Giulia D’Agnolo, CLINT si è fermato a Detroit

dal manifesto del 07 Dicembre 2008

Clint si è fermato a Detroit
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«Gran Torino», il primo film dell’era Obama, racconta il presente americano e la speranza in un mondo migliore. Simbolo della bellezza perduta, l’auto della Ford. Eastwood, che interpreta un ex operaio, dirige un capolavoro da Oscar
GIULIA D’AGNOLO VALLAN
NEW YORK

«In modo completamente inconsapevole, Eastwood ha fatto il primo film dell’era Obama». L’affermazione, di Todd McCarthy, è notevole non solo perché raramente il settimanale Variety introduce nelle sue recensioni collegamenti con la politica contemporanea, ma perché è molto probabile che Clint Eastwood non abbia votato a favore del prossimo occupante della Casa bianca. In effetti, l’era Obama era presente in numerose schegge dell’immaginario cinema già prima delle elezioni. Ma è vero che, Gran Torino , l’ultimo lavoro di Eastwood è il presente. Un film politicamente radical, filtrato da uno sguardo sul mondo che, a 78 anni, non ha perso traccia della curiosità, dell’originalità e della volontà digiulia1.jpg sovvertire che lo ha sempre caratterizzato. Atteso nelle sale americane il 17 dicembre (in Italia a gennaio) praticamente senza promozione stampa , Gran Torino è il controcanto di Changeling come Million Dollar Baby lo fu di Mystic River , A Perfect World di Unforgiven , Letter from Iwo Jima di Flags of our Fathers . Il «filmino» che nessuno si aspetta, con l’effetto KO del Tyson dei tempi d’oro. Raccogliendo in un unico personaggio l’eredità di Dirty Harry (un filo rosso lega la serie dell’ispettore Callaghan con Gran Torino , così come Unforgiven proseguiva e ribaltava l’epopea western) e di Gunny ( Hearthbreak Ridge ), Eastwood è Walter Kowalski, veterano della Corea e della catena di montaggio della Ford. Le cicatrici delle battaglie combattute sui quei due fronti sono visibili nelle facciate decrepite del quartiere povero di Detroit dove vive, nel ringhio minaccioso con cui risponde persino al campanello, nell’esistenza solitaria e monotona di un dinosauro incattivito. Seppellita sua moglie, e con i figli borghesi, insulsi e avidi (come i genitori di Hillary Swank in A Million Dollar Baby ), che in una scena sirkiana tentano di infilarlo all’ospizio, il mondo di Walter è tutto nel suo garage meticolosamente corredato di un infinita serie di attrezzi da lavoro ormai inutili e in una smagliante Gran Torino, simbolo dell’implausibile love story con il gigante dell’auto che gli ha succhiato la vita. Silisticamente parlando, Gran Torino è un film minimalista ,«povero», come Eastwood non ne girava da anni. Scarno, nudo, da far male. I neri, l’oscurità in cui il direttore della fotografia Tom Stern immerge Kowalski, sono i più impenetrabili e raggelanti di una filmografia che fin dagli inizi ha sempre giocato sul potere emotivo e simbolico di quel colore. L’impressione è quella di un mise en scene disadorna, «brutale», per non offendere la brutalità della realtà che racconta, «edulcorandola» con la luce, o con l’inquadratura bella. In quel senso, lo sguardo inflessibile di Gran Torino coglie perfettamente l’inedulcorabilità delle news di questi giorni, quelle della «grande crisi». Don Siegel sarebbe orgoglioso del suo discepolo. giulia2.jpgTutto quello che ha sempre amato o creduto dell’America per Walt Kowalski è morto. Tra le sue macerie, nelle decrepite cassette monofamiliari che lo circondano, al posto della middle class bianca di un tempo, c’è una popolazione di immigranti asiatici, prevalentemente Hmong, dal Laos o dalla Thailandia, rifugiatisi negli Stati Uniti dopo la fine della Guerra in Vietnam. Ricorrendo a un fittissimo assortimento di epiteti razziali borbottati a mezza voce, Walter li tiene lontani a forza di occhiatacce, quando non si mette proprio a strillare. Dal portico accanto al suo, una vecchia signora incartapecorita, gli ricambia (in una lingua incomprensibile) insulti e antipatia. Assente dagli schermi dai tempi di Million Dollar Baby (aveva detto che sarebbe stato il suo ultimo film da attore), Eastwood affonda i denti in questo vecchio misantropo bigotto, che manda regolarmente a stendere il giovane prete che vuole confessarlo (è un dialogo sempre più frequente, nei film di Clint, quello con la Chiesa), con gusto enorme. Il risultato (da Oscar) è un curioso mix di humor kitch (alla Pink Cadillac ) e di autentica minaccia (Walter è il cuore più nero che c’è, Dirty Harry alla soglia della tomba). È assolutamente controvoglia, infatti, che Walter inizia un rapporto con la famiglia Hmong che gli vive vicino, dopo che Thao, il figlio teen ager, cerca di rubargli l’adorata auto e per punizione viene costretto dalla madre ad aiutarlo nei lavori di casa. Unico maschio della famiglia, timido, introverso e decisamente non macho, Thao sta cercando di resistere alle pressioni del cugino che vorrebbe farlo entrare nella sua gang. Tra lui e Walt il rapporto è prevedibilmente complicato, da slapstick. In una scena che dice molto sulla sottigliezza del lavoro che il cinema estaoodiano ha fatto su razza e pregiudizi, Walt sottopone Thao a una buffissima iniziazione virile. Poi gli trova lavoro in un cantiere. E, dopo aver ceduto a un invito dei vicini per il barbecue, il vecchio razzista si trova a riflettere ad alta voce: «C’è il rischio che abbia più in comune con questi musi gialli che con i miei». Intanto Sue, l’ineffabile sorella di Thao con lo sguardo da raggi X, inizia a chiamarlo Wally, come un altro eroe obamiano del cinema di quest’anno, il robottino perso in un mondo disastrato e abbandonato dagli uomini, l’eroe di Wall-E , il cartoon Pixar/Disney. Non sono molti gli attori/autori hollywoodiani che hanno un rapporto con il proprio personaggio intenso, analitico e lucido come quello di Eastwood (Jodie Foster e Stallone sono altri due esempi). E questo film così straordinariamente contemporaneo e vitale, il film di un regista giovane, è anche un grandissimo film della vecchiaia. Portando a compimento una riflessione sulla vendetta e sulla violenza iniziata quasi quarant’anni fa, per la strade di San Francisco, Clint Eastwood arriva a un epilogo di bellezza e limpidezza accecanti. La 44 Magnum è diventata un dito puntato, e le chiavi della Gran Torino (e dell’America) finiscono nelle mani di un ragazzino scontroso con gli occhi a mandorla.

Giulia D’Agnolo, CLINT si è fermato a Detroitultima modifica: 2008-12-09T19:15:00+01:00da mangano1
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