Aris Accornero, La cultura del dato

da UNA CITTÀ n. 160 / novembre 2008
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Intervista ad Aris Accornero. La cultura del dato

Al 2007 gli operai erano cresciuti non calati; così come erano cresciute le piccole fabbriche a scapito delle grandi; la grave incomprensione a sinistra del cambiamento; la mancanza cronica di dati che affligge il nostro paese e vanifica ogni riforma; l’isolamento tragico di Marco Biagi. Intervista ad Aris Accornero.

Aris Accornero insegna Sociologia industriale presso l’Università di Roma “La sapienza”; insieme a Tiziano Treu e Cesare Damiano ha fondato Eli, EuropaLavoroImpresa. Ha pubblicato, tra l’altro, Era il secolo del lavoro, Il Mulino 1997; insieme a A. Orioli L’ultimo tabù. Lavorare con meno vincoli e più responsa?bilità, Laterza 1999; San Precario lavora per noi, Rizzoli, 2006.
Lei è stato chiamato circa un anno fa a tenere la relazione introduttiva alla Conferenza operaia del Partito Democratico…
Sì, devo dire che non aderisco al Partito democratico e penso anch’io che sia nato un po’ più verso il centro di quanto non fossero i Democratici di sinistra e proprio partendo da questo giudizio ho molto apprezzato che abbiano deciso di fare una conferenza operaia.aris1.jpg Possiamo dire anche che questa bella idea è stata ovviamente stimolata, come altre attenzioni rivolte agli operai, dall’impennata di infortuni, soprattutto dal caso della Thyssen Krupp, che ha riportato gli operai a una visibilità negativa. Tutti, tra dicembre e gennaio, hanno tristemente convenuto che la condizione operaia presenta tuttora una esposizione al rischio che solo il lavoro manuale ha, e questo, diciamo, è un fattore connotativo che non veniva più osservato, al punto da non considerare come una ragazza possa tener conto del fatto che se si accinge a sposare un operaio anziché un impiegato, con ciò stesso la loro vita presenta prospettive diverse. Questa esposizione al rischio del lavoro manuale non era mai stata messa in evidenza così bene, come in seguito alla presa di posizione di Giorgio Napolitano, il presidente della repubblica, che sin dal suo insediamento o poco dopo, quando si ebbe un caso di infortunio mortale plurimo, fece in modo che ci fosse questo memento, anche suo, continuo, verso la coscienza collettiva degli italiani. Questo è, credo, il motivo principale per cui il Pd ha fatto la scelta di fare una conferenza operaia, che devo dire è andata molto bene, un’iniziativa che ha riaperto il dialogo fra sinistra e lavoro.
Dunque, gli operai. Cosa sta succedendo?
Intanto diciamo che alla fine del 2007 per la prima volta gli occupati dell’industria hanno superato i sette milioni, il che, come ho detto anche lì a Brescia, corregge un bel po’ l’idea che ci sia una continua e perniciosa riduzione degli operai. Piuttosto va detto che c’è una non perniciosa e continua crescita degli occupati nei servizi. Adesso i servizi sono esattamente il doppio dell’industria, ma non a spese dell’industria. Tuttaaris2.jpg l’occupazione “aggiuntiva” è stata nei servizi, ed è avvenuta a spese dell’agricoltura. L’industria è cresciuta; l’Italia, con la Germania, ha la quota di industrie più alta in Europa. Quindi questa idea di deindustrializzazione, e tanto più di deoperaizzazione, è falsa, è smentita dai dati. Sette milioni di occupati nell’industria, quindici milioni nei servizi, un milione in agricoltura, questa è la dimensione sociale del lavoro. Qualcuno può continuare a dire che il lavoro operaio è un residuo, ma insomma, è vero che il lavoro di produzione è la metà del lavoro di servizio, ma nel ’71 c’erano sei milioni di occupati nell’industria, adesso sette. Questa geografia dei settori dove c’è il lavoro è importante averla ben presente, perché sennò si dicono un sacco di cretinate, come quella per cui la stessa riduzione quantitativa degli operai mina la presenza del sindacato, mina il futuro della sinistra, riduce le istanze anticamente operaie nella tematica dei desideri e delle rivendicazioni. Non è così. Invece le cose che vanno dette, fra le tante, sono almeno due. Una è: come e dove sono gli operai?
