Luciana Bartolomei, Era di settembre

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Era di Settembre: il tempo dell’uva matura.
Vivevo allora in una città universitaria di provincia, in una villetta a due piani con un giardino intorno, anonima come tutte le altre che venivano a formare il nuovo quartiere della periferia cittadina. Mia madre quel giorno cominciò a prepararmi la valigia per il viaggio. “Domani ti accompagnerò dalle zie a C…., lì ti troverai bene e farai la cura dell’uva.” Così mi disse ed io la guardai cercando di capire che significato avesse quella novità nella mia vita. Ero una bambina curiosa e il pensiero di conoscerle mi portò ad accettare l’avvenimento quasi con naturalezza, benché fin da subito provassi una certa paura nel sentirle nominare.
Tutti in casa le avevano sempre chiamate ” le zie di C…”. Le mie sorelle maggiori, sposate da anni e lontane, erano vissute presso queste zie nel periodo degli studi. Quello che allora non sapevo era che le zie rappresentavano un’istituzione nella nostra famiglia, poiché si erano sempre assunte il compito di ospitare tutti i cugini, compreso mio padre, e i loro figli, per educarli nella vita e nello studio. Molto più tardi seppi che mio padre, non sopportando le regole ferree imposte dalla casa, un bel giorno aveva preso la fuga a piedi e se ne era ritornato dai suoi. Niente e nessuno l’avevo più convinto a ritornarvi. Forse la sua vita sarebbe stata diversa, senza quella fuga.
Così cominciò la mia permanenza in quella imponente casa di metà ottocento, con belle modanature sulla facciata, una grande porta d’ingresso lucida di vernice sempre rinnovata, che si apriva su un androne in cui le zie sedevano a prendere il fresco nelle sere d’estate, per guardare il passeggio della gente, parlare fra loro o con chi si fermava a salutare. Era una casa a tre piani con finestre che si affacciavano sulla strada, le altre posteriori guardavano su di un giardino interno, cinto ai lati da alte mura. C’era anche un ingresso laterale con un enorme portone su passo carrabile, non più usato per le carrozze ma spalancato solo quando arrivava in visita qualcuno con l’automobile. Un portoncino verde, chiuso con lucchetto solo durante la notte, era inserito in quello grande. Sarà la mia scorciatoia preferita, quando più avanti negli anni, uscirò nelle mattine d’inizio estate prima del levar del sole per andarmene in bicicletta, senza meta nè orari, a vagare lungo viottoli con filari di alberi in fiori e confinanti con prati verdi di trifoglio. La casa dava il senso della solidità, del prestabilito, degli orari inderogabili, dei pasti lungamente elaborati dalle sapienti mani della zia più anziana, delle notti di sonno sicuro e ininterrotto fino al mattino, prive di incubi.
Come la casa, così erano le tre zie. Che non erano vere zie ma cugine prime di mio padre, poiché la loro madre era la sorella della nonna paterna, morti entrambe quando feci il mio ingresso in quella dimora. Una donna, era stata questa prozia, a dir poco terribile nella sua forte volontà di redimere il mondo intero; anche la sorella, mia nonna, veniva giudicata incapace di educare i suoi numerosi figli, per le troppa libertà loro concesse. Anch’io, fino ad allora, ero vissuto con poche regole, in una libera ricerca fatta di esperienze sensoriali. Rimanevo per ore nel mio giardino ad esplorare foglie e fiori, osservandone il colore e la forma, aspirandone il profumo e gustandone il sapore. Il primo lucia1.jpgricordo di autoconsapevolezza nacque proprio così, dall’aver portato alle labbra un’erba che mi allegò, con il suo bianco lattice, lingua e denti. Come un cavallo selvaggio  correvo e saltavo con i bimbi del vicinato, senza conoscere l’ora del pranzo o della cena, se non per la fame che mi mordeva il ventre. Nelle sere d’estate giocavamo tutti a nascondino, senza limite nelle distanze, o cantavamo le canzoni dell’ultimo Festival, seduti sui muretti dei giardini. La voce femminile più intonata, come premio riceveva un bacio dal ragazzino più ambito.

