genuino). “Vietato vietare” è il rifiuto di ogni autorità o, come sottolinea Glucksmann a più riprese, “lo spirito antitotalitario” (3). Tralasciamo per il momento le ambiguità fra autoritarismo e totalitarismo, che dovrebbero invece essere distinti in modo radicale, vi torneremo più avanti.
Resta il fatto che, sia pure in modo confuso, il movimento francese non accettava più i tradizionali riferimenti del Comunismo, li metteva in discussione (anche se fiorivano per breve periodo i Maoisti). Persino nei comportamenti individuali di molti militanti veniva alla luce apertamente l’indecisione, la riflessione autocritica sulle scelte compiute, l’ammissione in certi casi, anche da parte di leaders riconosciuti, di non saper bene che cosa fare: si vedeva proprio dalle incertezze pubblicamente manifestate, la rottura con tutta una tradizione “bolscevica”, abituata a dedurre le articolazioni tattiche con ferrea certezza dalla linea dei testi sacri!
In certo qual modo, insomma, anche se attraverso contraddizioni, lo spirito del ’68 francese, a parere di Glucksmann, conteneva i germi dell’antitotalitarismo, proprio perché si era abituato a mettere in discussione le certezze ricevute. “Perché gli attori del Maggio francese indietreggiarono con orrore di fronte alla follia assassina che si impadronì dei loro amici di Roma, Tokyo e Berlino?”(4) si chiede André Glucksmann. Perché non volevano giustificare, con teorie sulla necessità della storia, il terrorismo, come fecero invece negli anni seguenti i loro compagni e amici tedeschi, giapponesi e italiani, che avevano scelto la violenza armata.
Se pensiamo ai massacri, compiuti dai terroristi palestinesi, degli atleti israeliani a Monaco nel ’72, se pensiamo ai boat-people vietnamiti, ai genocidi nella Cambogia di Pol Pot e a tanti altri delitti perpetrati in nome della rivoluzione, dell’emancipazione del proletariato, noi possiamo renderci conto dello sgomento provato da tanti giovani che si erano impegnati per la liberazione e si trovavano di fronte alla scelta di approvare degli assassini di massa o di fermarsi, di rinunciare. “Sul punto di cedere alla vertigine dell’assassinio, sull’orlo dell’abisso in Francia i gruppuscoli maoisti arretrarono e scomparvero.” (5)
Così noi vediamo come, nella forma della sorpresa sgomenta che genera orrore, si manifesta il riconoscimento della follia di un percorso politico che non tiene conto delle conseguenze concrete delle azioni, anche se compiute per i fini più nobili. Da qui la scelta di cambiare la prospettiva dalla quale ci si poneva, di considerare gli eventi dal punto di vista delle vittime.
Decisiva secondo Glucksmann fu la lettura, da parte di centinaia di migliaia di persone in Francia, di Arcipelago Gulag di Solzenitsin (ma già la repressione dell’agosto’68 a Praga doveva avere aperto gli occhi a parecchi!).
E’ chiaro che l’autore, parlando del raccapriccio che genera il rifiuto di una determinata posizione politica, ripercorre anche il suo proprio tragitto e quello di alcuni dei suoi amici. Emblematico il caso dei boat-people vietnamiti a metà degli anni ’70, quando, per iniziativa di Bernard Henry-Levi e di Bernard Kouchner (che aveva fondato l’associazione Medici Senza Frontiere) venne organizzato l’invio di una nave nell’Oceano Indiano per contribuire alla salvezza dei profughi vietnamiti (e all’iniziativa, con sorpresa degli ispiratori, aderì anche l’anziano Sartre!).
Il viaggio della nave simboleggia probabilmente l’inversione di rotta di parecchi “sessantottini” che rifiutarono di cadere nelle braccia di regimi totalitari: l’antitotalitarismo sicuramente è la cifra che spiega la nascita dei “Nuovi filosofi” che proprio in quegli anni iniziavano ad agire e a pubblicare, a polemizzare con la sinistra che per lo più li considerava dei traditori.