Anche questo si ritiene che sia noto, ma sempre solo in parte. E’ noto il fatto che le grandi concentrazioni operaie, le cittadelle industriali, le fortesses ouvrières come le ha chiamate un sociologo francese, nella quasi impossibilità di rimpicciolire, chiudono: Sesto San Giovanni, la Lingotto, a Milano la Bicocca, Bagnoli a Napoli, e quindi la manodopera sparisce, si disperde, viene traslata ai servizi oppure viene pensionata.
Ecco, questa, più che per una disaffezione di merito, è la primissima causa di indebolimento del sindacato: per i sindacati è più difficile trovare gli operai. In tutto il mondo le unità produttive tendono a diminuire di dimensione, sempre, anche se i gruppi industriali di cui fanno parte crescono. Se si va davanti a una di queste unità produttive, oggi si trovano 100 persone dove ieri se ne trovavano mille. E arringare a mille persone, spiegare a mille persone, farsi vivo presso mille persone, è ben diverso che farlo presso cento. Quando ero un giovane della commissione interna alla Riv, che era un grosso dado di cemento, molto concentrato, con cinquemila addetti, se c’era da annunciare uno sciopero o un’assemblea, salivo i cinque piani e facevo il giro rapidamente, dicendo ai commissari di reparto: “Guarda che c’è l’assemblea o lo sciopero…”. In un quarto d’ora, grazie alla rete interna, erano avvisati tutti cinquemila.
L’altro aspetto da mettere in evidenza è che, mentre si ridimensionava la grande impresa produttiva, nello stesso tempo nasceva un’altra Italia industriale, quella delle fabbrichette. E i due processi non sono distinti, sono lo stesso processo. La nascita a fungaia di imprese piccole, minori, talvolta micro, in luoghi dove non c’era l’industria, è stata attivata proprio dalla crisi delle grandi imprese, conseguente alla presa d’atto che fabbriche di 50.000 persone sono ingovernabili.
Quindi lo ripeto: la riduzione delle dimensioni non ha comportato una riduzione dell’industria, ma una ristrutturazione radicale dell’industria, nella quale, appunto, sono venute diminuendo di peso e di centralità le unità maggiori, e sono nate tante unità minori, spesso gemmate dalle maggiori. Le grandi imprese, infatti, per ridurre o per chiudere certi stabilimenti, hanno demandato quelle stesse attività, spesso quelle meno remunerative e più rognose, ad altri. Quindi è stata una scelta voluta, non casuale, da parte del capitalismo industriale. Questo ha spostato manodopera fuori dalle aziende, e anche mezzi, invertendo completamente una tendenza dominante degli anni addietro: fare tutto da sé. Con il cosiddetto modello giapponese hanno capito che a ognuno conviene fare quel che sa fare meglio, e non tutta l’automobile. Talvolta c’è stato un meccanismo di vero e proprio spin-off. Adesso la Fiat fa da sé un po’ meno del 10% dell’automobile, vien quasi tutto da fuori.
Quindi l’industria non è scomparsa, si è spostata. La struttura d’impresa è completamente cambiata, perché è cambiato il modello di produzione, che è diventato elastico, flessibile, anziché rigido e programmato com’era prima.
Questo processo la sinistra non lo ha visto o non l’ha capito. Talvolta né l’uno né l’altro.
Ma come mai?
La sinistra non ha visto prima di tutto perché in Italia tutti tenevano alle grandi imprese, che non sono mai state molte ma erano dominanti, soprattutto nel triangolo industriale, il che è anche un po’ paradossale: dove le grandi imprese non erano tante, si è stati ancor più contrari alla piccola impresa.
Se poi vogliamo andare un poco più indietro dobbiamo pensare che con Kautsky la maggior parte della sinistra, dai comunisti ai socialisti ai socialdemocratici, profetava la sparizione delle piccole dimensioni economiche, dai contadini agli artigiani, e la progressiva e irreversibile dominanza del grande capitalismo, che era, come dire, insita nell’idea marxiana dello sviluppo, e il tutto sembrava molto razionale. L’Urss si è modellata nella propria industria su queste basi, non hanno fatto delle piccole fabbriche, dopodiché nessuno faceva le riparazioni.
Poi, a rendere preferibile la grande impresa, c’erano le ragioni politico-organizzative che dicevo prima, che riguardano sia il sindacato che il partito.
Infine c’era il fatto che questi piccoli imprenditori erano mal visti, diciamo così, dal comunista normale, intellettuale o politico che fosse, perché, oltre a essere considerati un’eredità del passato, destinata ad esaurirsi, in maggioranza provenivano dal mondo operaio.