Quando entrai come una reclusa in quella casa, mi si proibì di giocare con i maschi: “Perché non si può?” l’avevo chiesto alla cameriera, un’altra istituzione che era entrata al servizio della famiglia a dodici anni e ne contava oramai più di cinquanta. “Queste cose le bambine non lo possono fare, è peccato!” Così scoprii il primo peccato, giocare con i coetanei dell’altro sesso. E molti altri negli anni successivi. La casa mi accolse e mi strinse nelle sue forti braccia murate, mi rinchiuse nel giardino ben curato ad aiuole che si trasformava, di là dal cancelletto, nell’orto più lungo e più bello che io avessi mai visto . Lateralmente erano disposti filari di viti a pergolato, da una parte l’uva bianca, nera dall’altra. Nella zona centrale cresceva ogni qualità di verdura, compresa una pianta con foglie aromatiche, alla quale per anni in seguito cercai di dare un nome e che forse apparteneva alla famiglia dell’absenthium.
“Corri a prendermi due o tre foglie, che preparo le frittelle di riso”. Così la zia cuoca mi diceva, sapendo che ne ero ghiotta. E lì, nell’orto più bello del mondo, che in seguito paragonai all’Hortus degli antichi latini, ritornavo la bimba di un tempo, intenta ad annusare, assaggiare, studiare la forma e il colore delle piante e delle loro foglie. In primavera scoprii, presso il muro esposto a Nord, sotto foglie lanceolate verde scuro , profumati e pallidi mughetti nascosti alla vista distratta dei più, non alla mia che era rivolta alla terra, più che al cielo.
Così cominciò la vita presso queste zie che erano per me illustri sconosciute. La più anziana delle tre era addetta all’amministrazione delle diverse proprietà di famiglia, dell’andamento della casa e naturalmente della cucina. Gli studi di Economia Domestica l’avevano predisposta per questo ruolo di amministratrice massaia. Sapeva preparare pranzi per ogni occasione e dolci da leccarsi le dita. Ancora oggi ricordo un dolce a freddo che veniva riposto nella ghiacciaia per un’intera nottata, con un peso che lo comprimesse. Né posso dimenticare una meravigliosa corona giallognola, forse di semolino, traboccante di profumati funghi porcini come ripieno.
Alta e formosa, ella indossava di giorno un busto che la costringeva ad  un atteggiamento impettito, quasi altero.  Mi è ancora familiare, nel ricordo, lo scatto di reni che le faceva sollevare spalle e testa. Talvolta quello scatto lo sento dentro di me e ripetendolo inconsciamente, mi si riaffaccia alla mente il volto a becco dell’anziana zia. Burbera, con voce severa, non ricordo di averla mai vista sorridere, eppure doveva provare della tenerezza nei miei confronti, anche se non me ne rendevo conto. Ero la bambina della casa, in un ambiente antico, non più aggiornato con i tempi. Conosceva bene i miei gusti e non dimenticava mai un compleanno, una festività, un pensiero quale premio per lo studio.
L’altra sorella, minore di qualche anno e insegnante in pensione, mi prese sotto le sue ali per indirizzarmi seriamente alla difficile strada dello studio e del suo apprendimento.
Quando terminò il mese di Settembre, mi si annunciò che non sarei tornata a casa dalla mamma ma che avrei frequentato la scuola presso di loro. Ne sono passati di anni da quel giorno, eppure il ricordo della disperazione che provai è ancora qui, in me, a fare da piedestallo alle sofferenze successive. Non avrei più veduto mia madre, se non a Natale. Mi si disse di pazientare, la mamma a casa avrebbe continuato il suo lavoro senza preoccuparsi di dovermi lasciare sola, molte ore ogni giorno. Piansi un’infinità di lacrime durante le notti, fino a che il sonno non vinceva il mio dolore, e allora tornavano i sogni della mia fredda casa lontana, di mia madre senza voce nè sorriso, degli amici rimasti in città che non avrei riveduto. Le zie mi ricordavano che dovevo essere saggia e comportarmi da adulta, a me che non avevo ancora otto anni! E una notte vissi l’incubo in cui mia madre moriva: ero rimasta sola per sempre: quel sogno di morte diventò devastante. Persi da quel momento la capacità di amarla, nè quando la rividi brevemente a Natale, provai per lei alcun trasporto, nè in seguito nella vita da adulta, la considerai se non un’estranea. Sradicare dal proprio cuore l’amore, in così giovane età, si trasformò in una malattia che mi portai sempre appresso, intrisa di un grande rimpianto.
Di là dall’alto muro e in una casa più piccola, viveva una bambina della mia età che frequentava il mio stesso anno di scuola: il suo nome era Annalisa.
