Filippo Ciccarelli, Bentornato megafono

da LA REPUBBLICA 9 NOVEMBRE 2008
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Meg Messo da parte negli anni del disimpegno politico e del riflusso
è tornato in auge grazie al nuovo movimento studentesco
Il revival del megafono
voce delle parole ribelli
Dall’indimenticabile “Vota Antonio” di Totò ai cortei dei no-global
ecco i motivi per cui quest’oggetto vince la lotta contro il tempo
di FILIPPO CECCARELLI

BENTORNATO il megafono. Bentornato di moda – se mai fosse scivolato nelFILIPPO1.jpg
dimenticatoio – sull’onda dell’Onda anomala degli studenti. Megafono a
tracolla nei cortei; megafono che risuona davanti ai cancelli delle scuole;
megafono per fare lezione universitaria in piazza. Incredibile, ma vero,
adesso se ne va addirittura a ruba, il megafono, arma dei senza voce, dei
senza diritti, dei senza quattrini. Così informano le cronache che il 22 ottobre
scorso, a Firenze, durante l’occupazione dell’istituto professionale
alberghiero Saffi, tre giovani (e malintenzionati) si sono messi a girare per le
aule e quindi, approfittando del fervido e gioioso clima, sono usciti quatti
quatti con un bel megafono nascosto sotto il giaccone. A temeraria e
malandrina conferma, si direbbe, di un revival senza limiti di tempo.

E sarebbe anche un segno di speranza che questa nuova visibilità si
accompagnasse al rilancio della parola motivata e autentica, da condividere
negli assembramenti all’aria aperta, “gridatela dai tetti!”, si diceva una volta,
oppure soffiatela nell’umile magico imbuto della viva voce che risuona.

In principio, in effetti, il megafono era poco più di un imbuto, senza pile né
elettricità a dargli forza e clamore in tutte le possibili occasioni e modalità
d’uso. Di ottone brunito era il megafono con cui l’ammiraglio Nelson guidava
la disposizione e i movimenti dei marinai sulle cannoniere britanniche prima
e durante la battaglia. Di latta o banda stagnata, plausibilmente, oltre che di
oblunga e curiosissima foggia quello impugnato da Totò in un comizio alla
finestra sulla piazza ciociara di Roccasecca ne Gli onorevoli (di Sergio
Corbucci, 1963). Indimenticabile e profetico quel suo comizio dadaista: “Vota
Antonio! Vota Antonio!”.

Attrezzo al tempo stesso famigliare e desueto, comunque pre-televisivo,
eppure forse proprio per questo oggi riscoperto come capace di evocare la
più vasta e anche contraddittoria varietà di atmosfere. Per Federico Fellini,
che ne fece uso e spettacolo, il megafono raffigurava il potere: “Non avrei mai
pensato di fare il regista, di minacciare come un domatore urlando dai
megafoni – ha confessato una volta il Maestro -. La prima volta che vidi dei
registi in azione pensai che era un mestiere ridicolo, cialtronesco,
maleducato. Non credevo di avere una voce per imporre un’autorità
carismatica, ma dal primo giorno in cui mi sono trovato dietro una macchina
da presa, quella voce mi è venuta fuori in modo naturale”. Per quanto
trasfigurata in metallica e cavernosa, nel bel mezzo di un carosello musicato
da Nino Rota.

Dunque, può essere il comando che ispira l’immediata suggestione
dell’amplificatore. Ma quando una notte di cinque anni orsono due scalatori
inglesi si ritrovarono incrodati, irraggiungibili e senza apparenti speranze in
parete lungo la via Dimai sulla Tofana di Rozes, ecco, è esattamente a un
megafono del Soccorso alpino della Guardia di Finanza che devono la loro
salvezza. Così come, sulle macerie fumanti di Ground Zero, c’erano megafoni
a incoraggiare le squadre dei vigili del fuoco: un esemplare in plastica fu poi
donato al presidente George W. Bush.

Perché poi insomma è la vita, a pensarci bene, che è fatta di altoparlanti, e a
volte sono anche troppi, e non solo negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie,
sui luoghi del disastro, sul set, in montagna o nelle agitazioni di piazza. Il
rumore infatti è contagioso e nel caso dei residenti del centro storico di Roma,
specie intorno a Campo dè Fiori, il guaio o meglio l’incubo deriva
dall’irruzione sul mercato di piccoli megafoni di produzione cinese, pure
dotati di registratore, al prezzo di 5 euro e 79 centesimi.

Ebbene, la scorsa estate in quell’area già di suo poco silenziosa le notti
erano funestate dalla curiosa tendenza di diversi giovinastri a parlarsi l’un
l’altro, ma tutti insieme, da un lato all’altro della piazza: al modo di urlatori
tecnologici, fino all’arrivo della polizia e al sequestro massivo dell’evoluta
merce che diffondeva e dilatava quella chiacchiera selvaggia.
Difficile stabilire con esattezza quando il megafono era parso entrare
nell’ambiguo, nostalgico e pacificatissimo comparto del modernariato. Certo
un velo di polvere aveva finito per depositarsi sulla memoria in bianco e nero
di certe fotografie inequivocabilmente sessantottine o, se si preferisce,
sessantottesche. Per una volta nei ricordi il mezzo tradiva il messaggio e
allora i volti, l’aspetto, gli atteggiamenti, gli stessi sentimenti di chi
maneggiava quel fatidico apparecchio facevano premio su qualsiasi
argomento propagato in quegli anni di effervescenza sociale. Di quella
stagione restano impressi semmai pochi frammenti vocali: “Compagni… il
concentramento… operai e studenti… crrrr…”. Perché a volte l’arnese si
rompeva mettendosi a ronzare o più spesso funzionava a intermittenza.

