Giuseppe Muraca, Luciano Bianciardi tra illusione e disincanto

giuseppe.jpgIn quest’ultimo decennio la figura e l’opera di Luciano Bianciardi sono stati al centro di un vasto e rinnovato interesse (con convegni, dibattiti, studi e ristampe), ad opera principalmente del costante impegno profuso dagli animatori dell’omonimo centro culturale grossetano e della bella biografia scritta da Pino Corrias Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano (Baldini & Castoldi, Milano, 1993), che fra l’altro hanno avuto il merito di far emergere lo scrittore grossetano dall’oblio in cui era caduto ingiustamente per quasi un ventennio, a causa anche del suo atteggiamento autodistruttivo degli ultimi anni.
Quella di Bianciardi è sicuramente un’opera molto eterogenea e diseguale ma che appare sin da una prima lettura come il prodotto di una delle personalità più inclassificabili, anticonformiste, refrattarie e radicali e al tempo stesso più tormentate della letteratura italiana contemporanea, nei cui confronti spesso si è corso il rischio o di alimentare il mito dello scrittore anarchico sempre in lotta con la società del suo tempo e/o di considerarlo, e questi giudizi a volte coincidono, un semplice deraciné, uno scrittore maledetto, disperato e perdente, incapace di andare oltre una protesta sterile e velleitaria, vittima di se stesso e delle proprie contraddizioni. In queste ipotesi e opinioni c’è molto di vero, ma spesso si è finito di mostrarne una visione parziale o superficiale, dimenticando di tener conto dei vari aspetti e dei diversi passaggi della sua attività intellettuale e della sua personalità. E’ questa la strada seguita da Gian Carlo Ferretti che di recente allo scrittore di Grosseto ha dedicato una breve ma densa monografia, La morte irridente. Ritratto critico di Luciano Bianciardi, uomo giornalista traduttore scrittore (Lecce, Piero Manni, 2000), con l’intento di delinearne un ritratto meno agiografico, più articolato e meno semplicistico, che agli aspetti già variamente analizzati dalla critica precedente e abbastanza conosciuti dello scrittore grossetano aggiunge nuovi addentellati e spunti di lettura.
Nato a Grosseto nel 1922 e morto a Milano nel 1971, Bianciardi ha attraversato le fasi più salienti del ventennio successivo alla seconda guerra mondiale: la stagione dell’impegno, la crisi del ’56, il boom economico e le lotte politiche della fine degli anni sessanta. Di spirito anarchico, ma ancora troppo giovane per poter raggiungere la consapevolezza politica negli ultimi anni del fascismo, è soltanto con la guerra e la resistenza che Bianciardi compie le sue prime e importanti scelte politiche, culturali, schierandosi al fianco <> (Nascita di uominigiuseppe1.jpg democratici, in Il paripatetico e altre storie, Milano, Rizzoli, 1976, p. 161), dapprima aderendo al Partito d’Azione e poi avvicinandosi, in maniera però disorganica, al Partito comunista. Dopo la laurea a Pisa, nel ’48 si dedicò per qualche anno all’insegnamento, ma nel ’50 fu nominato direttore della Biblioteca comunale della sua città, un incarico che svolse con grande umiltà, come un bracciante, ed è grazie al suo impegno che furono salvati i libri dalle macerie della guerra e dal fango dell’alluvione del ’46.
I primi anni cinquanta furono per Bianciardi il periodo di maggiore entusiasmo e di grande impegno politico e culturale: organizzò rassegne cinematografiche, dibattiti, partecipò a comizi, e spesso si trovava a girare per i paesi della provincia con il suo furgone carico di libri. Fondamentale per la sua formazione umana e letteraria fu anche il suo sodalizio con Carlo Cassola, mentre è soltanto nel ’52 che inizia, dietro insistenza di Umberto Comi, compagno d’Università e direttore della “Gazzetta di Livorno”, la sua attività giornalistica. L’amicizia con Cassola sfociò subito dopo nella battaglia contro la cosìddetta “Legge truffa” e nell’inchiesta sui minatori della Maremma, da cui nacquero diversi articoli pubblicati dai due scrittori su vari giornali e riviste (“L’Avanti!”, “L’Unità”, “Il Contemporaneo”, ecc.) e successivamente nell’omonimo libro, scritto a quattro mani (Bari, Laterza, 1956). Si trattò di un impegno portato avanti con grande passione, nato dal proposito di denunciare il grave stato di abbandono e di pericolosità delle miniere maremmane (quasi tutte di proprietà della Montecatini) e sorretto da un grande bisogno di conoscenza, da un autentico sentimento di solidarietà umana e sociale e dalla convinzione che in quella determinata realtà i minatori rappresentavano l’avanguardia del movimento di rinnovamento e di emancipazione collettiva.
