Lea Melandri, Perchè il femminismo ” non sfonda” adesso che potrebbe?

Da «Liberazione» (15/10/2008):
Il salvifico bilinguismo della cultura politica delle donne
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Perché il femminismo non «sfonda» adesso che potrebbe?
Lea Melandri

Perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che
riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata? Che difficoltà
abbiamo incontrato e incontriamo per sentirci oggi così `povere’ pur
possedendo un sapere prezioso, uno sguardo sul mondo indispensabile per
capire i rivolgimenti in atto nel presente?

Qualche giorno fa, per il decennale dell’Università Bicocca di Milano, sono
stata invitata a parlare di «Democrazia di genere e processi formativi». Il tema
in discussione richiama quello di una serie di seminari, che si sono tenuti tra
Milano e Roma, a partire dall’inizio del 2000, dal titolo: «L’eredità del 1681079734.jpg
femminismo di fronte agli interrogativi del presente».

Evidentemente è un dubbio che periodicamente ci attraversa e a cui
stentiamo a dare una risposta: come mai la cultura politica prodotta dalle
donne, in un percorso di riflessione ormai più che trentennale, non ha la
visibilità e l’incisività che ci aspetteremmo, soprattutto se si tiene conto che
alcune delle tematiche su cui si è mossa sono oggi al centro della vita
pubblica.

Penso alla crisi della politica, che oggi tocca il suo stesso atto fondativo -la
divisione sessuale del lavoro, la scissione tra corpo e linguaggio, individuo e
società -, la preminenza che hanno assunto il corpo, la sessualità, la salute, il
nascere e il morire, la violenza maschile contro le donne, il rapporto col
diverso, vicende essenziali dell’umano su cui oggi intervengono
pesantemente i massimi poteri della vita pubblica: Stato, Chiesa, scienza,
mercato, media.

Se è vero che la pacifica `rivoluzione femminista’ è l’unica sopravissuta alla
fine degli anni ’70, l’unica che abbia avuto continuità in una vasta
proliferazione di gruppi, associazioni, centri culturali e politici, è anche vero
che è la più silenziosa, oscillante tra brevi comparse e altrettanto rapide
sparizioni. Il pensiero e l’azione politica del movimento delle donne sembra
aver perso estensione e radicalità proprio quando è il contesto storico in cui
viviamo a richiederla. Un antidoto al populismo, al trionfo dell’antipolitica, al
risveglio del fondamentalismo religioso, potrebbero essere proprio quella
`politica della vita’ che discende dalle pratiche e dai saperi degli anni ’70.

La domanda che viene da porsi allora è questa: perché il femminismo non è
riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera
pubblica e sfera privata?
Che difficoltà abbiamo incontrato e incontriamo per sentirci oggi così `povere’
pur possedendo un sapere prezioso, uno sguardo sul mondo indispensabile
per capire i rivolgimenti in atto nel presente?

Faccio un passo indietro e parto da una osservazione elementare: la donna,
esclusa dalle responsabilità della vita pubblica, dallo statuto stesso di
“umano”, identificata col corpo, la natura, la funzione sessuale e riproduttiva,
è stata da sempre `oggetto’ del sapere. Sono stati i saperi, oltre che i poteri,
della comunità storica degli uomini a definire che cosa è “femminile”, a
esercitare, più o meno direttamente, sui corpi, sulla vita psichica e
intellettuale delle donne, controllo, imperio, sfruttamento, violenza o, al
contrario, esaltazione immaginaria.

Attraverso i saperi passa la violenza manifesta di un dominio, ma anche e
soprattutto quella violenza più insidiosa, perché `invisibile’, che è
l’interiorizzazione di un’immagine di sé dettata da altri: un modo di pensarsi,
di sentire, di essere, che fa propria la lingua e la visione del mondo dell’altro.
Quando esclude le donne dal `contratto sociale’, quando descrive
l’educazione della femmina, destinata a vivere “in funzione degli uomini”,
“piacere e rendersi utile a loro”, Rousseau, il padre della democrazia
moderna, sa di poter contare sul sentire comune delle donne, un sentire fatto
di adattamenti, resistenze, ma anche strategie di sopravvivenza – come il
potere che viene dal rendersi indispensabili all’altro, l’uso sapiente di potenti
attrattive, come la maternità e la seduzione.