Vivace, simpaticamente maschiaccio, con capelli dritti rosso castani, fu il mio primo amore, nel senso che desideravo intensamente trasformarmi in lei, o almeno assomigliarle. Quanto io ero timida, introversa, sognatrice, tanto lei era forte, sicura di sè, con il permesso di scorrazzare per tutto il paese come un monello, in compagnia dei ragazzi. Le zie decisero, benché ne temessero l’esempio, che sarebbe diventata la compagna con cui recarmi a scuola e con la quale, al pomeriggio, avrei svolto i compiti. Questa era stata la sapiente organizzazione creata attorno a me, solitario pulcino senza famiglia, che ben presto imparò a cantare asciugando i piatti. Era questo il compito affidatomi, insieme allo studio, per il quale ricevevo una piccola paga settimanale. Odiavo asciugare i piatti, ancora oggi è qualcosa che ritengo del tutto superfluo.
I pomeriggi, dopo il pranzo, li ricordo come la cosa più bella della mia giornata. La grande cucina bianca della casa, esposta a Sud, era intiepidita dal sole che, entrando dalle ampie finestre a saliscendi, mi avvolgeva nella sua carezza. Sento ancora adesso quel calore, quando ripenso al grande tavolo di marmo bianco sul quale io e l’amica disponevamo penne,quaderni e libri, sedute una di fronte all’altra e con la zia a capotavola, a presiedere attenta all’andamento degli studi. Una forma di doposcuola, nel quale non si poteva eccedere in scherzi e chiacchiere, ma che aveva la pienezza rilassante del buon cibo in via di assimilazione, della luce solare e, al di là del tavolo, degli occhi ridenti e complici di Annalisa. Pianta gracile e nervosa ero stata, pianta accudita e protetta crescevo.
La terza zia, la più giovane delle tre, era la più pallida e bella, con un volto che solo nelle sculture greche ho ritrovato. Amava la musica e i viaggi, suonava il pianoforte e insegnava lingua e letteratura francese, dopo aver trascorso del tempo a Parigi . Era per tale ragione osservata con sospetto dalle sorelle, come se l’aver conosciuto un ambiente di vita più libero, potesse mettere in pericolo la salvezza della sua anima. Negato il permesso di maritarsi, ora le impedivano anche di appagare ogni piccolo desiderio, considerato alla stregua di tentazione diabolica. Il giorno in cui si presentò con i capelli schiariti da colpi di sole, fu aspramente rimproverata e controllata a vista. Intristiva ogni giorno di più ed io per anni non la guardai, infatti con me parlava assai poco e quasi mai mi sorrideva. Solo nel momento in cui rimanemmo sole, io e lei, dopo la morte delle sue sorelle, compresi quale profondo affetto l’avesse legata alle scomparse, per accettare un destino così avaro di piaceri.
Le tre zie vivevano in costante preghiera, fra messe, funzioni serali, rosari collettivi e personali. Ebbero però il buon senso di non eccedere con la bambina, merito della prima zia che sgridò severamente la seconda, quando costei mi fece assistere a due messe consecutive e, per l’astinenza, svenni. ” Non farlo mai più, hai capito? La bambina deve fare colazione al mattino, non più tardi delle nove e mezza. Che criterio hai? Non vedi quant’è piccola e magra? Una messa è sufficiente!” Così la più anziana impartì alla seconda una serie d’indicazioni che furono puntualmente osservate. Mi si chiedeva la frequenza domenicale e non fui mai invitata ai vari rosari se non per giocare con le altre bambine. Conobbi però tutta una serie di peccati che si potevano commettere durante la giornata: specchiarsi, lavarsi, toccarsi (allora non sapevo cosa significasse) , andare di corpo, rispondere in modo provocatorio e andare in chiesa “scollacciata”. Infatti, incominciai a dover scegliere per l’occasione vesti con maniche lunghe e gonne al ginocchio. Io amavo le gonne corte e mi ostinavo anche d’inverno ad indossare i calzettoni sotto il ginocchio che mi lasciavano scoperta la parte superiore delle gambe. Fu perciò una sofferenza  indossare calze lunghe e il cappello di panno lenci, anche se solo per recarmi in chiesa. Solamente i peccati di gola non conoscevano proibizioni. Ogni venerdì si preparavano elaborati piatti a base di pesce, presentati in tavola sotto la formula di “astinenza dalle carni”. I menu variavano giornalmente e per la  loro creazione la zia capo famiglia vi si dedicava fin dal primo mattino. Per buona parte della mia vita l’anoressia si è alternata alla bulimia.
