Barbara Spinelli,La crisi come occasione

da LA STAMPA, 7 dicembre 2008
BARBARA SPINELLI, La crisi come occasione
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La parola crisi è tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario: più che
una parola, è albero dai rami incessanti. In greco antico significa un gran
numero di cose tra cui: separazione, scelta, giudizio. Il verbo, krino, vuol dire
anche decidere. In medicina si parla di giorno critico o di giorni critici: per
Ippocrate (e per Galeno nel secondo secolo dC) è l’ora in cui la malattia si
decide: o precipita nella morte o s’affaccia alla ripresa. È il punto di
passaggio, di svolta.
Il termine riapparve nei sommovimenti enormi del ‘700: nella rivoluzione
francese, in quella industriale. La vera crisi, per Burckhardt, non cambia solo ibarbara1.jpg
regimi: scompone i fondamenti della società, come avvenne nelle migrazioni
germaniche. Quel che la caratterizza è la straordinaria accelerazione del
tempo: «Il processo mondiale d’un tratto cade in preda a una terribile rapidità:
sviluppi che solitamente mettono secoli a crescere, passano in mesi e
settimane come fantasmi in fuga» (Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla
storia universale).
Il concetto di crisi fu evocato con affanno sempre più frequente dopo il primo
conflitto mondiale. Lo storico Reinhart Koselleck la chiama «cataratta degli
eventi» e sottolinea il suo volto ambiguo: è una condanna, ma anche
un’occasione che ci trasforma. Nel Vangelo di Giovanni (5, 24) Gesù la
raffigura come temibile: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha
mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla
morte alla vita». Nella versione greca, andare incontro al giudizio è
letteralmente «entrare nella krisis», nel processo. Al tempo stesso crisi è
intelletto all’opera, che redime: «L’uomo che non ha alcuna krisis non è in barbara2.jpg
grado di giudicare nulla», scrive Johann Heinrich Zedler
nell’Universal-Lexikon del 1737.
Anche la crisi che traversiamo oggi è «vera crisi»: momento di decisione,
climax d’un male, e se ne abbiamo coscienza, occasione. Uscirne è
possibile, purché non manchi la diagnosi: secondo Galeno, i giorni critici
sono valutabili solo se l’inizio del male è definito con precisione.
Gli economisti non bastano a tale scopo, e ancor meno i politici. Spesso
vedono le cose più da vicino i letterati, i filosofi, gli storici, i teologi, i medici.
Se la società è un corpo – dagli esordi è la tesi dei filosofi – questi sono i suoi
giorni critici: può morire o guarire, mutando forma e maniere d’esistere.
Pietro Citati individua la radice del male nella passione dei consumi: frenesia
che descrive con parole deliziose, ironiche, sgomente, evocando la
telecamera americana che nel 1952 riprese una massaia che s’aggirava nel
supermercato (Repubblica, 3 dicembre 2008). La camera registra i movimenti
delle sue palpebre ed ecco d’un tratto i battiti crollano davanti agli scaffali,
fino a raggiungere la media di quattordici al minuto, da trentadue che erano:
«Una media subumana, come quella dei pesci; tutte le signore precipitavano
in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte
incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli». Sono
decenni che nuotiamo come pesci, gli occhi sbarrati, consumando senza
fiutare la crisi: scriteriati. Questo ci ha cambiati profondamente. In America ha
distrutto il risparmio.
Ovunque, politici e responsabili finanziari sbigottiscono davanti all’incanto
spezzato (alla bolla scoppiata). Vorrebbero che la stoffa di cui è fatto –
l’illusione – non si strappasse mai: perché le campagne elettorali son cucite
con quei fili, vivono della chimera d’un progresso ineluttabile, senza costi.