Al contrario, questa ci sembra essere la tesi che sottende gli interventi di André approvati da Raphael: proprio per rimanere fedeli a quei principi di libertà che avevano rese limpide le loro giornate del maggio ‘68, era necessario rifiutare ogni deriva totalitaria (che in nome di grandiose libertà future voleva imporre, con la violenza e il sopruso, la schiavitù per tutti).

Sulla stessa lunghezza d’onda ci sembra muoversi l’analisi, quasi contemporanea, di Paul Berman. Anch’egli infatti sottolinea il mutamento di prospettiva, fin dai primi anni ’70, di parecchi fra coloro che vi avevano partecipato col massimo impegno o erano diventati leader nel periodo successivo al maggio ’68. Nel libro Idealisti e potere (pubblicato originariamente nel 2005) segue i percorsi politici ed esistenziali di alcuni di loro (e dello stesso Glucksmann) proprio in seguito ad una vera presa di coscienza antitotalitaria. Quel che è assai interessante è il riconoscimento documentato che percorsi simili abbiano riguardato altri ex-sessantottini: innanzitutto Joschka Fischer, futuro leader dei Verdi tedeschi, ma poi anche Azar Nafisi, la celebre iraniana autrice di Leggere Lolita a Teheran, e l’irakeno Kanan Makiya, a cui si deve un’indagine devastante sulle caratteristiche del regime baathista di Saddam Hussein, dal titolo Republic Of Fear.
A Berman dobbiamo un approfondimento riguardo al tema delle varie forme di totalitarismo, sia di destra che di sinistra.
Le mitologie totalitarie vogliono fornire una soluzione ai problemi politici e sociali dei vari paesi individuando il nemico sempre, nel capitalismo, nella democrazia liberale, tipici prodotti della modernità. Questo nemico deve essere radicalmente eliminato, perché ha ormai inquinato completamente la civiltà; la situazione di sfascio, di contraddizioni insolubili della modernità, richiedono una lotta senza quartiere una volta individuato il fattore o i fattori responsabili della rovina. L’immancabile vittoria finale riporterebbe, in forme nuove, quel carattere di unità senza contrasti che aveva caratterizzato – secondo la visione mitologica dei vari totalitarismi – le civiltà del passato. Così Mussolini sognava di restaurare l’Impero Romano, “la moltitudine dei fascisti spagnoli a Salamanca sognava proprio il Medioevo. Quanto ai Nazisti la loro chiassosa propaganda wagneriana intendeva evocare un passato germanico di antiche foreste e divinità scandinave … Perfino gli stalinisti dell’Unione Sovietica celebravano un culto delle antiche virtù collettive dei primi contadini russi. Tutto sommato, qualche tipo di salto all’indietro verso il passato arcaico ha caratterizzato tutte le mitologie totalitarie dei tempi moderni” (6).
Dalle analisi di Berman, cui abbiamo accennato, risulta chiaramente il carattere di finzione tipico dei totalitarismi, il richiamo ad un immaginario passato per costruire un futuro altrettanto immaginario: quel che risulta invece del tutto reale è la volontà di distruggere la civiltà liberale e democratica, il loro nemico assoluto.
La realtà vissuta nei regimi totalitari è quella di una sottomissione globale a cui nessuno può sfuggire: l’ideale del burocrate totalitario è dato dall’unità, anzi dall’uniformità, che cancella tutte le differenze, e questa identicità è impersonata dal capo, dal duce, a cui tutti debbono obbedienza.
Ora, se noi volessimo specificare ulteriormente quello che è soltanto implicito in Berman e in Glucksmann, potremmo notare che ogni libertà è bandita, nel senso che sono permessi per legge soltanto rapporti di dominio, di comando e obbedienza. I gruppi, politici e sociali, sono disposti in una stratificazione di superiorità e di inferiorità, per cui sono vietati per legge tutti i rapporti paritetici basati su uguaglianza di diritti: ne consegue perciò che anche chi appartiene ad un gruppo dominante ha il divieto di rapporti egualitari (o persino contatti) con membri di gruppi inferiori, quindi non è libero. Nessuno è libero, anche se gode di privilegi, rispetto ad altri strati, in un regime totalitario.
