Jean Luc Nancy, Amore e destino

dal CORRIERE DELLA SERA, 2 ottobre 2008
Jean-Luc Nancy
Amore e destino le nuove parole della politica
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Tramonta il modello «ricchezza e successo»

Ripartendo da Hegel e Rousseau
Il filosofo francese delinea un rapporto inedito tra sfera pubblica e
sentimenti personali.
È comprensibile che oggi ci s’inquieti per il possibile destino dell’amore –
così come ci si può inquietare per il destino della politica o anche per
quello della scienza. Ma può darsi che – per l’amore come per la politica o
la scienza (come per l’arte, la filosofia, la religione) – gravi su queste
inquietudini una pesante ipoteca: se supponiamo che ciascuna di queste
parole sottintenda un concetto intoccabile e intangibile, di cui potremmo
dare le coordinate logico-semantiche, allora non c’è alcun dubbio che
l’«amore» sia in pericolo, come lo è anche la politica. Ma niente ci porta a
dire che possiamo o dobbiamo credere al valore perenne di queste nozioni.
Non è impossibile comprendere ciò che lega la politica all’amore, in maniera
inapparente ma incontestabile. L’intera nostra tradizione parla a questo
proposito un linguaggio visibilmente doppio: da una parte si afferma che la
vita comune deve avere per principio l’amore (che sia sotto la forma del
legame familiare, come per Hegel, sotto quella del contratto come consenso,
con Rousseau, sotto quella dell’amicizia connessa alla sovranità, con Carl
Schmitt) ma dall’altra parte si afferma anche che l’amore appartiene alla
sfera privata e non può intervenire né come ingrediente, né come modello
nella sfera pubblica.
Tuttavia, accade che oggi la mutazione profonda della politica – ossia il
fatto che essa debba rinunciare a realizzare l’assunzione di un destino
collettivo ma ben piuttosto subordinarsi alle sfere non politiche in cui si
gioca ciò che merita propriamente il nome di «destino» (destinazione, fine
ultima…) – questa mutazione, dunque, libera in conclusione un nuovo spazio
per l’amore: né principio supposto di un’alleanza comunitaria, né pura
elezione privata sottratta all’intera posta in gioco comune, l’amore
potrebbe d’ora in avanti trovare un modo nuovo di affilare il suo proprio
carattere (tutto ciò che gira attorno al matrimonio e alle forme connesse
che s’inventano attorno ad esso e in parte contro di esso è forse rivelatore
di una possibilità importante di trasformazione dei rapporti tra l’amore e
la sfera pubblica o sociale).
Più ancora di Freud e del suo tempo, noi abbiamo compreso che la violenza
non soltanto può diventare ben più mostruosa di quella delle trincee, delle
mitragliatrici e dei gas, non soltanto può propagare e disperdere le proprie
piaghe ben al di là del teatro dei combattimenti, fino al cuore di ogni
vita, ma ancor più può diventare violenza inerente all’ordine o al disordine
sociale, economico, culturale, violenza ideologica, finanziaria, tecnica,
amministrativa, ecologica… Non è più un «disagio della civiltà » quello al
quale noi assistiamo, è la civilizzazione stessa come disagio e come
barbarie nel senso preciso di un’impresa di conquista e di espansione
privata di veri scopi, presa dalla sola vertigine di un’accumulazione di
ricchezza e di performance che non designano alcun altro orizzonte al di
fuori della loro stessa espansione indefinita.
L’amore nel suo concetto moderno – vale a dire cristiano, romantico e
metafisico – rappresenta il rovescio (o il dritto…) di una tale
espansione, salvo a qualificarla d’infinito e non d’indefinito. Se il
principio moderno in generale – il principio sotto l’effetto del quale si è
dissolto il principio di tutte le altre culture, che era sempre, sotto l’uno
o l’altro modo, un principio di determinazione e di finitudine – è proprio
il principio d’infinitudine, allora il suo dispiegamento esige la proiezione
di una fine infinita. Una fine infinita rivela una contraddizione se la fine
deve mettere un termine all’infinito. Ma bisogna distinguere con Hegel il
cattivo e il buon infinito. Il cattivo è quello in cui l’infinità è in
potenza: è sempre suscettibile di essere portata più lontano e
«l’infinitamente più» è così esteriore a se stesso. Il buon infinito è
quello in cui l’infinità è in atto (vale a dire che è solo reale): il suo
«infinitamente più» è sempre già effettivamente in sé, ma così la sua
interiorità è strutturalmente in eccesso su di sé.
L’espansione indefinita – o semplicemente esteriore – dei fini
dell’arricchimento e della performance forma la fine infinita secondo il
cattivo infinito. È la fine infinita secondo la quale la fine, lo scopo, il
compimento, non consiste che nella produzione rinnovata di valori o sensi
sempre equivalenti tra loro: tanto per il denaro come per i valori tecnici
misurati in velocità, distanza, forza eccetera (al contrario, ricchezza o
performance possono essere misurate in tutt’altra maniera: nella dismisura
di una gloria, di un’opera, di un pensiero…).
L’amore è il nome della fine infinita secondo il buon infinito. In esso il
compimento consiste non in una produzione ma in qualche modo nella
riproduzione, nella ripetizione, ossia nella ruminatio di
un’incommensurabile: l’amore, precisamente, come assegnazione (attribuzione,
attestazione, dichiarazione, creazione: bisognerebbe analizzare tutti questi
modi) di un valore assoluto – nemmeno «valente», in qualche modo, o valente
di non essere valutabile. Questa semplice constatazione ci permette anche di
affermare qualcosa di molto semplice ma di una grande importanza: il solo
fatto che siamo in apprensione per l’amore, che non cessiamo di cercarlo
nella vita e d’interrogarlo nel pensiero, comprendendoci e, assieme e allo
stesso tempo, fraintendendoci su ciò che abbiamo così di mira, questo solo
fatto ci assicura che l’«amore» c’inquieta, che ci tiene in allerta e che è
una scommessa – non oserei dire «di civilizzazione», tanto l’espressione è
già usata fino ad essere uno slogan politico, ma direi in maniera più
barbara «esistenziale » e/o «ontologica» (a meno che non si preferisca
«metafisica», questo m’importa poco).
Mettiamo dunque la nostra cura al lavoro: amiamo la nostra stessa
inquietudine d’amore riguardo all’amore. Cerchiamo di avere per l’amore un
pensiero slegato, esigente, che ami il suo oggetto e che gli porti tutta la
stima di cui è capace: un pensiero amante. Con questo voglio dire: non un
pensiero che si lascia captare da tutto ciò che pretendono dirci dell’amore
in forma sociologica, psicologica o culturale

Jean Luc Nancy, Amore e destinoultima modifica: 2008-10-02T19:07:00+02:00da mangano1
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