Tante, quasi troppe le proibizioni per chi come me aveva vissuto fino allora nella più completa libertà. Chiusero tutte le porte, perché il mondo non mi corrompesse, ma la mia insaziabile curiosità di conoscenza riuscì ad incontrarlo, anche se solo attraverso la lettura. Esisteva nello studio della zia più giovane, una biblioteca ben rifornita appartenuta ad un loro fratello avvocato, morto da anni. Nessuno aveva più toccato quei libri e forse neppure sapevano che oltre ai codici di legge, erano presenti alcuni testi messi all’indice dalla chiesa sulla Massoneria, lo Spiritismo, lo Yoga Tantrico; c’erano pure poesie d’amore di Prevert e  grossi tomi di filosofia. Di quest’ultima mai m’interessai molto, anche quando fu necessario studiarla; lo spiritismo e lo yoga rappresentarono invece una rivelazione che modificò la mia vita. Nella mia giornata ben programmata del periodo scolastico, dovevo coricarmi ogni sera puntualmente alle nove, quando la pendola dell’ingresso faceva sentire i suoi rintocchi. La prima zia, che dormiva con me, saliva esattamente due ore più tardi, allo scoccare  delle undici, dopo aver controllato la chiusura di tutte le porte. L’eco amplificata di passi, di sedie spostate, di voci smorzate dal sonno. saliva fino alla mia stanza dove,con l’orecchio teso, mi preparavo a spegnere la lampadina sul comodino. Avevo imparato a mettere a profitto quel lasso di tempo: leggevo tutto ciò che trovavo nella libreria e così venni a sapere delle sorelle Fox che facevano ballare il tavolino, casi di indemoniati e di esorcismo. Inconsapevolmente, cominciai a far uso di pratiche yoga. C’erano sere in cui, quando la zia entrava, io mi sentivo sospesa sopra di me, in un’espansione fluttuante al capo del letto. Compariva un punto fisso fra gli occhi chiusi che prendeva a roteare, a sgroppare proprio nel momento in cui mi ci aggrappavo, quasi fosse un cavallo selvaggio, e lasciavo che mi trascinasse verso mondi di sensazioni sconosciute. Successe qualcosa, una sera, che mi fece riflettere e per la qual cosa mai trovai spiegazioni ragionevoli. Quella volta, verso le undici, mentre la zia iniziava la sua lenta salita, cominciai a sentire un impellente bisogno di urinare, ma non avevo il coraggio di recarmi in bagno per timore di destare i suoi sospetti, poiché avrei dovuto essere da tempo con Morfeo. Cercavo una soluzione e quando la trovai, mi provocò una forte emozione. Nei giorni più freddi dell’anno, il mio letto veniva riscaldato da un braciere inserito all’interno di una struttura in legno chiamata “monaca”. Questo attrezzo veniva appoggiato verticalmente al comò, nell’attesa di essere usato la sera successiva. Puntai così il mio pensiero sullo scaldaletto e desiderai, con un’intensità mai più sperimentata, che cadesse. Fu questione di poco e la cosa avvenne. Il fracasso mi permise di scendere dal letto, mentre la zia imperterrita continuava a togliersi il famoso busto con stecche di balena e guatdandomi sorridente, mi diceva: “Non ti spaventare per il rumore, è solo lo scaldina caduto.”.Di corsa andai in bagno a svuotare la vescica, mentre pensavo all’accaduto. ll pensiero di essere stata io, quella notte, a provocare la caduta dello scaldaletto, ancora mi tormenta. Mi sono detta che forse avevo scelto quell’oggetto e puntato su di esso il mio pensiero, perché a livello inconscio avevo notato la sua posizione sbilanciata, come doveva essere in realtà, poichè era rumorosamente scivolato sul pavimento. Ma il fatto avvenne solo quella volta, quasi il mio pesiero avesse spinto l’oggetto prescelto; negli anni successivi mai più si verificò un simile incidente. Potrebbe essere stato un caso di polterghaist?