Ma la sua esistenza fu di colpo sconvolta dalla sciagura di Ribolla, avvenuta il 4 maggio del ’54, in cui morirono 43 lavoratori e che fu da lui vissuta come la fine di un mondo, di un periodo, soggettivo e generale. Infatti, la sensazione che si avverte leggendo i suoi scritti di quei mesi è che a Bianciardi vengono di colpo a mancare tutti quei punti di riferimento, quella spinta ideale e politica che lo avevano animato per un decennio fino a quel momento. <>: scriverà il giorno successivo alla sciagura (Ira e lacrime a Ribolla, in Chiese escatollo e nessuno raddoppiò. Diario in pubblico1952-1971, a c. di Luciana Bianciardi, Milano, Baldini & Castoldi, 1995, p. 80). Parole che ritornano ossessivamente nel suo capolavoro narrativo: <>(La vita agra, Milano, Rizzoli, 1980, p. 46). E questo senso di disorientamento, di solitudine e di angoscia crebbe nei mesi successivi tanto che dopo circa due mesi, alla fine di giugno, Bianciardi decise di fuggire letteralmente per Milano, <>, come un ladro, scriverà dieci anni dopo (Ritorno a Kansas City, in Il lavoro culturale, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 111.), abbandonando la città natale e la famiglia, spinto da un impellente desiderio di cambiar vita, di voltar pagina.
Fu sicuramente una scelta molto travagliata e dolorosa che in seguito gli provocherà molti dubbi e rimorsi e di cui vi è traccia non solo nell’epistolario ma anche nelle sue opere narrative più importanti. E questa frattura con il suo passato e con il suo vecchio mondo segnò di fatto l’abbandono di qualsiasi impegno politico diretto e l’inizio di una nuova fase della sua esistenza e della sua attività intellettuale.
Bianciardi giunse nella metropoli lombarda (<>, come la definirà dopo qualche anno Giancarlo Majorino nella sua prima raccolta poetica) proprio all’inizio del decollo neocapitalistico e del processo di modernizzazione, e lui non impiegò molto tempo ad accorgersi dello stato di alienazione, di massificazione, di sradicamento e di estrema solitudine in cui è costretto a vivere l’uomo nella metropoli moderna. L’articolo Lettera da Milano è a questo proposito abbastanza indicativo. Vi sono preannunciati quasi tutti i motivi che lui porrà al centro della sua riflessione e del suo discorso giornalistico e narrativo nel decennio successivo: ci sono la denuncia del miracolo economico, la critica alla sinistra “ufficiale”, alla cultura manageriale, alla piccola borghesia impiegatizia, ecc. Dopo vari lavori (era stato nel frattempo raggiunto dalla sua nuova compagna, Maria Jatosti, conosciuta a Roma qualche anno prima), nel 1956 venne assunto da Gian Giacomo Feltrinelli e partecipò all’impegno di costruzione della nuova casa editrice, ma lui faceva fatica ad inserirsi nel progetto e dopo un iniziale entusiasmo subito cominciò a dare segni di insofferenza. In sostanza, Bianciardi si aspettava un lavoro da “umanista” e invece si trovava costretto a svolgere la mansione di “impiegato”, di “contabile”. Così all’impiego alla Feltrinelli ben presto preferì il lavoro di traduttore che lo terrà legato per diverse ore della giornata al tavolo di lavoro, mentre si accentua il suo desiderio di solitudine. Il suo licenziamento quasi coincise con la crisi polacca e ungherese del 1956, in cui trovò un’ulteriore conferma del suo precedente distacco dalla politica attiva e dal Partito comunista.