Quello che comunque sostiene i seguaci di questi regimi è la certezza che le oppressioni e il terrore sono necessari per realizzare i grandiosi obiettivi futuri: insomma “il fine giustifica i mezzi”. Ora, a fare mutare completamente le convinzioni dei Nuovi Filosofi e di quanti giunsero a condividerne le posizioni, fu il ripudio di questo assunto e il rovesciamento di prospettiva. Essi cominciarono appunto a interrogarsi, a interrogare le azioni che compivano, ponendosi dal punto di vista delle vittime, cioè di tutti coloro che erano costretti a subire le conseguenze pratiche implicate necessariamente nelle ideologie che promettevano un avvenire radioso. In questo modo giunsero a ripudiare ogni espressione di totalitarismo.
E’ una concezione fideistica, che in fondo non considera il male nella sua realtà, quella che disgiunge fini e mezzi (cioè non tiene conto che i mezzi sono adeguati a conseguire i fini congruenti con essi e non altri) e che in fondo, con un rovesciamento dialettico, nega il male in quanto tale, perché esso sarebbe solo apparente, cioè gravido di un bene futuro anche se nascosto. Una sorta di sostituto immanente della Provvidenza trascendente sarebbe contenuto nella Storia, una volta che si resti convinti da una Ideologia stringente che la Storia sia il soggetto universale che marcia necessariamente verso il Progresso, verso il Bene. Glucksmann e i suoi amici, respingendo il giustificazionismo fideistico del Progresso storico, ribaltano la prospettiva delle loro analisi e in questo modo si rendono conto della realtà del male e non si illudono più che da esso possa provenire un bene futuro (7).
Qualche dubbio e perplessità invece, come accennavamo in precedenza, proviene da una mancata distinzione fra autoritarismo e totalitarismo, presente anche in Glucksmann. La liberazione dall’autoritarismo, realizzata nel’68 in Francia (e in molti altri paesi occidentali) è un’esplosione di libertà, ma ha ben poco a che vedere con la liberazione dal totalitarismo!
Il rifiuto dell’autorità in ogni sua forma è di matrice anarchica, ripresa poi in parte dai Situazionisti e richiede il “gesto esemplare”, l’atto gratuito che ne manifesti l’assolutezza in quanto indipendente da ogni motivazione utilitaristica. E’ in fondo una forma estetica, che deriva dal rifiuto di ogni obbligazione, di ogni divieto, che ispirò soprattutto il movimento surrealista (dal quale trent’anni dopo furono influenzati i Situazionisti). Camus nel suo grande libro L’uomo in rivolta ci ricorda ad esempio che il Surrealismo “ha anche osato dire, ed è questa la frase di cui dal 1933 deve rammaricarsi André Breton, che il più semplice atto surrealista consisteva nello scendere in strada, rivoltella in pugno, e tirare a caso sulla folla … La teoria dell’atto gratuito corona la rivendicazione della libertà assoluta” (8). Secondo il parere di Camus, chi rifiuta ogni limitazione dell’individuo e del suo desiderio di essere, si affaccia sulla soglia del nichilismo. “Lo slancio della vita, l’urgere dell’inconscio, il grido dell’irrazionale sono le sole verità pure che si debbano favorire. Tutto ciò che si oppone al desiderio, e principalmente la società, deve dunque essere distrutto senza remissione” (9).
L’esigenza di “essere”, senza alcuna remora è quella della Vita che non conosce limiti ma vuole diffondersi ovunque in tutti i suoi innumerevoli aspetti, al di là del bene e del male nell’assoluta innocenza di ogni nuova forma: essa pretende l’accettazione di tutto ciò che esiste, senza alcuna discriminazione (secondo l’insegnamento di Nietzsche). Solo se ci si pone dal punto di vista della Vita ha senso il rifiuto di ogni autorità, che reprime l’illimitatezza dei desideri consci e inconsci, delle pulsioni; solo da questa prospettiva l’autorità può venire identificata con la dittatura, con il male, e deve quindi venire distrutta.