Uscire da questa pesante eredità storica ha comportato, per le donne, un
doppio `scarto’: smascherare la falsa `neutralità’ dei saperi creati dal sesso
maschile, ma anche sradicare quella che Sibilla Aleramo, già all’inizio del
`900, chiamava “una rappresentazione del mondo aprioristicamente
ammessa e poi compresa per virtù di analisi”.
L’analisi che Aleramo affronterà in solitudine, attraverso un processo
continuo di `svelamento’ e costruzione dell’ “autonomia dell’essere
femminile” , è diventata poi nel femminismo degli anni ’70 la “pratica
dell’autocoscienza”: un modo di procedere originalissimo, che tiene insieme
scavo in profondità, modificazione di equilibri psichici profondi (“presa di
coscienza”), e costruzione di sé come individualità che si pone per la prima
volta nella sua interezza: corpo pensante, o pensiero incarnato, sessuato.

Quello che avviene negli anni ’70, dunque, non è solo l’ingresso massiccio
delle donne nella vita pubblica – lavoro extradomestico, istruzione,
urbanizzazione, impegno politico, ecc. – , e neppure solo la nascita di una
soggettività femminile singolare e plurale.
E’ una rivoluzione (pacifica) che va alle radici dell’umano, riportando alla
storia quanto di umano è stato `naturalizzato’, sottratto perciò a possibili
cambiamenti, una ridefinizione del confine tra privato e pubblico, che
sovverte l’atto fondativo stesso della politica, che interroga tutte le costruzioni
storiche della civiltà dell’uomo a partire dal pensiero che le sorregge: un
pensiero che si è strappato dalle sue radici biologiche e che su questa
scissione originaria ha costruito tutte le dualità che conosciamo.
Prima fra tutte, quella tra i ruoli del maschio e della femmina.

Quella che si profila, attraverso una inedita coscienza e parola femminile, è
un’idea diversa di cultura, di storia, di democrazia, di libertà, di politica. Non si
tratta di un `sapere’ che si aggiunge ad altri, un’iniezione vitale di
conoscenza, che va ad integrare, o “fecondare la sterile civiltà dell’uomo”
-secondo l’idea di complementarietà che ha accompagnato l’emancipazione
di inizio `900-, ma di un processo formativo e cognitivo che ha osato
addentrarsi nelle “acque insondate delle persona” , in una “materia segreta,
imparentata con l’inconscio”, e che da lì, da quelle “lande deserte”, da quella
`preistoria’ pietrificata, ha cominciato a guardare con occhi diversi la storia, a
sovvertire l’ordine esistente.

“Che cosa avverrà delle istituzioni quando si accorgeranno di essere
funzionalizzate a un sesso solo?” (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli
1979).
E’ con questa domanda che il femminismo tentò allora di costruire un proprio
“lessico politico”, ridefinendo parole già in uso -democrazia, uguaglianza,
libertà, organizzazione, ecc.-, e introducendone delle nuove, frammenti di
una teorizzazione che aveva come punto di partenza e di analisi il `sé’,
rivisitato attraverso la pratica dell’autocoscienza (Lessico politico delle
donne, a cura di Manuela Fraire e Biancamaria Frabotta (1978), ristampato
da Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2002).

La cultura femminista degli anni `70 rappresenta un eccezionale equilibrio tra
un sapere inteso come processo formativo – aderenza alla memoria del
corpo, all’immaginario sessuale, all’esperienza particolare di ognuna- , e, al
medesimo tempo, come tensione trasformativa del mondo, quale si espresse
allora nelle battaglie per il divorzio, l’aborto, il diritto di famiglia, la violenza
sessuale.

Si potrebbe anche dire che mobilitazioni per i diritti e pratiche di liberazione
erano tra loro intersecati: non si voleva che restassero “un pezzo di riforma”
isolata dalla messa in discussione della sessualità e dalla cultura dominante
maschile. Quello che si stava abbozzando era un sapere che, partendo dalla
costruzione di sé, si andava a collocare, con una forte conflittualità, sul
confine tra sfera pubblica e privata, che si richiamava al corpo, alla
sessualità, alla salute fisica e psichica, consapevole dei segni che la civiltà
dell’uomo vi ha lasciato sopra. Era una sfida che le istituzioni non potevano
reggere, e che perciò hanno ostacolato e in alcuni casi osteggiato.
Era, come capì lucidamente Rossana Rossanda, “una critica vera, e perciò
unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra. Non la completa ma la
mette in causa”.

