Giancarlo Bosetti, Un paese per giovani?

L’Italia non è un Paese per giovani.
di Giancarlo Bosetti – 20/11/2008
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Fonte: La Repubblica

Un ultraottantenne come soluzione, sofferta ma infine accettata, di un
problema politico non è in Italia una novità. Sergio Zavoli, classe 1923, giancar2.jpg
designato presidente della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai,
non ha l’aria di un caso isolato: presidenti della Repubblica e primi ministri,
con un piccolo scarto di anni, sono in linea con la constatazione.
Ciampi ha lasciato a 86 anni, Napolitano ha iniziato a 81, Prodi ha lasciato a
69 e Berlusconi ha compiuto i 72. È ovvio che la qualità della prestazione non
ha relazioni dirette con l’età, così come nulla c’è da eccepire sulle doti
professionali e sull’equilibrio del grande giornalista Zavoli (dal “processo alla
tappa” alla presidenza Rai), che andrà ora a occupare un ruolo che ha il suo
peso spropositato nei riti della politica italiana.
Il moto di scoramento è però difficile da trattenere di fronte alla evidenza di
quel che è stato scritto in un celebre articolo di Gianluca Violante sul sito
lavoce. info già due anni fa. Fatti due conti, l’autore concludeva: in Italia,
quando la quasi totalità delle carriere lavorative si esaurisce, in politica si giancar3.jpg
raggiunge l’apice. Come mai? Legittima, ma non dirimente, la
preoccupazione che politici troppo vecchi non siano i migliori interpreti
dell’innovazione, né i più adatti a captare esigenze nuove.
Più influente, sulla pulsione depressiva, la considerazione che l’anzianità del
mondo politico è lo specchio dei vizi del mondo del lavoro: bassa mobilità
gianar.jpgsociale, avanzamento di carriera per anzianità e non per merito.
La differenza di età tra il presidente del Consiglio italiano e la media dei
colleghi europei è di venti anni. L’elezione di Obama, 47 anni, ha soltanto
incrementato i sintomi di abbattimento che ci attanagliavano già prima di lui e
di Zavoli. È vero che nel lavoro a 65 anni scatta per lo più la regola della
pensione e in politica no, ma è anche vero che i vizi che prolungano oltre le
medie internazionali la percentuale dei vegliardi sono affini a quelli che
mantengono in posizioni molto redditizie dirigenti e notabili di vario genere
che non producono risultati proporzionati ai guadagni.

Varie indagini statistiche mostrano che solo il 15 per cento della retribuzione
di un dirigente d’azienda è collegata alla sua prestazione, il resto “è carriera”,
vale a dire, anzianità, buone relazioni, capacità di navigare con astuzia nella
scia di un altro dirigente con anzianità, buone relazioni, capacità di navigare?
Il rapporto col prodotto viene ultimo, come nel caso delle liquidazioni dei
manager di Alitalia, Ferrovie dello Stato, in generale delle grandi aziende di
servizio, anzi non viene mai, come per gli stipendi dei parlamentari la cui
produttività non viene comparata con quella dei colleghi nel mondo (i
congressmen guadagnano 36mila euro in meno all’anno).
Il libro recente di Roger Abravanel (Meritocrazia, Garzanti) ha dato ordine
sistematico al tema. L’Italia è fuori dal circolo virtuoso del merito. Seguite la
freccia benigna: tutti accettano la concorrenza, si fanno crescere le
opportunità, si traggono benefici con consumi a basso costo, si rafforza la
fiducia nel merito, cresce l’impegno a eccellere, i migliori salgono nella scala
sociale, si crea leadership sicura di sé che promuove un contesto
concorrenziale e nuova fiducia nel merito.
Al contrario noi italiani siamo nel circolo vizioso del demerito. Seguite la
freccia maligna: i giovani non si impegnano, si fa carriera per conoscenza e
anzianità, si crea leadership anziana che opera per mantenere status, e si
promuove così sfiducia nel merito. La recente indagine Luiss sulla classe
dirigente, guidata da Carlo Carboni, aveva aggiunto un bel mattone
all’edificio critico: la politica manda in parlamento sistematicamente figure di
scarsa qualità e alta lealtà che tendono a mantenere lo status della
leadership che li ha cooptati.
Il merito resta fuori perché nel contesto politico italiano appare minaccioso:
segreterie deboli, di sinistra, di destra e di centro, grazie a una legge
elettorale costruita ad hoc, adottano schiere gregarie per non impensierire
leader fragili. E i “leali” in esubero vengono sistemati in aziende regionali,
comunali e simili, dovunque possibile, con un progressivo abbassamento
della qualità manageriale.
Queste tendenze fanno dell’Italia un paese fortemente inegualitario in
partenza (come l’America e l’Inghilterra) nel quale la bassa mobilità (come in
Francia e Germania, che hanno però una più bassa ineguaglianza) tende a
cronicizzare le distanze sociali (mentre in America la elevata mobilità rinnova
un po’ di più le élite). Il risultato è la condizione in cui siamo.
La nomina di un anziano fa risuonare sempre la stessa campana dal suono
vellutato. Non stupisce che la reazione sia più un triste scuotimento di spalle
che una rabbiosa reazione. Il circuito perverso ha lavorato in profondità: è più
facile mettersi nella scia di qualche potere (un manager, un boss politico, un
anziano) che tentare di aprire una nuova pista nella boscaglia a colpi di
machete diventando eroi di se stessi.
La via d’uscita per i più coraggiosi è quella di andarsene. Un dolorosa
classifica, che si aggiunge alle altre è quella prodotta dal think-tank Vision
(Bocci, Maletta, Realino, Grillo): un formidabile indicatore delle prospettive di
un paese e del suo sistema universitario è il numero di studenti stranieri che
riceve.
Gli Stati Uniti raccolgono circa un quarto dei 2 milioni e 700mila studenti che
vanno all’estero, l’11 e il 10 per cento vanno in Inghilterra e Germania, la
Francia il 9. L’Italia è l’unico paese sviluppato con un saldo negativo: sono
4mila in più quelli che se ne vanno. Che cosa significa? Che la via d’uscita
dal circuito del demerito sempre più nostri giovani connazionali la vanno a
cercare fuori. Dentro, non c’è partita.

Giancarlo Bosetti, Un paese per giovani?ultima modifica: 2008-11-21T17:49:00+01:00da mangano1
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