Chi metteva su le nuove fabbrichette spesso era un operaio. Su questo ci sono statistiche che però all’epoca non voleva sentire nessuno. In Italia circa il 60% dei nuovi imprenditori erano operai. Questo contraddistingue la piccola impresa italiana da quella di altri paesi. Erano operai che “fuggivano e passavano dall’altra parte”. Anche per questo c’è stata una resistenza lunghissima.
Qualcuno l’avrà pur visto il cambiamento…
La letteratura sul decentramento produttivo comincia meritoriamente a metà degli anni ’70 con Sebastiano Brusco, che purtroppo abbiamo perso l’anno scorso. Bastianeddu era uno che l’aveva vista e l’aveva capita, anche perché stava lì vicino, a Modena, Bologna, e aveva fisicamente realizzato che la grande industria stava privandosi di reparti che, affidati a qualcun altro, riapparivano da un’altra parte come impresa. Brusco spinse la Fiom, che all’epoca era molto avanzata nel capire i processi, a fare un convegno dove venne fuori questa novità.
Quindi penso che il sindacato abbia cominciato a rendersi conto prima dei partiti di sinistra che questo decentramento produttivo non era la disfatta dell’industria, era certo un pandemonio, ma creativo, una distruzione creativa.
Cosa cambiava per gli operai?
Cambiava che gli operai non erano più quelli inseriti in un processo di produzione di massa. Quella della piccola fabbrica era una produzione di serie, ma molto snella, fatta con continui cambiamenti di tipi e modelli.
La grande impresa ha tenuto le catene di montaggio, che riescono a montare di tutto, ma le tante cose diverse che le tante catene fanno girare, oltre ad essere prodotte altrove, devono poter essere rinnovate, diversificate in tempi stretti. Che so, se prima lo specchietto retrovisore era uno, adesso te ne devono offrire cinque tipi differenti. Le dimensioni di unità minore, talvolta micro, devono garantire le elasticità, le flessibilità che alla grande impresa costerebbero troppo care. La grande impresa ti dice: “Dal mese prossimo mi dai questo nuovo tipo, di cui ti do il disegno, o lo fa qualcun altro”. Quindi la versatilità, la flessibilità necessarie ad un prodotto che viene offerto continuamente come rinnovato o rinnovabile, è passata sulle spalle delle imprese minori per ragioni tecnico-organizzative: non c’è stato calcolo di lucro da parte delle grandi imprese nell’affidare tali produzioni alle minori. E’ una normale divisione del lavoro.
Questi operai, quindi, non erano più deputati a fare il lavoro della catena di montaggio. Potremmo dire che in tutte le aziende minori, se sono davvero piccoline, non c’è catena di montaggio. Poi non è vero, perché vediamo fabbriche alimentari dove vengono inscatolati meccanicamente i pomodori, e quella più o meno è una catena di montaggio. Però, in generale, il processo di assemblaggio avviene nelle grandi, il processo di produzione nelle piccole. Quindi nelle piccole il lavoro è di serie, non di linea, ed è comunque un lavoro di piccole serie che cambiano molto spesso, a volte più rapidamente di quanto si possa pensare quando si è accettato quel lavoro, perché una grande azienda dice: “No, no, adesso abbiamo visto che il modellino non va, per favore fate questo…”, gli dà i disegni e loro si devono arrangiare a cambiare in fretta.
Per questi operai -è una tesi mia- il livello di massificazione del lavoro è inferiore. E siccome è il livello di massificazione che caratterizza il lavoro fordista, possiamo dire che siamo dopo il fordismo.
Già in un pezzo del ‘78, per Inchiesta, avevo segnalato come gli operai derivati da questo processo avessero più professionalità, se non altro perché sarebbe stato difficile averne meno di quelli delle linee di montaggio tradizionali, a cui non si richiedeva alcun requisito professionale. Avevano anche più motivazione, perché in quelle imprese, quand’anche rette da padroncini cattivi, come ce n’è naturalmente, non tutto è preordinato, è necessario lasciare un po’ di autonomia al lavoratore. Sono le tipiche imprese dove a nessun lavoratore si consente di fare solo una cosa, come invece succede nelle grandi. Le grandi imponevano di fare solo una cosa, perché, come diceva benissimo Ford: “Se non impara a farla, se ne va, se no mi va bene così”. Nella piccola, che sia di tre o trenta operai, il datore di lavoro non ammette che l’operaio faccia una sola cosa, vuole che le faccia tutte, possibilmente. C’è una grande scambievolezza di ruoli, è un lavoro collettivo più familiare, più composto nella logica del gruppo e soprattutto c’è una richiesta di professionalità non fissa, non ferma, continua. Quindi io insisto: le professionalità e le motivazioni vengono riaccese nella piccola impresa postfordista, anche se, e qui è l’ultimo passaggio del ragionamento, sono perfettamente consapevole di quelle che possono essere le relazioni fra capitale e lavoro nella piccola impresa.
