Mario Domina, Quella persona inutile?

dal blog di MARIO DOMINA
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Qualche giorno fa ho sentito un ragazzo pronunciare questa frase: “Non
perder tempo con quella persona inutile”. Al di là della “gravità” e del contesto
specifico dell’espressione – ma anche dell’ironia che se ne potrebbe ricavare,
dato che è tutto sommato un bene che una persona sia “inutile”, visto che non
è un utensile – non ho potuto esimermi dal fermarmi di nuovo a riflettere sul
linguaggio e sul suo uso più o meno cosciente. Temi, questi, su cui vado
ragionando quasi ogni giorno da anni e con i quali prevedo di intrattenermi
ancora per un bel po’, prima di essermi dato risposte esaustive.
(Naturalmente il suddetto ragazzo ben poco sa di ironia, ragione strumentale,
mezzi/fini, o teorie linguistiche – cosa che non gli impedisce certo di utilizzare
con grande nonchalance parole e proposizioni in abbondanza…).
Da Aristotele ad Heidegger, tutti i filosofi hanno riflettuto sulla centralità del
linguaggio – la sua quasi “sacralità”. Avevo pensato a questo termine in
occasione dell’episodio che ho citato sopra, e guarda caso, qualche giorno
dopo, leggo su un giornale dell’ultimo libro di Giorgio Agamben, intitolato
proprio Il sacramento del linguaggio (edito da Laterza), che ho già
provveduto ad acquistare e che senz’altro leggerò e recensirò. Ne riporto per
ora solo un assaggio:
“…la specificità del linguaggio umano rispetto a quello animale non può
risiedere soltanto nelle peculiarità dello strumento […] essa consiste, piuttosto,
in misura certo non meno decisiva, nel fatto che, unico fra i viventi, l’uomo
non si è limitato ad acquisire il linguaggio come una capacità fra le altre di cui
è dotato, ma ne ha fatto la sua potenza specifica, ha messo, cioè, in gioco nel
linguaggio la sua stessa natura […] egli è anche il vivente nella cui lingua ne
va della sua vita”.
Il linguaggio reca con sé ogni determinazione umana, la accompagna
costantemente – dalla più sublime alla più nefanda. Tutta l’attività umana
confluisce nel linguaggio e si sostanzia in esso. Nelle pieghe del linguaggio
(o meglio della lingua, che è la sua manifestazione concreta e determinata),
si nascondono così giudizi, pre-giudizi, ovvietà, strutture inconsce, brutture e
storture. Sedimentazioni storico-culturali di lungo corso. Blocchi psichici,
paure, distorsioni della realtà – insieme a conoscenze chiare e distinte.
L’irrazionale come il razionale. Tutto è linguaggio.
Se questo è vero, e dunque pronunciare nella propria lingua specifica parole
come “ebreo”, “negro”, “puttana”, “zingaro” – ma anche cose apparentemente
più innocenti come “bestia”, “animale”, “inutile” ecc. – nasconde profondi
quanto abietti convincimenti socioantropologici e “culturali”, bisogna allora
controllare con grande attenzione quel che succede durante l’apprendimento
e nell’uso quotidiano del linguaggio. Il linguaggio non è solo un “dire”, o un
“comunicare” e nemmeno un “tanto per parlare”. Le parole, come
suggeriscono anche i detti popolari, sono taglienti e acuminate, e pesano
molto più delle pietre: provengono dal senso stesso dell’esistenza. Anzi direi
che lo costituiscono.
Il linguaggio, però, è una struttura che ci viene consegnata, che ci sovrasta e
subiamo, e dalla quale siamo agiti, un po’ come accade alle marionette –
quasi ne fossimo posseduti e una potenza estranea attraversasse la nostra
vita. Nello stesso tempo si tratta di qualcosa su cui possiamo anche operare e
della quale siamo responsabili. Non sarà mai sufficiente il lavorìo che ogni
giorno si deve fare a livello di educazione, appropriazione delle competenze
e del significato linguistici, “paideia” nel senso alto della formazione. La
responsabilizzazione degli individui passa attraverso la lingua e il suo
sostrato metafisico – che è appunto la capacità simbolica e semiotica,
l’indicare e il significare – daccapo quella parola magica e sacra che
raccoglie tutto ciò e che definiamo come “linguaggio”.
Esiste certo una sorta di gerarchia delle responsabilità (legata alla gerarchia
dei saperi) che è sempre auspicabile venga sciolta in una orizzontalità e
immediatezza comunicativa. Una “democrazia linguistica” che è insieme
utopica e in divenire. Ma il linguaggio resta pur sempre un Giano bifronte,
posizionato com’è lungo il crinale del sapere e del non-sapere, dell’essere e
del non essere responsabile: chi dice può insieme non sapere quel che dice
ma anche dirlo conoscendone bene tutte le implicazioni. Il ragazzo che dice
“inutile” rivolgendosi ad una persona può non conoscere la rete semantica e
di significati che vi sta dietro – solo l’educazione lo potrà eventualmente
rendere cosciente e quindi responsabile. Ma anche quando conoscerà ogni
sfumatura e ogni sottigliezza di quello strumento che crederà di
padroneggiare (ma che da sempre è insieme un possedere ed un essere
posseduti), potrà ugualmente dire di qualcuno che è inutile, spesso del tutto
impunemente. Ma è una forma rischiosa di impunità che, proprio perché è
uno scioglimento del vincolo linguistico, un uscire dal cerchio della
responsabilità, insieme al designato finisce per disumanizzare anche il
parlante.
(Per inciso: quella “persona inutile” sarebbe poi il sottoscritto…).

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Mario Domina, Quella persona inutile?ultima modifica: 2008-10-21T18:54:00+02:00da mangano1
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