Ma allora, in nome di una libertà assoluta dell’individuo, si pone l’esigenza della distruzione di ogni istituzione, perché rappresenta il confine che non deve essere valicato: in tal modo però si presenta il pericolo, assai serio, di una prossimità a qualche elemento del totalitarismo stesso! Se non altro ci rendiamo conto che hanno in comune la volontà di rovesciare completamente le democrazie della civiltà liberale. Il nemico assoluto di ogni totalitarismo è sempre la civiltà liberale, fondata sull’uguaglianza dei diritti e doveri dei cittadini, quindi se l’anti-autoritarismo, con un colossale fraintendimento, si rivolge anch’esso contro la civiltà occidentale, rischia di avere lo stesso nemico in comune con il totalitarismo e di provare a volte la tentazione di allearsi con quest’ultimo. Anche a questo proposito ci viene in aiuto Camus nella sua critica ai Surrealisti: “ma questi frenetici volevano una ‘rivoluzione qualunque’, una qualsiasi cosa che li traesse dal mondo di bottegai e di compromesso in cui erano costretti a vivere. Non potendo avere il meglio, preferivano piuttosto il peggio. In questo erano nichilisti” (10).
Nel ’67 viene pubblicato il testo chiave del Situazionismo, La società dello spettacolo di Guy Debord, che esprime il rifiuto totale della mercificazione di un capitalismo che spettacolarizza tutti i fenomeni (l’influenza surrealista è molto marcata).
Ricordiamo altresì le celebri analisi dei rappresentanti della “Scuola di Francoforte” sulla negatività intrinseca all’intera civiltà occidentale (dall’Odissea di Omero in poi): autorità e repressioni degli istinti e dei desideri costituiscono le caratteristiche principali che portano al Nazismo (vedi Horckheimer e Adorno con la Dialettica dell’Illuminismo). Unica via di uscita da questa visione apocalittica la liberazione sessuale e degli istinti per una società alternativa (Herbert Marcuse con Eros e civiltà e il celebre testo L’uomo a una dimensione, che ebbero grande influenza sui giovani nel ’68 a livello mondiale).
Insomma questa volontà di una distruzione totale dell’esistente per una sua rigenerazione è comune con le esigenze più profonde dei movimenti totalitari! Questo costituisce una pericolosa fonte di confusione cui anche Glucksmann non riesce del tutto a sottrarsi nel suo pamphlet.
Rinunciamo qui ad occuparci di altri autori, che andrebbero esaminati più dettagliatamente – anche perché non ne abbiamo le competenze – e che dimostrarono grande influenza sulla generazione del ’68: basterà accennare all’Antipsichiatria di Cooper e Laing, che negava la malattia psichica dei pazienti perché ad essere “malata” era la società occidentale in quanto tale, oppure i celebri studi di Antropologia di Margareth Mead e Ruth Benedict degli anni ’20-’30 che contrapponevano alle opprimenti e repressive società moderne le mitiche società primitive dei Mari del Sud, caratterizzate dalla libertà sessuale e da rapporti pacifici. Il sogno è quello di una società nella quale l’appagamento dei desideri di felicità abolisca le lotte e i contrasti, abolisca il dolore e la necessaria rinuncia. Ma i sogni di una totale palingenesi, anche se nati con le più nobili intenzioni, non sono adeguati alla Condizione Umana, anzi ne rappresentano in verità la negazione (11).
Allora potrebbe darsi il caso che – una volta tramontati i miti di una redenzione totale nel nome del comunismo – il rifiuto della civiltà liberale e democratica si ripresenti a coloro che sono rimasti privi delle precedenti illusioni.
A scanso di equivoci, non intendiamo in alcun modo sostenere che le fonti culturali e politiche dei movimenti dei vari paesi occidentali nel’68 siano riconducibili in toto ad una ispirazione di palingenesi globale, di rifiuto totale di ogni istituzione, però non possiamo nasconderci che in non pochi casi ci troviamo di fronte, prendendo in esame quegli eventi, ad intenti di questo tipo, apertamente dichiarati.