E cioè, che possono essere ben peggiori che nella grande azienda?
Prima di tutto va riconosciuto che in generale, in paesi ben sindacalizzati come l’Italia, come la Germania, la grande impresa, attraverso sistemi di regolazione, relazioni industriali, talvolta anche con il paternalismo imprenditoriale, in qualche modo contempera la diseguaglianza di fondo, l’asimmetria insuperabile fra capitale e lavoro. Nelle piccole imprese invece la divaricazione è drastica: famiglia o galera. Questa coppia famiglia-galera, oppure ambiente famigliare-ambiente caporalizio, è uno dei filtri attraverso cui l’ottica di sinistra si è compiaciuta di guardare al problema delle piccole imprese. Poi i riformisti accaniti la guardano solo bene, “la piccola impresa ha relazioni felici…”, e fra questi devo annoverare anche Veltroni, che là, a Brescia, alla Conferenza operaia, in presenza di chissà quanti operai di piccole imprese, ha detto: “Lì è tutta armonia e concordia”. “Beh, no, dottore…”. Ci sono imprese che sembrano una famiglia, perché il padrone si sente uguale agli altri, e ce n’è dove il padrone è un boss spaventoso e non vuole assolutamente essere uguale agli altri. Tu puoi avere di fronte un ex operaio che si ricorda di essere stato operaio, che ha acquisito una cultura del lavoro, un sistema di valori, delle appartenenze organizzative confacenti. Ci sono tanti che sono imbarazzati di non essere più iscritti al sindacato, che tra l’altro non li vorrebbe, e non li potrebbe prendere più. Poi però ci sono gli altri, quelli che proprio perché hanno fatto gli operai o i tecnici in fabbrica, sanno benissimo quali sono i trucchi che usano i lavoratori per lavorare di meno, per non farsi sfruttare, occultando gli scarti, eccetera, eccetera, e scelgono di essere più furbi degli operai.
Insomma, non si tratta di decidere se la piccola impresa è meglio o peggio, dobbiamo sapere che è molto diversa, c’è un tipo di lavoro e di rapporto capitale/lavoro tendenzialmente più articolato, più ricco, in fondo meno conoscibile a priori, meno descrivibile a priori.
Finisco dicendo che il fatto che la sinistra non abbia saputo interpretare bene quel che è successo nel mondo del lavoro operaio-industriale è all’origine della cosiddetta questione settentrionale. Su questo non voglio farla lunga, però una svista di questo tipo nell’interpretazione dell’evoluzione del soggetto elettivo della sinistra, cioè degli operai, è una sbandata costosa, molto costosa…
Veniamo al problema della precarietà. Anche qui lei contesta quelle che ormai sono convinzioni consolidate…
Io dico che noi abbiamo l’impressione di una precarietà più grave, più estesa di quanto non sia documentato dai dati. Ma non perché, come direbbe Gallino, siano sbagliati per difetto i dati, ma perché non si possono fare dieci anni di cambiamenti, anche rilevanti, nel campo dell’ordinamento del lavoro e non farne alcuno nel campo delle tutele. In Italia c’è meno precarietà che in Germania e in Francia, però ci sono buone ragioni per temerla di più perché non si è fatto niente in termini di tutele. Dal 1995 al 2004, i due o tre governi che si sono succeduti hanno tutti introdotto enormi novità, come quella dei cococò (che in poco tempo sono diventati milioni, anche se non tutti attivi), che, per i lavoratori normati da questo contratto, prevede condizioni molto deboli.
Lo stesso vale per l’altra grande novità, quella del lavoro interinale, che pure costa al datore più degli altri. E poi c’è il contratto a termine, che fra l’altro non c’entra con la Biagi, è il frutto di un accordo separato, poi trasformato in decreto dal governo Berlusconi. Dulcis in fundo, è arrivata la legge Biagi che a sua volta, essendo circondata da un alone di ostentato cambiamento e di ostentata pluralizzazione delle modalità di impiego e dei soggetti intermedianti, ha provocato molte paure, più paura che posti. Per di più adesso sappiamo che i posti creati dalla legge Biagi, comunque li si voglia calcolare, sono per oltre metà ottenuti dalla regolarizzazione. Li ha creati paradossalmente la Bossi-Fini. Io ho parlato di “eterogenesi dei Bossi-Fini”, perché quella legge non voleva regolarizzare 850.000 persone, ma lo ha fatto. Quindi in questo aumento degli occupati la legge Biagi non c’entra proprio per niente.