Dopo pochi mesi diede inizio alla sua attività di narratore e nel giro di pochi anni scrisse le sue opere più significative in cui insieme a nuovi motivi vengono ripresi e rielaborati temi e motivi della sua precedente produzione giornalistica e saggistica: nel ’57 pubblicò Il lavoro culturale, nel ’60 L’integrazione e nel ’62 La vita agra. Il primo libro rappresenta un vero e proprio rendiconto critico e polemico di un itinerario soggettivo e collettivo (di quella che lui chiamò la “generazione bruciata”), una rievocazione, ora ironica e ora amara, della realtà provinciale e degli anni dell’impegno; ne L’integrazione Bianciardi racconta invece delle sue esperienze umane e culturali dei primi anni milanesi, e in particolar modo della vicenda della <> (la fondazione della casa editrice Feltrinelli). Qui, la vita metropolitana e il miracolo vengono criticati duramente, mediante uno stile tagliente, sarcastico o caricaturale, in contrapposizione al mondo provinciale, considerato ora in maniera positiva e ricordato con una punta di nostalgia e di rimpianto. Queste due prime opere sono costruite in maniera quasi identica e parallela, ma se ne Il lavoro culturale ad essere bersagliati sono gli ideali, le illusioni e i miti che si erano affermati nell’immediato dopoguerra (in primis quello di Grosseto-Kansas City e dell’ideologia dell’impegno), al contrario, ne L’integrazione Bianciardi fa principalmente la satira del gruppo feltrinelliano, dell’ambiente e della cultura progressista milanesi. Inoltre, in esse emerge un altro dato abbastanza singolare, che sarà poi confermato, pur con sostanziali differenze, ne La vita agra e nelle opere narrative successive: la narrazione segue vari binari: del racconto autobiografico e del pamphlet, della prosa d’invenzione e del saggio; e i diversi piani vengono intrecciati e fusi in una cifra stilistica e narrativa davvero originale ed efficace, con un sempre più evidente e consapevole tentativo di superare il modulo narrativo tradizionale e di giungere a forme espressive sperimentali.
Nella Vita agra Bianciardi porta a maturazione motivi e temi già affrontati ne L’integrazione ma con una maggiore consapevolezza umana, ideale e letteraria. Alla base del terzo romanzo c’è il racconto fatto in prima persona singolare di un intellettuale anarchico (che di mestiere fa il traduttore e che condivide la sua esistenza e la sua solitudine con Anna), trasferitosi da Grosseto a Milano con la precisa missione di far saltare il <> della Montecatini, colpevole di aver causato con la sua incuria la tragedia di Ribolla. Anche questo racconto, quindi, è a sfondo prettamente autobiografico, ma qui, rispetto alle prove precedenti, la narrazione viene condotta con maggiore sapienza, distacco e problematicità, cosi che la storia di quest’uomo che vive nel <> può essere veramente considerato lo specchio di una condizione collettiva, cioè assume una portata generale e universale.
Con La vita agra Bianciardi perviene ad esiti pienamente sperimentali, partecipando direttamente e consapevolmente al processo di rinnovamento del linguaggio e delle strutture letterarie tradizionali variamente avviato alla fine degli anni cinquanta. La sua ricerca presenta diverse analogie con la contemporanea produzione di autori come Pasolini, Roversi, Volponi, Mastronardi, mentre si differenzia nettamente dalle illusioni modernizzanti, dall’ottimismo e dal formalismo scientista di molti protagonisti della neoavanguardia. Sul piano strutturale Bianciardi fa un uso attento e spregiudicato della tecnica del montaggio: l’ordine del discorso viene infatti scardinato definitivamente e la narrazione si sviluppa senza seguire una vera e propria trama, un piano prestabilito. Ovviamente, alla fine l’opera conserva un suo ordine interno, però non è costituita dalla ricostruzione lineare di una vicenda, bensì da un ininterrotto “monologo interiore”, composto da una lunga serie di disgressioni, confessioni, invettive… Come ha osservato giustamente Rita Guerricchio, la <> (La vita agra, in AA. VV., Luciano Bianciardi tra neocapitalismo e contestazione, a c. di A. Bruni e V. Abati, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 80).