L’America dopo il Vietnam respingeva le guerre: le voleva «a zero morti». Poi
ricominciò a volerle, ma «a zero tasse». Importante nell’ipnosi è accaparrare
sempre più, anche se mancano i mezzi: l’ipnosi, restringendo la coscienza, è
il contrario della crisi. In America finanza e politica estera sono «entrate nella
crisi» simultaneamente. Il 7 agosto inizia la guerra georgiana, e pure i ciechi
scoprono che Washington non può alcunché: ha aizzato Saakashvili, ma
senza mezzi per sostenerlo. Esattamente un mese dopo, fra il 7 e il 16
settembre, scoppia la bolla finanziaria (salvataggio di Fannie Mae e Freddie
Mac, poi bancarotta di Lehman Brothers, poi salvataggio di Aig). Per decenni
si è sentito dire: ci sono compagnie troppo grosse per fallire. Era menzogna:
non erano troppo grandi né Lehman, né l’impero Usa. Le bolle esistono nella
finanza, in politica, nelle teste. Sono i giorni critici della nostra mente.
La trance ipnoide ha stravolto modi di vivere, di convivere con l’altro in casa e
nel mondo. Ci ha chiusi nella sfiducia. Lo storico Andrew Bacevich lega tutte
queste esperienze, e racconta come dall’impero della produzione l’America
sia passata, ancor prima di Reagan, all’impero dei consumi (The Limits of
Power, Metropolitan Books 2008). Nel tragitto si son perse (specie in
America) nozioni fondanti: la nozione del debito, che nella nostra cultura non
è senza colpa ed è divenuto un fine positivo in sé, incondizionato. La nozione
della fiducia, senza cui ogni debito degrada. La nozione del limite.
Il Padre nostro dice, in Luca 11, 2-4: «Perdona a noi i nostri peccati, anche
noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». In ebraico peccato e debito
sono un’unica parola. La poetessa Margaret Atwood ricorda come il concetto
di debito – essenziale nel romanzo dell’800: Emma Bovary si suicida perché
un creditore non ripagato minaccia di rivelare il suo adulterio – sia oggi
vanificato (Payback: Debt and the Shadow Side of Wealth, Toronto 2008).
Soprattutto in America, le banche spingono all’indebitamento, più che a
prudenza e risparmio. Scrive Zygmunt Bauman che un debitore che vuol
restituire puntualmente (che «pensa al dopo») è sospetto: è «l’incubo dei
prestatori». Non è «di alcuna utilità», perché il debito riciclato è fonte prima
del loro profitto costante.
Ma il debito sconnesso da fiducia non è pungolato solo da banche o Wall
Street. È un ottundersi generale dei cervelli, è l’ebete pensare positivo che il
governante invoca con linguaggio sempre più pubblicitario, sempre meno
politico. Main Street – che poi siamo noi, cittadini e consumatori – è vittima
tutt’altro che innocente di Wall Street. Come nel Grande Crollo del ’29
descritto da John K. Galbraith, siamo affetti da una follia seminale (seminal
lunacy) che accomuna potenti e milioni d’impotenti. Per questo è così vacuo il
politico che incita a ricominciare i consumi come se niente fosse. Il suo
dichiarare, i linguisti lo definiscono performativo: basta dire «la crisi non c’è»,
e la crisi smette di essere (le dichiarazioni performative sono predilette da
Berlusconi). I politici sono responsabili, avendo ceduto a un mercato senza
regole. Ora intervengono, ma senza curare la fonte del male. La crisi, cioè la
svolta trasformatrice, è rinviata.
Naturalmente hanno le loro ragioni: il crollo dei consumi farà male. Stephen
Roach, presidente di Morgan Stanley Asia, ricorda che comporterà
disoccupazione dilatata, ulteriori cadute dei redditi e del valore delle case,
aumento dei debiti, credito scarso. Ma qualcosa di non negativo può
nascerne: un rapporto col debito più realistico e leale, una fiducia riscoperta,
un consumo adattato alle possibilità (New York Times, 28 novembre).
Crisi vuol dire decidere, a occhi non sbarrati come la massaia del ’52 ma
aperti: sul peggio sempre possibile, sulle bugie del pensare positivo, sulla
duplice responsabilità verso la Terra che roviniamo, e verso i figli cui
addossiamo i nostri debiti. Terra e figli sono i nostri discendenti: ignorarli
perché i loro tempi son più lunghi dei nostri e perché non abiteremo il loro
mondo (un mondo con meno petrolio, meno automobili) è senza dignità e
chiude speranze altrui. Crisi è sottoporsi al giudizio, al processo. È ora che il
processo cominci. _

Barbara Spinelli,La crisi come occasioneultima modifica: 2008-12-07T16:49:00+01:00da mangano1
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