Ma il governo Prodi era poi riuscito a far qualcosa?
Il buon Cesare Damiano, che secondo me è stato il ministro che ha fatto meglio e di più nel governo Prodi, ha cambiato in modo radicale alcune regole. Partendo dall’accordo fra le parti con il governo sui call center, quindi un po’ in sordina, con un certo numero di regolarizzazioni, venti, trentamila, si è arrivati ad avere l’elenco dei lavori che, come tali, non possono essere coperti da contratti a termine. Ci sono tipi di lavoro dove la dipendenza è così chiara, che è inutile che si finga che ci sia un contratto a progetto. Con il protocollo di luglio si è detto inoltre che c’è un plafond temporale, 36 mesi.
D’altra parte la stessa cosa è successa in Olanda e in Spagna, dove avevano liberalizzato tutto e poi hanno dovuto restringere. In più questi lavoratori hanno ottenuto tutti i riconoscimenti che erano parziali o mancavano del tutto, cioè la maternità, la malattia, eccetera. Quindi sono stati posti degli argini a questa deriva, che giustamente la sinistra teme, ma che non è fatale.
Tra l’altro non è che le imprese vogliano una flessibilità indefinita. Ne parlano sempre di flessibilità, ma loro non è che la vogliono solo dai sindacati, la vogliono dall’amministrazione. Le imprese non sono così oppresse, né in termini di flessibilità, né in termini di produttività, dal comportamento dei lavoratori o dei sindacati. In questo paese così caotico tutto è così lento e inutile nelle norme che la scarsa produttività non deriva certo dal fatto che si produce di meno.
Ma perché in Italia è così difficile avere dati certi?
Non c’è dubbio che, a differenza degli altri paesi, abbiamo un difetto di informazione. Noi non abbiamo un quadro aggiornato sui movimenti, sulle posizioni del lavoro. Una sola regione produce dati veri sul mercato del lavoro, il Veneto.
I Centri per l’Impiego non solo non seguono, non solo non accompagnano, ma non controllano nemmeno la reale condizione degli iscritti alle liste di disoccupazione, che sono state rifatte, ma non sono aggiornate perché l’ufficio non sa cosa tu sei andato a fare o non fai più.
Se non hai dati analitici su tutti gli iscritti all’ex collocamento, cosa fanno, dove vanno, le politiche non sono facili. Il tutto è stato aggravato da quel federalismo un po’ cretino, in realtà molto elettorale e poco convinto, fatto dalla sinistra, che ha spinto ogni regione ad aver un proprio sistema informativo. In pratica ogni regione si fa i fatti suoi. Poi, dentro le regioni ci sono province allineate col sistema informativo della regione, e altre no, il che produce una confusione insuperabile. Si poteva ritenere che in un paese così diversificato le competenze relative al lavoro stessero alle regioni, però il tutto è rimasto generico, e comunque alla fine si doveva scrivere un post scriptum: “il sistema informativo del lavoro ce l’abbiamo noi a Roma, ed è uno, uguale per tutti”. Invece non c’era scritto, così si sono spesi un sacco di soldi, e il risultato è che abbiamo regioni anche molto civili, come la Toscana e persino l’Emilia, per non parlare del Piemonte, i cui dati non hanno nulla a che vedere con quel che servirebbe conoscere ogni mese. Io lo dissi a Damiano: il ministro dovrebbe sapere costantemente come va la situazione, come succede in America, dove ogni mese si sa quanti hanno chiesto il sussidio, quanti vi hanno rinunciato. Da noi tu hai le liste di chi si iscrive alla disoccupazione e poi hai l’Inps che manda a casa i soldi e fra i due non c’è comunicazione, i dati non vengono incrociati.