Le difficoltà che il sapere prodotto in quel decennio incontra nel riattraversare
le costruzioni storiche, nascono dunque dalla radicalità dell’assunto iniziale:
un soggetto politico imprevisto e anomalo, quale era la soggettività femminile,
collettiva e insieme rispettosa della singolarità, una `presa di parola’ che
denunciava, non svantaggi o discriminazioni sociali, ma una “espropriazione
di esistenza”, a partire dal destino toccato alla sessualità femminile,
identificata con la procreazione e quindi cancellata come tale -da cui il ruolo
`naturale’ di madre, la dedizione all’uomo, il sacrificio di sé.
Era una affermazione di `libertà’ che si poneva però come lento processo di
`liberazione’ dalle tante `illibertà’ interiorizzate: nel vissuto amoroso, nelle
relazioni famigliari, nei rapporti di lavoro, nella malattia, nella follia,
nell’assuefazione alla violenza quotidiana. Con l’autocoscienza, il processo
conoscitivo si spostava in prossimità del corpo, della memoria che vi si è
depositata sopra. Alle generalizzazioni della politica, opponeva il “partire da
sé”. “Il blocco –scrisse Carla Lonzi- va forzato una per una, passaggio
necessario per la nascita della propria individualità”.

Ma questo processo, che interessa la singola, aveva bisogno di un
“accostamento di vissuti di ognuna”, della presenza fisica delle altre, del
separatismo, cioè di relazioni tra donne fuori dallo sguardo maschile. “Il
sapere sull’autocoscienza non può sostituire la formazione che avviene
praticandola” (M.Fraire).
La soggettività femminile nasce in questa particolare relazione tra simili e, in
questo senso, l’autocoscienza non è la pratica di una fase storica, non è “a
termine”, come si legge nella ricostruzione che la Libreria delle donne di
Milano ha fatto di quegli anni (Non credere di avere dei diritti, Rosenberg &
Sellier, 1987).

Insieme al suo portato teorico, è la forma che ha preso il discorso femminile
sul corpo, sulla sessualità e che non poteva non fare i conti con la psicanalisi.
La sua durata va messa in relazione col fatto che la sessualità non
appartiene a questa o a quell’epoca in particolare, non è solo una
componente della vita personale, ma una struttura portante della società in
tutti i suoi aspetti. Sono d’accordo perciò con Manuela Fraire quando scrive
che è stato “uno strumento abbandonato precocemente”, e che i suoi frutti
maturi sono stati in parte raccolti da certe scritture che ne conservano traccia.
Il riferimento è, in particolare, al gruppo milanese “sessualità e scrittura” (A zig
zag, numero speciale, 1978), alle scritture di esperienza dei corsi delle donne
(Associazione per una Libera Università di Milano), alla rivista “Lapis.
Percorsi della riflessione femminile” (1987-1997).

Difficoltà e ostacoli cominciano a nascere quando il femminismo si estende
fuori dai piccoli gruppi di autocoscienza, dai collettivi cittadini, e a entrare
negli ambiti istituzionali della cultura e della politica, quando “dal movimento
femminista” si passa al “femminismo diffuso”. Se l’allargamento era
augurabile, evidenti furono anche da subito i rischi che comportava:
“Un’operazione massiccia di esproprio e ridefinizione del patrimonio prodotto
dalle donne, da parte di ambiti istituzionali della politica e della cultura”
(Marina Zancan)

Al convegno di Modena sugli “Studi femministi in Italia” (1987), si profilano
due orientamenti: uno che vuole tutelare “spazi di autonomia e di
autogestione, all’interno dell’università, attivare momento di autoriflessione
sulla presenza in quel luogo, definire diversi paradigmi scientifici”,
“decostruire le discipline con pezzi di sapere esterni ad esse”; in altre parole,
mantenere un “pendolarismo tra dentro e fuori l’Università” (Raffaella
Lamberti).
L’altro, proposto da Luisa Muraro, mira invece a fondare un soggetto forte,
una “tradizione” di donne, che come tale ha bisogno di una “autorità” e di un
“linguaggio”, di un “ordine simbolico” su cui fondarsi. Nella costruzione
identitaria di una “differenza femminile” con cui affrontare la vita pubblica,
sparisce l’attenzione al corpo, al sé, al vissuto personale, e anche il sapere
che ne discende porta i segni di una posizione essenzialistica, rassicurante e
destinata ad avere molto seguito, proprio perché sembra portare fuori dalla
lentezza e dalle secche delle pratiche di `liberazione’.