La sera in cui salii in camera con un nuovo libro di poesie d’amore, vi scoprii sensazioni del tutto nuove. Iniziai così a guardare i ragazzi con occhi non più innocenti, a sognare baci e mani carezzevoli. Il bisogno d’amore represso, in un corpo che cominciava a schiudersi, diventò un sogno ricorrente. E nel sogno vedevo gli occhi verdi e udivo la voce del ragazzo biondo, la cui casa confinava con la mia e che frequentava l’ultimo anno del corso. Cominciai a scrivere poesie all’amato che vedevo ogni giorno e al quale, per timidezza, non rivolgevo la parola nè lo sguardo. Ma una mattina le dimenticai sotto il cuscino e la zia, nel rifare il letto, le scoprì. Mi chiese che cosa significassero quegli scritti.
Aveva origine romana il centro abitato, più tardi appartenuto alla Signoria di Venezia fino alla conquista napoleonica, come stavano a dimostrare la statua del leone alato di S. Marco, posto su di un’alta colonna all’interno delle mura, ed altre effigi di leone, inglobate nelle facciate dei palazzi adiacenti la grande porta dell’orologio. Le mura erano quasi del tutto scomparse o trasformate in palazzi signorili che andavano sgretolandosi, in una decadenza dovuta forse alla perduta memoria del passato, più che alla povertà di chi vi abitava. Il centro storico, quasi intatto, non conosceva ancora il degrado di modifiche strutturali moderne. Attraverso la porta ad arco, iniziava una rete di strette vie lastricate con bosoli consunti, su cui si affacciavano case a più piani costruite con una bella pietra serena color sabbia. Sotto i portici  si aprivano bui negozi privi di vetrine, illuminati di sera da poche lampadine e, per nostra fortuna, senza orario di chiusura. “Vai al  negozio che mi serve un  pezzo di formaggio, fai presto che fra mezz’ora si cena!” Così mi diceva la zia, ed io, che solo in casi di necessità avevo il permesso di uscire, correvo a comperare ciò che mancava nella dispensa o per una variazione del menu.
Uscire voleva dire vedere il mondo, la gente, e soprattutto il ragazzo biondo che sostava di solito sulla porta del negozio della madre parrucchiera o sul portone d’angolo, che si apriva su di una rimessa, dove la gente di campagna, nei giorni di mercato, lasciava in custodia moto e biciclette. Mi affrettavo a spazzolarmi i capelli, a darmi un ultimo sguardo allo specchio proibito, prima di passare con passo noncurante, ma con un tremore interno, davanti alla sua porta di casa. A testa alta e senza salutare, con la coda dell’cchio lo cercavo, ma se solo intravedevo la sua persona, il cuore mi balzava in petto e il rossore mi colorava le gote. “Com’è superba quella ragazzina, la nipote delle signorine O.., mai che saluti o si fermi a parlare” diceva la nonna del ragazzo, un donnone grasso e deforme, che mi vedeva passare e ripassare davanti alla sua porta, presso la quale sedeva in attesa dei clienti. Non sapeva che la timidezza mi rinserrava come in una gabbia in cui occhi e bocca rimanevano incollati per la paura. Amavo quel ragazzo e soffrivo di gelosia, quando lo vedevo parlare con altre ragazzine più disinvolte di me, che sapevano ridere e scherzare con lui, proprio quello che avrei voluto ma che non riuscivo a fare.
Quell’anno terminò la seconda tappa dell’iter scolastico e a disdoro della zia, professoressa di lingua e letteratura francese, per non aver memorizzato una poesia, fui rimandata a settembre. Da ragazzina brillante e studiosa quale ero stata, la mia applicazione in quegli ultimi tempi era così calata da non superare la sufficienza. Avevo vissuto quasi per un anno sugli allori conquistati in precedenza e sulla capacità mnemonica, non certo sullo studio. Ci fu un consesso di famiglia e le zie mi concessero quell’anno un solo mese di assenza da passare con la mamma. Non sapevano il regalo che mi stavano facendo, perché  l’estate sarebbe diventata più triste nel separarmi dal ragazzo biondo. Le sere calde invitavano le zie a sostare sull’androne della porta, com’era loro abitudine, e me a passeggiare con le amiche di scuola sotto i tigli del viale. Dal loro posto di vedetta le zie mi tenevano d’occhio, mentre io  mi divertivo  a scherzare e a chiacchierare a voce alta, nella  speranza che il ragazzo biondo, prima o poi si unisse a noi. Annalisa, l’amica del cuore  della mia infanzia, era divenuta, ora che eravamo due signorinette, la mia peggior nemica. Aveva avuto la sfacciataggine di andare a raccontar e al mio biondino che ero innamorata di lui. Forse lo sarà stato anche lei?