Tutto questo fa sì che sia più facile per chiunque dire che “c’è tanta precarietà” oppure che “c’è poca precarietà”. Ma per dire che c’è tanta precarietà, o poca, bisognerebbe sapere quanto ci mette un temporaneo a diventare stabile, cioè quanti mesi o anni occorrono ai temporanei per diventare stabili, e quindi sapere che tipi di contratti hanno avuto nel frattempo. In termini di dinamiche sociali, perché di questo stiamo parlando, si tratta di avere indagini longitudinali, come si chiamano in statistica, tipo panel, con dati costanti che vengono aggiornati quando c’è l’evento. Cioè quando uno diventa disoccupato ci vuole la data e dove stava prima, e poi quando trova lavoro, ci vuole la data e dove è andato a lavorare; aveva un contratto stabile e ha perso il posto, aveva un contratto temporaneo e ha perso il posto; ha trovato un posto stabile, ha trovato un altro posto temporaneo… Se non ci sono queste informazioni, sono tutte chiacchiere. Se ci fossero, dopo un po’ tu sapresti quanti sono i poveracci in questo paese. Noi non lo sappiamo. E così non si fanno politiche attive. Non è vero che aiutiamo chi ne ha bisogno con misure confacenti, non può essere vero, sono balle. Si fa presto a dire: “Facciamo come la Danimarca”, ma la Danimarca sta tutta lì, la Danimarca spende un sacco di soldi perché per ogni dieci disoccupati hanno tre impiegati che stanno loro appresso, e uno lo mandi a scuola, uno gli trovi un lavoro un po’ più vicino, uno un po’ più lontano, a un altro gli dici: “abbia pazienza, torni tra un mese, perché non ho niente da darle”…
Ecco, e il Veneto cosa ci dice?
In Veneto, che, come ho detto, è l’unica regione che ci dà i dati, risulta che entro tre anni si sistemano tutti, l’80, 85 %, e però con una tendenza del dato a peggiorare. Ma magari il Veneto è un caso e io, come studioso, devo chiedermelo se è un caso o se rappresenta, e in che modo, il paese. Certo, uno potrebbe dire: “Insomma, tre anni a spasso, così, con cose temporanee, prima di consolidare la posizione, non è una bellezza…”, ma sarebbe sopportabile. Un’altra indicazione, invece, che non viene divulgata, ma che è confermata già da due rilevazioni, è ben più preoccupante: l’80% e rotti di quelli che hanno un contratto stabile, l’anno dopo non ce l’hanno più, e metà perché se ne è andata volontariamente. Quindi l’idea del posto fisso, della stabilità, e anche le idee sulla precarietà, non poggiano su fondamenta sicure.
Cosa bisogna fare? Bisogna spostare il discorso della tutela sul mercato?
Beh, la risposta giusta sarebbe di continuare a tutelare il lavoratore sul posto di lavoro, ma, dati i cambiamenti intervenuti, rafforzare molto la tutela sul mercato. Naturalmente se uno dice: “o l’uno o l’altro”, la cosa diventa rozza. Anche Ichino tende a spostare tutta la tutela sul mercato. Poi, però, se non li tuteli sul posto di lavoro, li fanno sudare e ci sono pure gli infortuni.
Ma anche qui bisogna fare un ragionamento. E’ vero che la tutela sul mercato adesso è debole, ma non perché c’è il lavoro precario, bensì perché quello stabile dura meno. Quello precario è una quota a parte, minoritaria (probabilmente lo resterà sempre), quindi avrebbe poco senso stare a piangere per il 12-13% che ruota. Il problema è che il restante ruota pure lui, e talvolta di propria scelta, e se lo fa di propria scelta, difficilmente viene da te al Centro per l’impiego. Se lo fa di propria scelta, vuol dire che ha mercato. E nel Veneto lo fanno spessissimo.
Io mi sono informato e ho fatto anche una ricerca con loro, la prima sui contratti a termine, non era neanche il 2000. Beh, lì se ne vanno per 100 euro al mese in più. La mobilità volontaria è motivata da queste cose qui. Oppure: “Ho trovato un posto un po’ più vicino, mi danno un po’ di meno, ma mi conviene”. Allora, ci entra in testa che questi sono meccanismi reali? E ci entra in testa che comunque, anche in America, una quota parte non superiore al 30, 40% passa dai servizi per l’impiego? Ogni volta che lo ripeto nelle analisi per Excelsior dell’Unioncamere, la gente rimane lì, attonita, ma la verità è quella: il grosso delle persone trova lavoro attraverso relazioni personali. E non so se è meglio un mondo dove per forza devi passare dagli uffici di agenzie pubbliche o private. Ma se tu puoi mollare l’azienda e andare in quell’altra, trovo giusto che uno non vada al centro per l’impiego. Invece si dice: “Ah, la raccomandazione…”. Quando si chiede: “Come viene trovato il lavoro?”, il questionario Istat recita: “Segnalazioni di dipendenti o di fornitori”. Cioè il datore assume per segnalazione da parte di un dipendente o di un fornitore. E’ raccomandazione? No, è la cosa più normale. Se noi abbiamo in testa la grande impresa, no, ma se abbiamo in testa il grosso delle imprese, è normalissimo. Hanno pure scritto un libro sulla raccomandazione, sul presupposto che se trovi lavoro per conto tuo, gatta ci cova, ma perché? E’ normale. E se è così, i servizi per l’impiego si dovrebbero dimensionare sugli aventi davvero bisogno, invece di lavorare indistintamente per tutti.