Rispetto a queste due posizioni, la rivista “Lapis” ha rappresentato un
percorso a parte, critico rispetto al “pensiero della differenza”, ma anche
rispetto al proliferare di “studi di genere” in ambiti accademici.
L’intento che muove la redazione è quella di dare continuità e sviluppo alla
pratica con cui era nato il femminismo: ricerca di “nessi” tra politica e vita, tra il
sapere di sè e i “cento ordini del discorso” di cui pure siamo imbevute;
un’autocoscienza capace di interrogare saperi e poteri della vita pubblica;
una “geografia, non una genealogia”, un sapere che non teme di addentrarsi
in “paesaggi inquinati”, di scandagliare il rapporto uomo-donna in tutta la sua
complessità e contraddittorietà.

Ma torniamo all’oggi, alla domanda su come possa contribuire il sapere delle
donne alla costruzione di una “democrazia di genere”. Io penso che la cultura
prodotta dal femminismo -quella che ha mantenuto un’attenzione al corpo,
alla storia personale, al rapporto tra individuo e società- abbia oggi una parte
importantissima, non tanto nel dare risposte quanto nel porre interrogativi al
contesto in cui viviamo, in modo meno semplicistico di quanto non si faccia di
solito, quando si liquida tutto come “barbarie”, “irrazionalità”, “regressione”.

Il femminismo, se resiste alla tentazione di restringersi a “questione
femminile” – uscita dalla marginalità, riequilibrio della rappresentanza,
politiche sociali e famigliari, ecc.-, ha molto da dire, non solo su questioni
specifiche, come la procreazione medicalmente assistita, i consultori, la
violenza maschile contro le donne, ma su fenomeni che investono tutta la
società: la crisi dei partiti, il trionfo dell’antipolitica, il populismo, le politiche
sicuritarie, la xenofobia, la crisi della famiglia, le battaglie per i diritti civili, le
biotecnologie.

Questo comporta, da un lato, recuperare la radicalità dello sguardo, del punto
di vista che ha caratterizzato il femminismo ai suoi inizi –quello che ha visto
nel rapporto tra i sessi l’impianto originario di ogni dualismo-, dall’altro
prendere atto che le problematiche del corpo, e tutto ciò che è stato
considerato “non politico”, sono oggi al centro della vita pubblica, sia pure
sotto etichette che ne occultano il significato politico –ad esempio “questioni
eticamente sensibili”, “problemi di coscienza”. Purtroppo lo sono in modo
molto diverso da come ce lo prospettavamo. Sono temi che rimandano a
vissuti, esperienze umane tra le più significative, ma che non riusciamo quasi
più, non solo a `raccontare’, ma a `vivere’ come tali, tanto sono intersecate,
confuse coi poteri e i linguaggi della sfera pubblica.

Noi volevamo trovare “nessi” tra poli apparentemente opposti, oggi ci
troviamo di fronte a un amalgama, in cui privato e pubblico, casa e città,
azienda e Stato, sembrano divorarsi a vicenda.
Sotto questo profilo si può leggere anche il protagonismo femminile: un
esempio inequivocabile è Sarah Palin, un ibrido perfetto di tratti virili e
femminili tradizionali. Sempre più spesso è il discorso pubblico a prevalere:
non parliamo più di maternità e di aborto, ma di Legge 40 o Legge 194.
Altre volte invece sono la vita e le relazioni personali a prevalere: è il
quotidiano, la casalinghità, ad assorbire e stemprare dentro il `senso comune’
le istituzioni della sfera pubblica.

Per tentare di sciogliere questo agglutinamento pericoloso, di cui si alimenta
il populismo, bisogna tornare a interrogare l’esperienza, sapendo che oggi
non è più pensabile al di fuori dei vincoli che la imparentano con saperi e
poteri istituzionali. Per riappropiarsene occorre un sapere di sé capace perciò
di confrontarsi con tutti i saperi specialistici elaborati dalle donne, i quali, a
loro volta, devono lasciarsi contaminare, modificare, da quei “barlumi di
sapere che vengono dalla lenta modificazione di sé” (A zig zag, 1978).
Bisogna, in altre parole, imparare quello che Laura Kreyder, redattrice della
rivista “Lapis”, chiama “un salvifico bilinguismo”: “il ragionare con la memoria
profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le
parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni”
(Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998)

Ma si tratta anche di saper affrontare la conflittualità che questo sapere
inedito apre in tutti i luoghi in cui le donne sono presenti.

17 ottobre 2008

Lea Melandri, Perchè il femminismo ” non sfonda” adesso che potrebbe?ultima modifica: 2008-10-19T22:16:00+02:00da mangano1
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