Marco Vallora, Pollock? uno sciamano

DA LA STAMPA 19 gennaio 2009

Marco Vallora, POLLOCK? uno sciamano di scuola junghiana
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PARIGI
Però, Parigi: finalmente una mostra meno prevedibile, su un «mostro sacro» dell’Espressionismo Astratto, alla fine poco indagato, come Pollock. Certo, non una novità assoluta (vedi per esempio il film un po’ hollywoodiano di Ed Harris, che lo vedeva danzare come in una trance iniziatica oppure le tesi di Varnedoe) ma una suggestione questa volta suffragata da documenti, da testimonianze (in particolare della moglie-pittrice, Lee Krasner) e «mostrata» nei fatti pittorici: ch’è forse la cosa più convincente. Pollock come artista-sciamano (a differenza del luogo comune, che vede soprattutto Beuys quale sciamano-principe). Dunque non più il Pollock-passivo, vittima di alcool & depressione, che finisce schiacciando la propria disperazione sotto l’acceleratore fatale dell’auto, che lo «passa», ubriaco, alla morte. Un altro tipo di danza: più consapevole e polemica, di rottura e rigenerazione salutare della vita, nutrita di visite ai musei antropologici in molte città d’America e gran consulto di riviste tecniche, e magari pure innamoramento del veggente-minorenne Rimbaud. Un bel cambio di marcia.

Lasner, che presenta la mostra, curata da Stephen Polcari, su Connaisance des Arts, rievoca persino la celebre battuta del giornalista nell’Uomo che uccise Liberty Valance di John Ford («Quando la leggenda diventa realtà, si stampi la laggenda») per dire quanti luoghi comuni abbian perseguitato questo narciso stanco, stanco anche della lezione del grande realista Benton, suo maestro. Ma la mostra dimostra, appunto, che non è poi così vero: questo guru assoluto del dripping quasi automatico-onirico non ha mai smesso di intravvedere serpenti e tori e leoni, e non soltanto simbolici, dentro il guazzabuglio coreografato della sua pittura d’azione e di dialogo con la natura. Che a molti è parsa sempre e soltanto astratta (di qui, in fondo, lo sciamanesimo: tentativo di rimettersi elettricamente in contatto con le dimenticate forze del mondo. Dando voce al serbatoio sepolto dell’incoscio collettivo).

Una bella differenza, dunque, dalla visione ormai pacificata di Harold Rosenberg, che leggeva in questo piegarsi e voltolarsi, a pascolare, con secchiate di colore, dentro la tela, posata a terra come un campo minato, una sorta di plaza de toros, in cui l’artista-matador entra, per suscitare un evento, invece di riprodurre un oggetto. Pollock, che aveva potuto assistere, al Moma, nel ’44, ad una seduta di veri indiani Navako, che «dicono la loro preghiera» danzando in circolo, e formando strane figure, Pollock che conosce bene la devozione, non solo stilistica ma antropologica, di surrealisti emigrati come Ernst e Mirò, per l’arte tribale indiana e oceanica, Pollock che entra in analisi, ma non a caso non sceglie il freudismo surrealista bretoniano, ma l’inconscio collettivo di Jung, conduce la sua «seduta» di pittura, quasi fosse un episodio di trance controllata: «preoccupato di dimostrare le malattie del mondo» (Polcari). «Un sogno -, ammette Pollock – simultaneamente caricato di sentimenti e privo di immagini». Però altrove dirà: «I pittori d’oggi non sono più costretti a trovare un soggetto fuori da sé, ma lavorando l’interno». «Lavorando l’interiorità», potremmo dire, alla francese. Che significa insieme lavorare (l’incoscio) tribolare, arare. Il bello di questa rassegna, ricca di Nascite e Maschere, è che sono messe a confronto con opere similissime di Masson, artista-siamese. Anche in quel non piccolo «bordo» di Kitsch astratteggiante, che colpisce entrambi.

POLLOCK ET LE CHAMANISME
PARIGI. PINACOTHÈQUE DE PARIS
FINO AL 15 FEBBRAIO

Marco Vallora, Pollock? uno sciamanoultima modifica: 2009-01-24T19:44:00+01:00da mangano1
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