Tra l’altro, dopo la riforma Biagi, che ha moltiplicato i servizi di intermediazione all’impiego, sono nati i servizi privati che sono le agenzie ex-interinali di somministrazione. E poi ci sono i servizi pubblici, i Comuni, le università, le comunità montane, i consulenti del lavoro, tutti si sono messi a intermediare. Cosa intermediano? Tutti insieme un po’ meno del 40%. Il resto lo fanno le aziende direttamente. Ci sono i database che ogni azienda si forma incamerando i curricola, e c’è la raccomandazione “normale”. Queste due forme unite danno lavoro al grosso, e sono due forme usate da ambedue le parti. L’idea della Biagi era sbagliata, perché cosa vuol dire che un Comune intermedia? Dovrebbe aprire gli uffici verso se stesso, visto che dà lavoro anch’esso… Ecco, questa pletora di novità nelle modalità d’impiego e negli strumenti di intermediazione ha messo paura.
Ma la Biagi quindi era completamente sbagliata?
I giuristi, soprattutto, hanno detto che era un disastro per tutti. No, faceva solo un gran confusione. Prendiamo il job on call: la legge è uscita, c’è stato qualche centinaio di job on call, che erano tutti quelli degli alberghi e mense, alberghi e ristorazione e nel penultimo convegno l’ho proprio detto: ma vi rendete conto quanto è costato in termini di umori e di timori sociali voler applicare il job on call non all’albergo e mensa, dove c’era già, ma all’industria? Così la Biagi ha prodotto un effetto, moltiplicato dalla sinistra e dai giuristi di sinistra, terrorizzante. Perché inventarsi delle forme contrattuali che poi s’è visto non sono state usate dagli imprenditori? E’ stato un errore. L’idea buona della Biagi è il contratto a progetto, e questo l’ho detto spesso all’amico Marco. Il contratto a progetto nella versione originaria della legge, perché poi il ministero di Maroni aveva fatto una circolare allargandone i confini, è una cosa molto seria… Poi Damiano, che ha sempre sostenuto che la Biagi andava corretta, non abrogata, ha messo a posto le cose su questo punto, stabilendo che certi mestieri non possono essere a progetto.
Per concludere, tutto questo avvalora l’impressione che spesso gli osservatori esteri hanno venendo in Italia: che siamo così casinari. Insomma, il procedimento politico e la produzione normativa in Italia sono distorti dalla circostanza che non si basano quasi mai sui dati. Le scelte non si basano sui dati, le leggi non si basano sui dati, e tanto meno sui monitoraggi dei risultati. Hai fatto una legge, e allora com’è andata? Non lo dice nessuno, e se ne fa un’altra…
La ragione di questo quale può essere? L’imprinting filosofico, più che sociologico?
Sì. Il crocianesimo italiano. Galileo, Schiaparelli, ma non bastano, non è andata così la nostra cultura. Vale anche per la modesta legge Biagi: l’80% dei giuristi del lavoro, dal ferocemente al blandamente contrari, lo erano quasi tutti per ragioni di stile, per com’era scritta o com’era congegnata. Rarissimamente qualcuno che abbia detto: questa produrrà questo. Il buon Marco aveva un problema con i giuristi. Li incolpava di averlo tenuto da parte, di non averlo aiutato. Provava come un senso di inferiorità, lui abitava a Bologna, ma non l’hanno mai chiamato a Bologna. Il motivo vero? Perché lui era internazionale e loro no. Lui andava a Bruxelles. Tre, quattro, cinque ministri l’hanno mandato a Bruxelles, era il solo che parlava l’inglese e dopo un po’ è diventato un esperto fra gli esperti degli altri paesi e di Bruxelles. E poi perché scriveva leggi. Aveva un’enorme attitudine a scrivere leggi, mentre quegli altri erano bravi solo a criticarle. Lui era esacerbato dalla situazione.
