da LIBERAZIONE 5 febbraio 2009
TONINO BUCCI, simone weil una figura di confine che non si presta alle letture di circostanza
Simone Weil è una figura di confine che non si presta alle letture di circostanze. Il centenario della sua nascita è passato in sordina forse a causa della difficoltà di racchiudere in una definizione sbrigativa l’arco della riflessione di questa filosofa, nata a Parigi da una famiglia di ebrei benestanti e laici, destinata a passare nel corso della sua biografia per esperienze e svolte filosofiche spesso in contrasto tra loro. Almeno in apparenza. Poco più che ventenne inizia a insegnare filosofia nei licei. Alle spalle ha una tesi intitolata Scienza e percezione in Cartesio, eppure a dispetto del suo cartesianismo si convince che il rapporto tra l’uomo e la natura non sia soltanto un rapporto di pura conoscenza, di rispecchiamento e contemplazione, ma anche un’attività: il lavoro per l’appunto. Non è soltanto un impulso teorico a muovere la giovane Weil, anzi si può dire che da questo interesse sarà condizionata la sua vita. Si avvicina, lei benestante, lei docente di liceo, al sindacalismo rivoluzionario. Si impegna nella pratica e nella teoria. Scrive un articolo di riflessione sulla devastante crisi del ’29 e sulle prospettive di rivoluzione della classe lavoratrice. Passeranno pochi anni quando abbandonerà persino l’insegnamento per andare a sperimentare di persona il lavoro nella fabbrica moderna. Dura nove mesi il suo apprendistato alla pressa e alla fresa in diversi stabilimenti tra i quali la Renault.
Però c’è anche un’altra Simone Weil, l’ex sindacalista che mette da parte Marx, che si abbandona al pessimismo più cupo, che non intravede più vie d’uscita dall’hitlerismo che incombe su tutta Europa, che rigetta del tutto la prospettiva della rivoluzione, che nel comunismo vede soltanto propaganda e massificazione. E’ la Simone Weil della “svolta mistica”, la pensatrice del trascendente che valorizza tutte le religioni come unico accesso di fede alla verità, quella che respinge in blocco la modernità ormai percepita come un complesso di forze autoritarie e oppressive che abitano la società di massa. Come a conclusione di un percorso l’ultimo scritto della filosofa – che muore di tubercolosi in un sanatorio a soli 34 anni – sarà un duro pamphlet contro i partiti. Al male della politica c’è solo un rimedio, l’amore per il soprannaturale. Non c’è scampo al pessimismo, agli occhi di Weil i partiti sono soltanto organizzazioni dogmatiche e totalitarie, agenzie di una propaganda di massa che ottunde le menti. Ma nella filosofia di Weil c’è anche un’altra traccia. Non tutto è preordinato alla chiusura di ogni spazio politico in nome semplicemente del primato del trascendente. Non che lo sguardo alla religione non sia predominante, non che si possa negare la svolta mistica negli ultimi anni di Weil, non che la trascendenza e l’apertura a questa della fede non rappresentino l’unica possibilità di salvezza. Gli ultimi scritti della filosofa non danno adito a dubbi: nel sociale non c’è alcuna via alla soluzione della sofferenza umana. Epperò il discorso cambia a seconda di dove cade l’accento nella gerarchia logica del ragionamento. La cosiddetta svolta mistica e l’appello al trascendente – a un divino che è presente in nucleo in tutte le confessioni religiose – non sono il punto iniziale del discorso di Weil, ma l’approdo di un percorso che molto risente del fallimento di un’opzione iniziale. Si è molto discusso sulle ragioni che indussero Simone Weil ad abbandonare l’impegno sindacale e il rapporto teorico col marxismo. Di solito si è voluto vedere nell’impatto con il lavoro di fabbrica a cui personalmente si sottopose la causa del crollo di illusioni “giovanili” come se l’atteggiamento passivo osservato negli operai avesse bruscamente mandato a monte l’ingenua aspettativa di una rivoluzione imminente in Europa. Non fu proprio così, anche se difficilmente si può sottovalutare il trauma subìto nel periodo di lavoro alla pressa. Il bilancio è fallimentare, lo dimostrano le parole scritte in presa diretta dalla stessa Simone Weil in una lettera indirizzata a un’amica che vale la pena riportare per esteso. «Per me, personalmente, lavorare in fabbrica ha voluto anche dire che tutte le ragioni esteriori (che prima credevo interiori), sulle quali poggiava a mio parere il sentimento della mia dignità, il rispetto di me stessa, sono state infrante radicalmente in due o tre settimane sotto i colpi di una costrizione brutale e quotidiana. E non penso che abbia provocato in me movimenti di rivolta. No, al contrario ha provocato ciò che meno mi sarei aspettata da me – la docilità. Una docilità da bestia da soma rassegnata. Mi sembrava di esser nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini». In queste parole c’è non tanto lo smacco di giovanili ardori dovuto al primo contatto con una realtà che non dovrebbe risultare del tutto sconosciuta a una filosofa-sindacalista, già erudita sull’esistenza dello sfruttamento del lavoro, quanto la crisi della convinzione che dallo sfruttamento si possa uscire con la politica e l’organizzazione.