Quella primavera, come un papavero rosso fra le migliaia che coloravano i campi, persi il mio primo sangue. Tutto era cominciato con un languido turgore al basso ventre, una sensazione di dolce risveglio che mi portava a ricercare con le dita l’interno della cavità nascosta e a penetrarla con piccoli oggetti a punta. Era comparsa una dura protuberanza simile ad un pisello che, al solo sfiorarla, mi procurava un piacere sconosciuto. Una curiosità insaziabile nacque così per il mio corpo, del quale fino allora non ne avevo avuto consapevolezza, accelerata da un confessore che mi aveva chiesto : “ti tocchi? le tue mani fanno peccato se cerchi di masturbarti, strofinando seni e ventre”. Rimasi di sasso, perchè non l’avevo mai fatto ma costui aveva pensato che io praticassi la masturbazione. Alla rabbia per avermi accusato di simili atti, seguì la fase in cui cambiai confessore e scelsi il più vecchio e sordo ancora sul campo. Questo prete aveva sempre una lunga fila di donne in attesa del loro turno, così pensai che forse lo preferivano, perchè non faceva insinuazioni, essendo troppo vecchio per masturbarsi il pensiero. Se avevo avuto un pò di fede, cosa di cui mai mi ero posta il problema, rivolsi da quel momento, verso i sacerdoti e il loro insegnamento, un atteggiamento scettico che gli studi successvi non fecero che rafforzare .
Il mestruo si presentò sotto forma di salasso continuo che non s’interrompeva. Arrivò il medico con iniezioni e la  prescrizione del riposo a letto. La vita della malata, nella casa delle zie, era stata sempre una cosa molto piacevole. Quand’ero più piccola, la zia insegnante passava quasi tutto il giorno con me a leggere Pinocchio o della Bibbia il libro di Tobia, di Ester, di Giuseppe, la storia dei Re d’Israele e di Giuda. Credo che la mia passione per la storia antica e l’archeologia si sia formata a quel tempo, ascoltando i racconti avvincenti, spesso crudeli, di alcuni personaggi perennemente in bilico tra il mondo mesopotamico e quello egizio. Sognavo di tende e cammelli, vedevo con la fantasia Babilonia attraversata dall’Eufrate, sognavo Ninive, città dal suono magico, o le nere terre allagate dal Nilo. Quella settimana di letto prescrittami, diede impulso a nuove letture, quali i racconti di E.A. Poe, così racappricciantiche da procurarmi un terrore notturno mai provato. Questi libri li nascondevo all’interno di altri di scuola o sotto le coperte, ed era con viso innocente che li interrompevo per dedicarmi ai pasti portatimi sul vassoio. Per fare “sangue”, la zia aggiungeva anche mezzo bicchierino di vin Santo. Completamente astemia, avendo sempre e solo bevuto acqua, quelle poche sorsate mi procuravano una  piacevole sonnolenza.
Ero ora una signorina e il mio corpo, quella primavera, ne divenne consapevole. Mi sentivo diversa, come se la trasformazione ormonale avesse fatto il miracolo di mutare un androgino in una donna, anche se l’aspetto lasciava molto a desiderare, data l’estrema sottigliezza delle membra.