In conclusione possiamo fissare la nostra attenzione, in una eventuale analisi, ponendoci dal punto di vista antitotalitario, sulla confusione fra autoritarismo (presente nelle democrazie nella forma di degenerazione dell’autorità) e totalitarismo (che le vuole distruggere) e sulla differenza, anch’essa fondamentale, sempre nella prospettiva antitotalitaria, fra una libertà assoluta dell’individuo (la libera espressione della vita in tutti i suoi aspetti, che può sfociare in una prospettiva nichilista) e la libertà del cittadino, limitata non tanto dalle leggi quanto piuttosto dall’esistenza stessa della libertà degli altri cittadini (che genera queste leggi).

II

Per noi, che ci siamo sforzati di svolgere queste brevi considerazioni prendendo spunto dal testo di André e Raphael Glucksmann sul ’68 francese, ponendoci dal punto di vista antitotalitario, ossia la difesa della libertà del cittadino, è ora importante rivolgere l’attenzione ad un altro ’68, quasi del tutto dimenticato, in questo periodo di rievocazione del 40° anniversario. Vogliamo riferirci al ’68 di Praga che, dalla primavera di cambiamenti, democratizzazione e speranza di libertà, giungerà fino alla tragedia del 21 agosto, data dell’invasione da parte dei carri armati sovietici.
Non intendiamo con ciò sminuire l’importanza dell’evento che riguardò molti paesi occidentali, bensì porlo a confronto con un altro decisivo avvenimento, che coinvolse i paesi del “socialismo reale”, con conseguenze alla lunga determinanti, che tuttavia ha suscitato scarsa attenzione, a nostro parere del tutto immeritatamente.
Ci facciamo aiutare, per questa breve disamina, dal testo recentissimo di Enzo Bettiza sulla rivoluzione di Praga (12). L’autore ripresenta una serie di articoli che aveva inviato al ‘Corriere della Sera’, come corrispondente da Praga dal 18 luglio al 30 agosto 1968, corredati da una Prefazione odierna di grande interesse.
Il sottotitolo del volume è emblematico: La rivoluzione dimenticata e questo sta a significare che si rivelava molto diversa dagli schemi dei movimenti contestatori occidentali, quindi non inquadrabile, dunque emarginabile facilmente.
Ma in che cosa consisteva questa differenza? Detto in forma estremamente sintetica: lì la rivoluzione era opera non solo dei giovani, degli studenti, ma praticamente della grande maggioranza del popolo ed era diretta contro un regime davvero totalitario, imposto dagli stranieri, dai sovietici. Nei primi mesi dell’anno il Partito Comunista si era però parzialmente destalinizzato e riformato, con l’elezione a segretario del semisconosciuto Dubcek, che propugnava il rinnovamento, un “socialismo dal volto umano”.
I cittadini, che uscivano dalla lunga ibernazione totalitaria, divoravano i giornali che cominciavano a riportare le notizie non più drasticamente censurate, si consultavano sugli avvenimenti del giorno, si allineavano davanti ai tavoli pubblici in attesa di firmare petizioni per le riforme, ascoltavano con gioia e stupore la radio e soprattutto assistevano alle interviste della televisione, diretta da Pelikàn, fra giornalisti e autorità, non preconfezionate (questa stessa televisione che rimarrà l’ultima emittente libera e funzionante nei primi giorni dopo l’invasione).
Insomma erano mesi di grandi speranze, di grande tensione, ma con intenti molto diversi: a Praga l’obiettivo era quello di liberarsi dall’oppressione totalitaria per ritornare ad una libertà che era stata completamente conculcata ma che rimaneva nel ricordo: “era l’immagine liberale dei fondatori della patria binazionale, Masaryk e Benes che quella ‘primavera’ riportava alla mente non più prigioniera dei cechi e slovacchi” (13). Essi volevano rientrare nella storia ricongiungendosi a quel passato, tradito e calpestato dai despoti, che era esistito nella repubblica di Masaryk e Benes, una delle più democratiche e libere dell’epoca fra le due guerre dal 1918 al 1938 (e per il breve periodo di compromesso democratico dal 1945 al 1948).
