Pietro Cataldi, Sull’editoria scolastica

dal sito POLISCRITTURE
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Sono autore di libri per la scuola. Ho dedicato a questa attività gran parte delle mie energie e della mia fiducia in un futuro migliore. Ho conosciuto successi e fiaschi. Continuo a credere in questo lavoro, che è difficile e che considero nobile. E non ritengo di dovermene vergognare. Provo a spiegare perché.

Abbiamo in questo momento in Italia molte ragioni per essere preoccupati. Una delle più sconfortanti è la coincidenza fra un senso comune regressivo (con punte fasciste) e le posizioni del blocco di governo. Per chi pensi a un’alternativa sostanziale non mancherebbero però neppure significativi spiragli di ottimismo. Per esempio: l’alleanza fra destra e ceti popolari danneggia materialmente questi ultimi, che nonostante le televisioni potrebbero infine accorgersene. Ma anche: il senso comune che la destra in parte asseconda e in parte crea scientificamente è intriso di valori meschini, opposti a ogni idea alta di civiltà. Credo che questo secondo aspetto, diciamo culturale, non sia meno importante1049668026.jpg del primo; o almeno Gramsci non lo avrebbe ritenuto meno importante. Per chi desidera un riscatto da sinistra, dunque, si tratterebbe solo di enunciare e difendere valori alternativi a quelli della destra, e si avrebbe dalla propria il meglio di quanto la civiltà occidentale abbia prodotto: generosità anziché egoismo, condivisione anziché competizione, accoglienza anziché razzismo, ricerca di significato comune anziché arrivismo cinico, cultura anziché ignoranza. Invece troppo spesso finiamo con l’inseguire lo stesso senso comune su cui si fonda il successo della destra nella speranza di avvantaggiarcene, e con il restarci intrappolati facendo il gioco di Berlusconi e dei suoi alleati. Per paura di perdere non si prova neppure a vincere (e si perde di brutto). È una questione di egemonia.

Se ne sta avendo una prova sui temi della scuola e dell’università, rispetto ai quali il governo ha varato misure non di riforma ma di distruzione: meno soldi, meno lavoro, meno studio. E da sinistra siamo incapaci di denunciare la sostanza della posta in gioco, che non riguarda i dettagli ma l’insieme; e siamo incapaci di proporre un modello davvero diverso. Non mancano anzi prese di posizione cautamente favorevoli, come quella dell’ex ministro Luigi Berlinguer.

All’interno dell’attacco frontale (e strategico) alla scuola e all’università si colloca la delegittimazione del lavoro intellettuale; e si colloca la brutale aggressione all’editoria scolastica. Ecco: meno scuola, meno lavoro, meno studio; e dunque meno libri. Ora, senza dubbio alcune case editrici hanno gestito poco responsabilmente il proprio ruolo, in modi che potrebbero essere pacatamente denunciati e contenuti con accordi e interventi legislativi. Ma questo attacco ai libri di testo è nel suo insieme del tutto ingiustificato, ed esprime un’alleanza fra il senso comune più volgare e la strategia della destra. Il fatto che non una voce si sia levata per rivendicare la funzione di civiltà dell’editoria scolastica, e che anzi anche la stampa di opposizione abbia preferito lasciarsi trascinare nella stessa crociata ci aiuta a capire – sulla scorta di un dettaglio non del tutto secondario – perché la sinistra resti per ora destinata a una sconfitta così disastrosa.