Il cambiamento mi portò ad agire in modo diverso: volendo parlare con il ragazzo dagli occhi verdi, mi trasformai nel cacciatore che non insegue la preda ma che l’attira nella rete. Quella sera di fine giugno, tutte le mie amiche si erano recate ad una festa nel paese vicino; io invece ero rimasta con le zie a prendere il fresco, mentre si guardava il passeggio della gente. Verso le nove, chiesi loro il permesso di fare un breve giro verso il centro. Ero sola mentre passavo davanti alla sua porta allontanandomi lungo il viale dei tigli. Sentivo però lungo la colonna vertebrale un brivido, come se i suoi occhi mi puntassero. E poi successe davvero, fuori portata da sguardi indiscreti, mi si affiancò e io lo guardai finalmente in viso. Dio, quant’era bello! Non so quali stupidaggini la mia bocca profferì, sapevo che finalmente era lì con me , camminavamo insieme, parlavamo di cose delle quali niente è rimasto nella mia memoria, ma lo sentivo respirare, ne ascoltavo la voce leggermente roca, con un tremore interno che sole poche volte ancora sperimentai. Passeggiavamo lentamente verso la strada che portava al ponte sul fiume, dove alti alberi e panchine in pietra consentivano momenti di riposo appartato.  Seduti vicini, in una penombra rotta dai lampioni lontani, mi parlò di sè e del suo sentire il mondo circostante, come qualcosa di estraneo a sè. Ricordo un’unica frase che s’impresse nella memoria: ” Vedi, guardo questa mia mano e sento di non essere io”. Questa dicotomia fra se stesso e il corpo, in una persona così giovane, mi ha sempre fatto considerare che la ricerca personale può essere molto precoce, non importa l’età. La mia fu molto lenta e faticosa, per affermarsi con la maturità. Ma a quel tempo erano i misteri del sessuolità nascente ad attirarmi, pur avendone timore, non certo le speculazioni filosofiche. A quel tempo prevaleva la curiosità per le forti sensazioni fisiche, capaci di  dare, creare emozioni; solo ora, che ne sono passati di anni e di amori, prospetticamente non poteva che essere quella la strada ai grandi sentimenti della vita: partire dal corpo per arrivare all’anima. Quando il mio corpo perirà, che ne sarà dello spirito?.
Sentimmo suonare le ventitre dall’0rologio della torre. Erano state due ore trascorse così in fretta, da non averne avuto coscienza. Ma avevo chiaro in mente che poteva essere quella l’unica volta che rimanevamo insieme: già piangevo dentro di me la sua assenza. Proprio allora passò a piedi un gruppetto di giovani e fra di essi c’era Annalisa, che mi vide. Salutai in fretta il mio bell’accompagnatore, senza avere la capacità di accordarmi per rivederlo, e tornai a casa in tumulto. La porta era già chiusa e le zie a letto. Solo la cameriera mi aspettava in piedi, con una faccia severa di riprovazione: l’assicurai di essermi recata alla festa nel paese vicino. La bugia si scoprì il mattino successivo, allorchè l’ amica-nemica fece sapere di avermi visto insieme con il ragazzo biondo. Quant’è veritiero il detto: “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi!”.  Pure in seguito, trovandomi a mentire, per mia incapacità le pentole non ebbero mai i coperchi.
Le sere seguenti, rimasi lì a guardare sulla porta, fra le mie attente sentinelle. Solamente salire anzitempo in camera mi permetteva di restare con lui, che avevo rivisto solo di sfuggita. Nessun saluto fra noi, come non fossero mai esistite quelle dolci ore. Forse esse appartenevano al sogno che avevo creduto di vivere, come succede durante il sonno per i cosiddetti sogni lucidi, in cui ci si muove e si interagisce con l’ambiente. La luce soffusa della strada entrava dalle finestre aperte della mia stanza da letto in cui cercavo rifugio, e in quella penombra mi aggrappavo al punto roteante fra gli occhi per scendere con esso dentro di me, per esaltare le sensazioni della nuova sensualità per sentirmi vicini, fino allo spasimo, il suo respiro e la sua mano che si avvicinava al mio corpo.. Un’ultima cosa successe, quell’estate, che rimarrà irrisolta fino alla fine dei miei giorni, giacché impedii a me stessa di vedere e quindi di ‘riconoscere’ la persona.