Qui, a nostro parere, si trova la radice della differenza, per non dire contrapposizione con l’altro ’68: non l’escatologica liberazione assoluta di un futuro prefigurato in un mitico passato, ma il ripristino di libertà civili già ben conosciute in un passato reale, oggetto di esperienza non immaginaria. In questo caso il “futuro nel passato” non rinvia all’utopica realizzazione delle speranze e dei sogni degli oppressi, ma ad una esperienza ben precisa, ancora viva nel ricordo, che pone richieste il cui significato fa riferimento a ciò che era già stato attuato in precedenza. La libertà non era l’appagamento di tutti i desideri, ma la libertà del cittadino contro il totalitarismo.
Nella primavera a molti sembrava possibile che il regime riuscisse a modificarsi, che il Partito Comunista avviasse e realizzasse le liberalizzazioni sperate dagli oppressi, insomma che la dittatura, sotto la spinta delle richieste popolari, fosse disposta ad autocorreggersi, a ripudiare gli errori e le prepotenze compiute per decenni. Dubcek incarnava questa speranza nella riformabilità del sistema. Eppure all’inizio dell’estate la situazione aveva cominciato a farsi tesa: le critiche del “Partito fratello” dell’U.R.S.S. ai cecoslovacchi si intensificavano di giorno in giorno e alla fine di luglio un incontro durato parecchi giorni fra i due Praesidium dei Partiti Comunisti registrava una grande tensione e una contrapposizione completa delle posizioni politiche. Nessuno sbocco, nessuna soluzione, insomma.
Poi, all’improvviso, alle prime ore del mattino del 21 agosto, i carri armati sovietici entrano nella Repubblica e a Praga. La reazione appare subito molto diversa da quella del novembre 1956 a Budapest: memori di quella tragedia e dei massacri (gli Ungheresi avevano usato le armi nella loro eroica rivoluzione e questo aveva fornito la giustificazione per le stragi degli insorti ad opera delle divisioni corazzate sovietiche) i cecoslovacchi non reagiscono per non dare esca alla violenza degli invasori; pur allibiti e sconcertati cercano solo di parlare, di interrogare, di ragionare (mentre l’esercito regolare rimane confinato nelle caserme). Nota Bettiza: “I sovietici hanno insomma aggredito e deluso una popolazione pacifica, più stupefatta che intimorita, incline a replicare alle armi con le discussioni e talvolta, secondo il tipico stile praghese, anche con ‘la beffa e l’ironia’” (14).
Possiamo ricordare a questo proposito l’irrisione e la beffa che Glucksmann sottolineava trattando del maggio parigino; anche a Praga Bettiza registra espressioni beffarde e di scherno, come forma di resistenza da parte della popolazione. “Mi ha colpito il manifesto di una grande testa di Lenin grondante lacrime sopra un carro armato con la stella rossa; l’iscrizione diceva ‘Svegliati Lenin, Breznev è impazzito’ … Già nelle prime ore dell’invasione migliaia di scritte e slogan hanno cominciato a coprire edifici e mura di Praga. Lo scherno predominava sulla collera: ‘Lavoratori di tutto il mondo scusatemi! Karl Marx’ . Oppure: ‘Ivan, torna a casa, Natascia ti tradisce con un cinese’”(15).
Tuttavia possiamo notare anche le profonde differenze: là l’irrisione era segno di un’esperienza di gioiosa liberazione, qui al contrario le espressioni beffarde sono il segno di un’esperienza di sgomento di fronte all’infrangersi di una speranza, alla perdita di una grande illusione, quella che il totalitarismo sovietico potesse riformarsi mostrando un volto umano. Insieme alla costernazione l’inviato ci comunica nelle ultime corrispondenze, scritte con uno stile che denota anche un’angoscia personale, il manifestarsi della dignità offesa dell’intero popolo: il silenzio, il rifiuto di chinare la testa, la consapevolezza tacita dell’indignazione per essere stato violentato.
Le vicende successive, la degradazione del gruppo dirigente cecoslovacco, le ambiguità e le debolezze di alcuni di loro (fra i quali Dubcek, moralmente distrutto) la fuga dell’indomito Pelikàn, che fino all’ultimo aveva trasmesso clandestinamente la voce di Praga libera, sono avvenimenti noti e non vi insisteremo (16).