Perché il governo Berlusconi attacca i libri di testo? Nessuno pare esserselo chiesto; ma la domanda, prima di dargli man forte, sarebbe stata opportuna. Le ragioni sono quattro. Uno: perché l’avversione alla cultura e alla scuola che domina oggi in Italia gli permette di raccattare demagogicamente qualche facile consenso. Due: perché è proprietario di una decina di importanti case editrici scolastiche e ha significativi interessi in gioco; mettendo alle corde i concorrenti (e soprattutto gli invisi editori scolastici puri) può fare altri passi verso il sognato monopolio (o duopolio al massimo). Tre: perché l’editoria scolastica è prevalentemente di sinistra. Ministro Storace, alcuni anni fa, si pensava a censure e visti governativi per i manuali di storia (ma qualcuno se ne ricorda?); ora si è trovata una strada più efficace e più radicale. Quattro: per distruggere un secolare modello di formazione, affidato al libro e alla cultura critica, e sostituirlo con una girandola di Internet, Tv e becchime di altro genere; così da creare meglio il gorilla ammaestrato che produce e consuma e non sa e non pensa.

Come sono fatti i libri di testo? Chi ne ha parlato tanto male dovrebbe dargli uno sguardo. Sono per lo più ben fatti; diciamo pure incredibilmente ben fatti, in un paese in cui funzionano sempre meno cose. Ricchi, aggiornati, gradevoli. Secondo alcuni: troppo ricchi (ma chi chiede meno pagine chiede meno sapere e meno profondità per i nostri giovani), troppo aggiornati (ma chi chiede meno edizioni rinnovate vuole un sapere e dei metodi ignari dei ritmi della globalizzazione), troppo gradevoli (ma un libro fatto di blocchi in bianco e nero oggi non troverebbe udienza nei ragazzi). Costano troppo? Non è vero. Al contrario. Si misuri il prezzo di copertina con quello di libri simili non destinati alla scuola: la metà o un terzo. Le alte vendite sperate e i tetti di spesa permettono e impongono questo risultato.

Si tratta però di una spesa che grava pesantemente sulle spalle delle famiglie. Vero, ma il governo potrebbe permettere la detraibilità fiscale dell’acquisto, e darebbe un aiuto concreto. E poi: in videogiochi gli italiani spendono il doppio che in libri per la scuola. Ma evidentemente i videogiochi sono ritenuti più formativi per i ragazzi. E non diremo dei cellulari, degli I-pod, dei pc, delle scarpe o dei jeans o degli zainetti griffati. Però l’idea di spendere per la cultura – e spesso i libri di testo saranno gli unici libri a entrare in certe famiglie – dispiace assai di più. E dispiace che ci sia un’imposizione di acquisto. Infatti il modello è: io voglio consumare quel che mi piace e soprattutto cose frivole. Un modello che ci ha portato alla tv che tutti vedono, alla destra al potere e all’Italia di oggi.

Gli editori e gli autori farebbero alle spalle degli studenti e delle loro famiglie affari d’oro. I fatti dicono che negli ultimi dieci o vent’anni sono falliti numerosi editori scolastici, che con la sola editoria scolastica un editore fa fatica a sopravvivere, cioè a pareggiare il bilancio (e infatti i grandi gruppi si reggono su attività trasversali: giornali, editoria varia, ecc.). Berlusconi ha potuto acquistare a poco case editrici prestigiose in difficoltà. Altro che speculazioni e affari d’oro! Quanto agli autori, per uno che ha successo, e che guadagna bene (ma ci cambierà la macchina, non ci diventerà ricco), ce ne sono cento che restano al chiodo, e intascano poco o nulla in cambio di anni di lavoro durissimo e altamente qualificato.

Accanto alla vergognosa speculazione di chi i libri li inventa e di chi li stampa starebbe la filantropica rivendita di libri usati. Nei fatti, gli autori di un libro (che spesso sono anche cinque o sei) si dividono una percentuale complessiva oscillante fra i 4 e il 10 per cento sul prezzo di copertina, interamente tassata, mentre i rivenditori di libri usati (che spesso gestiscono più di metà delle vendite totali) guadagnano non meno del 30 per cento senza aver né scritto né stampato il libro, e non di rado evadono ogni forma di tassazione. Siamo certi che siano dei benefattori?

Pietro Cataldi

Pietro Cataldi, Sull’editoria scolasticaultima modifica: 2008-10-22T18:31:00+02:00da mangano1
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