La mia terza zia, dirigente Acli, manteneva un vasto carteggio con alcune persone e a me spettaava il compito di consegnare le lettere scritte ai vari domicili. Quella sera dopo cena la zia mi disse: “Vai a portare questa lettera che così ti fai anche un giretto”. Colsi l’occasione al balzo ma, per arrivare alla casa indicata, pensai bene di attraversare il giardino pubblico di là dalla strada, prorpio di fronte alla nostra casa, con l’idea di abbreviarne il percorso o forse perchè tutto quel buio rappresentava un richiamo inconscio. Man mano che m’inoltravo nei sentieri, il buio s’infittiva sempre più fino a quando, presso un grosso cespuglio, mi balzò incontro una figura maschile. Stringendomi fra le braccia essa mi sussurrò: “Bella, dammi un bacio”. Presa dal panico, senza emettere alcun suono e come cieca, cominciai a divincolarmi finchè riuscii a fuggire velocemente verso la luce. Non avevo guardato in volto chi fosse l’aggressore, ricordo solo la calda stretta delle sue braccia e la morbida maglia color beige che indossava, forse era quella stessa  che avevo visto indossata dal ragazzo biondo. Evitai il buio giardino al ritorno, preferendo la strada più lunga ma illuminata. Ancor oggi ricordo la paura che mi aveva indotto ad una fuga precipitosa e tale da non consentirmi il tempo, o la volontà, di guardare il volto del mio aggressore. Poteva essere il ragazzo dagli occhi verdi, o un allievo falegname che ogni mattina dalla finestra della mia camera osservavo mentre si recava in bicicletta al lavoro? Il mio cuore mi diceva che era stato lui, il ragazzo per il quale palpitavo, anche se non comprendevo che cosa lo avesso spinto a comportarsi in quel modo,  – “Perchè – mi dicevo – perchè mi ha fatto questo? Mi crede una poco di buono?” – Ero non solo arrabbiata, ma anche offesa. Una quindicina d’anni più tardi, ero in villeggiatura al mare, lo cercai al telefono. Volevo risentirne la voce che tanto mi aveva fatto fremere, per conoscere qualcosa della sua vita: non ne capì il motivo. Seppur delusa, mantenni fermo il ricordo che avevo dentro di me, cercando di dimenticare la voce incolta, dal forte accento dialettale, proprio di chi è rimasto legato alla vita di provincia. Gli anni trascorsi non gli erano serviti per progredire nelle sue speculazioni, l’avevano reso solo mansueto, come di quei bovini che non sentono la necessità di un prato migliore. Forse l’oblio di sè accompagnerà i suoi giorni, dimenticote del tutto quelle prime ricerche giovanili.  In una vita sempre uguale a se stessa, il giovinetto promettente, coi sogni nel cassetto, era diventato un uomo comune. Così terminò quella mia breve estate.
Alcuni giorni dopo, ritornai in città dai miei e quando mi ripresentai dalle zie per gli esami, lui era in collegio. L’anno successivo fu l’ultimo del mio soggiorno nella grande antica casa dell’ottocento, nel cui abbraccio la mia infanzia e la prima giovinezza avevano trovato protezione. Le sue mura, quelle stesse che mi avevano accolto protettive al mio arrivo, molti anni prima, si aprirono per lasciarmi volare, oramai non più acerba ma uva matura, verso altri nidi. Mai più le mie notti avrebbero risuonato dei fruscii e dei suoi schiocchi sonori, mai più avrei ascoltato la sua eco raccontarmi le storie di coloro che vi erano vissuti. Allorchè me ne allontanai, la sua mancanza acuì quel sentimento di estraneità che provavo verso il luogo dove viveva mia madre. Da allora molte sono state le case in cui sono vissuta, ma nessuna di esse ho considerata come la mia casa, bensì temporanei rifugi dove riparare corpo e spirito.Quante volte mi sono vista nei sogni camminare per le vie di quel paese, uscire dalla porta della casa, la mia casa, colma di un sentimento di nostalgica attesa: “eccomi di nuovo qui – pensavo – ora lui uscirà da quella porta così vicina alla mia, e finalmente lo rivedrò”. Oggi so che il sogno continuerà a vivere della sua vita fittizia, eppur quasi reale. La casa, rimasta vuota delle sue abitanti, perse la sua linea elegante e venne trasformata in appartamenti e negozi. Il ragazzo, benchè scomparso nei meandri del tempo, continuerà a rimanere vivo nel mio cuore, fermo all’attimo in cui mi raggiunge, mi si affianca e io lo guardo per la prima volta negli occhi.
Occhi chiari aveva,
sotto un folto cespuglio
chiazzato di giallo.
Strette labbra imbronciate,
così lente a schiudersi nel sorriso.
Le mani danzavano
 come api bottinatrici,
sciogliendo i nodi
ai nuovi pensieri.
Su quelle forti,
mobili mani,
moriva, trattenuto,
il mio respiro.
Vagando come Pan,
inseguiva le Ninfe
e le ninfette,
quasi un ladro 
al limitare del buio.
Simulata indifferenza
e sguardi alteri:
era la stagione
della “Vita Nuova”.
 
Così terminò la mia prima esplorazione nel mondo delle emozioni, mai più abbandonata peraltro. Ancora oggi i sentimenti sono il mio nutrimento, assai più importanti del pane quotridiano, perchè è solo grazie ad essi se continuo a vivere. 

Luciana Bartolomei, Era di settembreultima modifica: 2009-03-01T01:12:00+01:00da mangano1
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