Ci preme soltanto accennare brevemente a quello che costituisce, a nostro parere, il vero epilogo della tragedia e che viene descritto, sempre da Bettiza, nell’ultimo capitolo intitolato emblematicamente L’inverno di Praga: il 22 gennaio del ’69 nella principale Piazza San Venceslao a Praga si dà fuoco lo studente boemo Jan Palach, come estremo gesto di protesta per l’invasione sovietica di cinque mesi prima. Bettiza giunge sul posto il giorno seguente ed è presente ai funerali pubblici del 25 gennaio.
In una grigia, piovosa giornata di inverno quasi un milione di persone scende in piazza in silenzio e partecipa alla cerimonia di addio all’eroe di un intero popolo. “A mezzogiorno l’urlo congiunto di alcune sirene ha trasformato di colpo un’intera città, uomini e cose, in un paesaggio pietrificato. Tutto si è fermato per cinque minuti nella più assoluta immobilità. Mentre le sirene incalzavano e le campane delle chiese rintoccavano a morto, le automobili, i viandanti, la gente nei negozi, gli operai nelle fabbriche, gli impiegati negli uffici si paralizzavano come fulminati da un’ingiunzione biblica” (17). Quasi nessun membro delle autorità importanti era presente (Dubcek e Cernik ormai tornati all’ovile della normalizzazione) solo pochi irriducibili, come Smrkovsky, avevano portato la loro testimonianza muta e triste. Commenta tagliente Bettiza: “In un certo senso il funerale di Palach è stato altamente rivelatore: un censimento visibile degli assenti che hanno curvato la schiena e dei presenti che l’hanno mantenuta dritta” (18).
Ma, oltre che ad un censimento, ci sembra che il funerale abbia fatto segno anche ad un’altra, importantissima esperienza: quella di un popolo che, nella sua grande maggioranza, vuole mantenere intatta la propria dignità. Il silenzio, l’immobilità di milioni di persone “pietrificate” esprimono, con la massima eloquenza, la decisione di non volere cedere alla prepotenza della forza bruta.
Questa esigenza di libertà, sconfitta ma non vinta, si ripresenterà con i manifesti di Charta ’77 (scritti fra gli altri da Vàclav Havel e Jan Patocka) e poi ancora con la mobilitazione spontanea di Piazza San Venceslao nell’autunno dell’89, data della implosione finale dell’impero totalitario dell’U.R.S.S.
La decisione irremovibile di non cedere al totalitarismo, lottando pacificamente, una marea di persone in piazza unite dalla semplice richiesta – non negoziabile – di libertà, questi ci sembrano gli insegnamenti che non andranno perduti, ma si diffonderanno, a volte con successo, a volte con cocenti sconfitte, anche in altri paesi nei decenni seguenti. Proviamo a citare qualche esempio: Solidarnosc in Polonia, Piazza Tien An Men a Pechino, e poi la rivoluzione arancione in Ucraina nel nuovo secolo e anche, perché no? La rivoluzione dei cedri in Libano.

P.S. Il 20 giugno è stata inaugurata a Milano una importante mostra fotografica: Josef Koudelka, Invasione. Praga 1968, Spazio Forma, Piazza Tito Lucrezio Caro, 1, fino al 7 settembre. Si tratta di una testimonianza impressionante, di immagini scattate da un giovane fotografo a partire dalle prime ore del 21 agosto e fatte pervenire fortunosamente in Occidente poco tempo dopo. Pensiamo che sia chiarificatrice soprattutto per quei visitatori che avessero ancora qualche dubbio su che cosa significhi, da parte di un regime totalitario, l’uso della forza par reprimere la libertà.

Note
1 – André, Raphael Glucksmann, Sessantotto, Piemme, Casale Monferrato, 2008.
2 – Op. cit., pag. 98.
3 – Op. cit., pag. 22.
4 – Idem, pag. 139.
5 – Idem, pag 122.
6 – Paul Berman, Idealisti e potere, Milano, 2007, pag. 195.