All’origine dell’opera, come ha confessato lo stesso autore nelle lettere di quel periodo, c’è una sorta di rabbia, di rancore amaro e beffardo nei confronti della logica disumana e mercificante, della follia, dell’insensatezza della società capitalistica e consumistica, della <>. E i propositi di denuncia e di ribellione sono più che evidenti, ma, come avverte Ferretti, sarebbe sbagliato interpretare il romanzo solo in chiave agonistica e protestataria. In realtà, Bianciardi ne La vita agra, come già ne Il lavoro culturale e ne L’integrazione, si mostra ormai come uno scrittore e un uomo disilluso, sconfitto, estremamente pessimista, tormentato dai ricordi, dai rimorsi, da dubbi ossessionanti e dalle sue stesse contraddizioni, convinto di vivere in una società omologata, in un mondo senza alternative e senza vie d’uscita. Di fatto, il protagonista de La vita agra è un exlege, uno sradicato che rinnega sì le regole e i valori costituiti, ma che, al tempo stesso, non ha la forza e il coraggio di rompere totalmente con il sistema sociale in cui vive e di realizzare il suo piano contro l’impresa capitalistica. Non a caso il suo sentimento oscilla tra l’illusione e il disincanto, fra la rabbia e l’amarezza, tra il desiderio di rivolta e l’impotenza, tanto è vero che l’ironia e l’umorismo si fanno nel corso del romanzo via via più amari, più cupi, proprio per rappresentare l’angoscia, il senso di solitudine e il grigiore che dominano progressivamente la narrazione.
La vita agra è senza dubbio uno dei più bei romanzi dei primi anni sessanta, da porre, in un’ideale trilogia, accanto ai contemporanei Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi e Memoriale di Paolo Volponi. Il successo di critica e di pubblico che colse inaspettatamente Bianciardi era quindi più che meritato. Ma a quel punto si verificò un fatto davvero singolare: il successo e la notorietà che per un qualsiasi altro scrittore avrebbe potuto rappresentare lo stimolo per intensificare il proprio impegno e la propria ricerca, per trovare nuove motivazioni, per Bianciardi invece si tramutò in un motivo di ulteriore disincanto, in una causa scatenante che acutizzò la sua crisi morale e ideale. A tale riguardo ecco che cosa scrisse al suo amico Mario Terrosi un po’ di tempo dopo la pubblicazione del romanzo: <> (Lettera datata: Milano, 30 novembre 1962, in Mario Terrosi, Bianciardi com’era (Lettere di Luciano Bianciardi a un amico grossetano), Grosseto, Il Paese Reale, 1974, p. 76). In sostanza, Bianciardi decise di rifiutare tutte le opportunità che in quel periodo gli si presentarono o gli vennero offerte, e in particolar modo il ruolo di personaggio pubblico e di scrittore di successo che si era guadagnato con grande fatica, evitando così di essere integrato, assorbito e neutralizzato dalla società del suo tempo, con la conseguenza di chiudersi volontariamente e definitivamente in uno stato di sempre più accentuato isolamento e di abbandono.Lo scrittore grossetano pagò a caro prezzo la sua coerenza e il suo rifiuto delle regole e le sue scelte ebbero ripercussioni dirette sulla sua condizione di uomo e di scrittore, sulla propria esistenza e sulla propria situazione familiare. Iniziava in questa maniera l’ultima fase del suo percorso umano e letterario, conclusasi con la sua morte, cercata e voluta quasi come una sorta di autopunizione e di liberazione, un periodo segnato, appunto, da un crescente declino e da un progressivo decadimento, sul piano umano, esistenziale ed intellettuale.
Il giudizio di Ferretti sull’attività letteraria e giornalistica dell’ultimo Bianciardi è forse troppo severo: essa necessita, secondo me, di uno studio più attento e approfondito di quanto si è fatto finora. Certamente le opere narrative (specialmente il romanzo storico-politico, La battaglia soda, Milano, Rizzoli, 1964) e gli articoli degli ultimi anni presentano ancora diversi motivi di interesse, tanto che molte pagine si leggono ancora con gusto; essi mancano però di quella felicità inventiva e di quella carica espressiva, della coerenza, della incisività e della problematicità, di quelle intuizioni e di quelle motivazioni che stanno alla base della sua produzione più significativa, con sempre più evidenti segni di stanchezza e di artificiosità. E questo deriva dal fatto che nello scrittore grossetano venne meno progressivamente proprio quella particolare spinta ideale e morale che aveva precedentemente alimentato e sorretto la sua esistenza e la sua opera giornalistica e narrativa.

Giuseppe Muraca, Luciano Bianciardi tra illusione e disincantoultima modifica: 2009-01-28T18:58:00+01:00da mangano1
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