Abbiamo fatto delle cose insieme, anche un ?paio di ricerche abbastanza importanti, una delle quali, tanto per dire, essendo Marco già un po’ nelle peste per la politica, praticamente non è stata diffusa dal committente, che era il Cnel. Perché aveva fatto l’accordo di Milano, che aveva fatto arrabbiare la Cgil. Ma Biagi era uno di sinistra, era un socialista, un moderato, con forti innesti cattolici, era uno che ci credeva… Non l’hanno mai chiamato a Bologna, eppure lui era più bravo di loro perché sapeva cosa si fa negli altri paesi e perché era in grado di scrivere testi. L’accademia in Italia è terribile.
Abbiamo fatto insieme anche un’altra cosa. Dovendo curare per il governo l’accordo-protocollo per gli scioperi durante il periodo del giubileo, io ho preso subito lui. Dopo la prima riunione, quando ci siamo visti, ho detto: “Va beh, qui la cosa da fare è mettere giù un testo e farlo vedere ai sindacati, tanto per capire l’aria che tira”. Lui mi ha telefonato il pomeriggio del giorno dopo: “Senti, come ti mando questa cosa”, “Ma cosa?”, “Ho preparato quel testo”. Me l’ha mandato, abbiamo fatto dei cambiamenti -chiedeva troppo ai sindacati, gli avrebbero detto di no- ma era perfetto, era un testo perfetto. Un altro che ha questa attitudine a scrivere leggi, e infatti significativamente ha lavorato con lui, è Tiziano Treu. Ma io dovrei penare a elencare tre o quattro altri nomi di illustri giuristi del lavoro di sinistra, a parte Giugni ovviamente, che sappiano fare leggi.
Questa cultura gli è stata avversa. Marco Biagi è stato emarginato, prima che politicamente, scientificamente e culturalmente. Lui si è difeso bene, perché poi aveva tanti rapporti, e giustamente se ne vantava, ma non è stato sufficiente, e gli hanno fatto la guerra.
Una vicenda molto triste… Quando gli hanno sparato, mi ha telefonato uno di questi, fra l’altro un grande amico, che mi ha detto qualcosa del tipo: “S’è vantato troppo, era un ingenuo, s’è vantato troppo”. Così mi ha detto.
Una volta, avevamo un gruppo di lavoro, lui era arrivato in ritardo, stavamo vicini, io mi ero messo a sfogliare un libro appena ricevuto dal Mulino, e gli ho detto: “Guarda, questo mi sa che è un bel libro, l’hai avuto?”, “No, a me non li mandano”. Lui era ordinario… Ne ho parlato spesso anche con mia moglie, perché non riuscivo a capire le ragioni di tanta amarezza, poi ho messo a fuoco che la questione accademica era veramente cruciale per lui, e io dico anche fondatamente cruciale. Lui era stato prezioso come coordinatore, non ufficiale, ma di fatto, del gruppo che scriveva il rapporto annuale per Bruxelles, e poi come consulente, come consigliere di Treu, con cui ha collaborato proficuamente. Treu gli deve qualcosa ed è contento che adesso si dica che la legge Treu e la legge Biagi sono una sequenza normativa.
Il problema è che quando Biagi fece l’accordo di Milano, la Cgil lo prese proprio male. Ciò poi fu aggravato dal fatto che andò alla giunta di Confindustria e fece quella relazione che in parte era poi risultata essere il libro bianco per la parte normativa. Quindi, certo, politicamente fu isolato, ma la politica ha aggravato una situazione tutta preesistente, legata alla considerazione di cui godeva tra i giuristi del lavoro italiani. Lui è stata una vittima più dell’accademia che della politica.
Per dire, lui sapeva com’era normata la disoccupazione in Danimarca, loro, tutti coltissimi, non sapevano niente. Pochissimi avevano conoscenze comparate. In questo si distingueva in un modo clamoroso. E’ stato proprio un emblema di quella cultura che sarebbe meglio che avessimo e che non abbiamo.
La cultura dei dati e delle comparazioni…
Sì, due condizioni irrinunciabili. Questo dannatissimo crocianesimo, per cui la scelta politica, la produzione normativa prescinde sempre dal dato. Sempre.

Aris Accornero, La cultura del datoultima modifica: 2008-12-07T16:53:00+01:00da mangano1
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