7 – I Nuovi Filosofi si ricollegano a maestri dell’antitotalitarismo, che avevano riconosciuto questo virus mortale anche nella sinistra comunista fin dagli anni ’30 e ’40, come Orwell, Koestler, Camus, Hannah Arendt, Aron e altri e ne traggono alimento per le loro polemiche, spiazzanti per tutti coloro che si richiamano alla tradizione marxista-leninista nelle sue molteplici varianti. Ci sembra giusto ricordare che in Italia per molti decenni gli antitotalitari di sinistra vennero ostracizzati dal PCI (e anche dalla nuova sinistra post ’68); basterebbe ricordare i nomi di Silone e Chiaromonte (con la rivista ‘Tempo Presente’), Pannunzio e Ernesto Rossi (con la rivista ‘Il Mondo’) per non citare che qualche nome. A nostro parere non aver voluto fare i conti con il proprio passato politico in chiave di contrapposizione fra totalitarismo e antitotalitarismo pesa ancora oggi per gran parte di ciò che resta della sinistra e le impedisce di rigenerarsi. Non è quindi un problema che – almeno in Italia – riguarda solo il ’68!
8 – Albet Camus, L’uomo in rivolta, Milano, 2002, pag. 106.
9 – Op. cit., ibidem.
10 – Op. cit, pag. 107.
11 – Già gli antichi Greci avevano denunciato nelle loro opere, specialmente nelle tragedie, la mancanza di limitazione, l’irrefrenabile desiderio di diventare simili agli Dei, senza dolore, senza rinunce, in una situazione di immortalità che produceva una vita beata ; insomma un rifiuto della Condizione Umana. Essi avevano denominato hybris questa sfrenatezza, origine principale di ogni rovina.
12 – Enzo Bettiza, La primavera di Praga. 1968, la rivoluzione dimenticata, Milano, 2008.
13 – Op. cit., pag 13.
14 – Op. cit, pag. 105.
15 – Ibidem.
16 – Ci si potrebbe chiedere, a questo proposito, se ci fossero alternative per evitare l’invasione, anche se domande simili lasciano sempre insoddisfatti. Noi certo non abbiamo le conoscenze e le competenze per una risposta: ci limitiamo comunque ad un accenno presente nel testo di Bettiza. Quando, a settembre, aveva incontrato fortunosamente a Vienna il fuggiasco Pelikàn lo aveva intervistato sulle convulse giornate dell’invasione, viste dal direttore della Televisione. Concludendo il colloquio gli aveva chiesto la sua opinione sul comportamento contraddittorio e incerto di Dubcek nei primi giorni dopo l’invasione e aveva ricevuto un’amara risposta. Il leader della Primavera aveva, con le sue ingenuità politiche, logorato il patrimonio di stima che la popolazione riponeva in lui.
Il 16 e 17 agosto Ceausescu, quando era stato invitato a Praga e aveva ricevuto un’accoglienza trionfale per le parole di fermezza che aveva pronunciato in un grande discorso pubblico (aveva elogiato “lo sviluppo della democrazia socialista” di Praga e ammonito l’U.R.S.S. che non era in alcun modo giustificabile un ricorso alla forza per intervenire nei problemi interni di uno Stato del Patto di Varsavia) aveva anche messo sull’avviso, privatamente, la dirigenza cecoslovacca sui rischi che correva, senza però riuscire a convincerla. Secondo Pelikàn Dubcek aveva dimostrato ingenuità e scarso realismo, facendosi cogliere assolutamente impreparato. “non ha voluto dare ascolto a Ceausescu che ci consigliava di predisporre gli strumenti di una legittima resistenza armata al pericolo di invasione. Non ha mai cercato di capire che la salvaguardia e l’espansione dell’impero russo sono molto più importanti per Breznev dell’evoluzione internazionale del comunismo”. Op. cit., pag. 144. Sarebbe stata questa una alternativa realistica ? Lo spiegamento delle truppe alle frontiere avrebbe potuto costituire un deterrente sufficiente a convincere Breznev che un’invasione sarebbe costata un prezzo troppo alto e che quindi sarebbe stato I

Giuseppe Magni, 68 e totalitarismoultima modifica: 2008-09-20T19:31:00+02:00da mangano1
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