“Megafono della rivoluzione” si definì d’altra parte Vladimir Vladimirovic
Majakovskji. L’impegnativa qualifica deve aver contribuito a collegare
inestricabilmente questo strumento alla lotta politica, con il che è ragionevole
pensare che a determinarne l’apparente declino siano stati il riflusso, la
stanchezza, il disimpegno, la delusione. Lontano dagli occhi, e quindi dal
cuore, il megafono sopravvisse tuttavia nel mondo dei simboli e delle
metafore, negative o positive che fossero. Si poteva essere “megafoni” di
tutto, della pace e della guerra, della Cina e della Cia, della provocazione e
in fondo anche della speranza. “Voi siete il megafono del Papa”, disse un
giorno Karol Wojtyla ai giornalisti della Radio Vaticana; “Rutelli è un
megafono che gracchia”, accusò un’altra volta Sandro Bondi per replicare
all’allora leader del centrosinistra.

E però c’è modo e ragione di ritenere che la manifesta decadenza, più che
alla politica fosse dovuta anche allo sviluppo della tecnologia, al
superamento pratico del vecchio altoparlante fisso o manuale, alla sua
sostituzione con gli asettici sintetizzatori regolati da sistemi automatici, voci
pre-registrate, distanti, robotiche. Nel suo recente Il tramezzino del dinosauro,
sintomatico catalogo di “oggetti, comportamenti e manie della vita quotidiana”
(Guanda), Marco Belpoliti spiega bene il “secco impoverimento” cognitivo
causato alla società dalla fine o comunque dalla mancanza della voce
umana, certo amplificata dalla meccanica, ma pur sempre “carica di
intenzioni, di allusioni, sottintesi, evocazioni di stati d’animo”.

E qui giocoforza vale comprendere nella ripresa d’interesse per il vecchio e
caro megafono pure la sua inaspettata declinazione per così dire armonica,
non per caso messa in opera dal movimento giovanile no-global: vedi il
“concerto per megafoni, slogan e orchestra” eseguito dai gruppi “Terra terra”
e “Fiati perduti” al Social Forum di Firenze dell’ottobre 2001, un gran
miscuglio di suoni e di generi, rullanti e tromboni, rap e risonanze di
Carosone (“Tu vuò fà l’americano”), inframmezzate da rime ritmate e più
specificamente polemiche tra cui spiccava: “A tutti diamo il benvenuto, / ma se
viene D’Alema zitto e muto!”.

E sempre in tema musicale, a parte qualche pezzo in cui Franco Battiato si
diverte a modulare la voce in risonanze artificiali (“Sul ponte sventola
bandiera bianca”), arrivò più esplicitamente a Sanremo L’uomo con il
megafono di Daniele Silvestri, canzone abbastanza malinconica per quanto
disposta ad offrire un raggio di sole: “L’uomo col megafono parlava parlava /
parlava di cose importanti, purtroppo / i passanti, passando distratti, a tratti /
soltanto sembravano ascoltare il suo / monologo, ma l’uomo col megafono /
credeva nei propri argomenti”.
Il brano non deve essere sfuggito a un signore, Pierluigi Lenoci, che su
Internet ha giustappunto aperto un sito intitolato “L’uomo col megafono”
(www.lenoci.org/megafono) nel quale, con la tecnica del fotomontaggio e il
caldo invito a “supportare anche tu questa follia”, egli si colloca – Zelig digitale
e risonante – nelle più varie situazioni: in una cena con il Papa e i cardinali, in
uno studio televisivo, fra i colori dell’Urlo di Munch, al Gay Pride, con alcuni
bimbi travestiti da Halloween, sullo schermo di un telefonino, ma sempre con
l’inseparabile strumento.

Alla lunga, le immagini dell’ottimo Lenoci fanno cortocircuito e
inesorabilmente rievocano altre foto, però vere, di personaggi con megafoni.
L’onorevole Gramazio (An) su di un gigantesco camion a caccia di viados; il
presidente Berlusconi che dal predellino di un’automobile dichiara la nascita
del Popolo della libertà; Di Pietro che raccoglie firme al Circo Massimo;
Oreste Scalzone, ormai anziano, ritornato alla Sapienza ad arringare le folle.
Sembrano sogni, suoni, visioni e stati di eccezione. Parole sugli occhi,
megafonate nelle orecchie.
(9 novembre 2008)

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Filippo Ciccarelli, Bentornato megafonoultima modifica: 2008-11-09T20:24:00+01:00da mangano1
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