L’esperienza della fabbrica non rivela nulla di nuovo a Weil, anzi le riconferma l’urgenza del tema principale della sua filosofia che è la sofferenza umana in questo mondo e il desiderio di libertà. La novità semmai è che mentre fino a questo momento la società sembra il luogo dove cercare la chiave di soluzione alla sofferenza del lavoratore, ora i meccanismi sociali – della moderna società di massa – assumono un profilo minaccioso, repressivo, autoritario dal quale l’essere umano non può attendersi alcuna salvezza. Insomma, non è la brutalità del lavoro di fabbrica a spiazzare Simone Weil, ma la scoperta che non esiste automatismo fra quella brutalità e la formazione di un impulso di ribellione da parte degli operai o, detto in termini canonici, di una coscienza di classe rivoluzionaria. L’aspettativa sino a questo momento riposta nella politica – come azione organizzata di una classe che prende coscienza di uno sfruttamento oggettivo – lascia il posto a una sfiducia nella politica, alla percezione di una crisi epocale della modernità. L’approdo al misticismo forse è già inscritto nei toni cupi della riflessione di Weil sul proprio tempo. Ma se il ripiegamento sulla trascendenza smentisce il progetto originario di una filosofia del concreto, se il rifiuto dell’azione politica dà adito piuttosto a un pensiero conservatore, nondimeno nella svolta mistica c’è anche una lucida analisi della crisi della politica nella società di massa. Per quanto la critica di Weil alla modernità possa rivelarsi, alla fine del tragitto, una filosofia dell’antimodernità, non c’è motivo di trascurarne il versante critico. C’è uno scritto a cavallo di questa svolta che testimonia la disperata denuncia dell’involuzione autoritaria dell’Europa, un saggio critico composto tra il ’39 e il ’40 dal titolo L’Iliade, o il poema della forza . Sono gli sventurati della storia, gli operai delle moderne fabbriche o i troiani sconfitti e destinati alla schiavitù, i protagonisti di questa riflessione, vittime che si rendono conto dell’impossibilità di sfuggire al brutale dominio della forza – di un forza che si presenta nel proprio tempo con il profilo minaccioso dell’hitlerismo. Il desiderio di libertà lascia il posto alla reificazione, tendenza inesorabile della moderna società di massa. Sventurati sono coloro che «senza morire sono diventati delle cose per tutto il corso della loro vita». C’è ancora, in queste parole, un residuo della Weil critica dello sfruttamento di fabbrica che riduce gli operai a mezzi, a cose. Ma la vittoria dell’hitlerismo fa ormai passare in primo piano l’ineluttabilità della crisi di civiltà giuridica in Europa. E’ vero, Simone Weil troverà rifugio nella trascendenza, in una prospettiva antimoderna lungo la quale non può essere seguita. Ma persino nel suo misticismo si intravede un antidoto ad altre fascinazioni, altre seduzioni, molto più pericolose e inquietanti, come quella, ad esempio, esercitata dal suo contemporaneo Carl Schmitt, il giurista e filosofo politico compromesso col nazismo, che alla crisi del diritto risponderà con l’esaltazione del völkisch , del populismo, dell’identitarismo di razza. Di antidoti contro simili tentazioni ce n’è sempre un disperato bisogno.