Paolo Calcagno,Vanessa Beecroft al PAC

da L’UNITA’, 19 marzo 2009

«La mia prima volta con gli uomini, e per fortuna sono neri»
di Paolo Calcagno
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Giacinto Di Pietrantonio, che è stato suo docente all’Accademia delle Belle Arti di Brera, sottolinea che «Vanessa Beecroft prende la storia, gli avvenimenti, e li trasforma in immagini d’arte, affrontando sempre nuove problematiche». Per il filosofo Massimiliano Flory (assessore alla cultura del Comune di Milano) la performance sull’immigrazione africana che la Beecroft ha messo in mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea milanese «È una straordinaria provocazione, in cui vediamo carne che mangia carne: è la rappresentazione del nuovo cannibalismo politico».

Lei, Vanessa Beecroft, 40 anni, superstar dell’arte contemporanea, ringrazia ma non nasconde la sua preoccupazione: «Sono grata a Milano che mi ha permesso di rappresentare un progetto così duro, talmente duro che per la prima volta trovo difficoltà a filmare una mia performance»”.
Ventidue immigrati africani siedono a una lunga tavola trasparente, lunga 12 metri, vestono lo smoking, o abiti scuri eleganti, quasi tutti sono a piedi nudi, mangiano con le mani carne arrostita e bevono acqua, di fronte al pubblico che guarda, in piedi. E un’inquietante cortina di silenzio separa i commensali dai visitatori che osservano questa sorta di ultima cena.
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È VB65, la nuova performance che Vanessa Beecroft, 40 anni, ha allestito al Pac di Milano e che in forma video sarà esposta fino al 5 aprile, assieme alla retrospettiva di 16 precedenti, celebri lavori dell’artista genovese.
Vanessa Beecroft, per la prima volta, la città in cui si è formata, Milano, le offre uno spazio pubblico. E lei ricambia con un pugno nello stomaco mettendone in mostra l’intolleranza e la xenofobia?
«L’Italia ha dei limiti in tema d’immigrazione. Qui c’è una incredibile resistenza verso “il diverso”, un orribile rifiuto della cultura altrui: i neri sono considerati selvaggi. Eppure, siamo gente del Mediterraneo: qui, fin dai tempi dei Fenici e dei Greci, c’è stato un continuo flusso di popolazioni e di culture. Oggi, invece, si vuole ostacolare ad ogni costo questo flusso: è sbagliato».

Lei ha sempre coniugato al femminile il rituale dell’essere e dell’apparire, piazzando nei suoi tableaux vivants bellissime modelle di colore in slip nel Palazzo Ducale di Genova, in occasione del G8; sistemando meravigliosi corpi femminili, vestiti solo con parrucche e tacchi a spillo, intorno a una tavola vegetariana, nel Castello di Rivoli; o allineando come schiave, incatenate alle caviglie, delle giovani di colore, nel Terminal del Kennedy Airport di New York. Perché, stavolta, ha messo dei maschi africani al centro del suo «quadro vivente»?
«Con i miei lavori precedenti ho voluto rappresentare la volgarizzazione della donna, ridotta a stereotipo dell’eros di consumo, o ad accessorio di un banchetto. In questo caso, invece, ho messo in mostra una sensazione di commozione. Sono corpi di una forza-lavoro, corpi che quando si incontrano in strada sono visti come invasori di uno spazio pubblico, che invece è considerato privato, come se la città, il Paese stesso, o l’Europa fosse un nostro spazio privato. Perciò ho voluto riservare a loro uno spazio intimo, privato, raccolto, come lo è una cena. Non hanno scarpe e mangiano con le mani, come è loro costume. E a invadere, stavolta, siamo noi, che restiamo a guardarli».

È consapevole che il suo messaggio sarà letto come una forte provocazione nella città roccaforte della Lega?
«Certo. Milano, il Nord, la mittleuropa in generale, sono sedi di borghesia opulenta e di pregiudizi razziali. Questo lavoro è indirizzato a loro. Però, per quanto dura, la mia non è un’immagine di cronaca: è un’immagine dipinta. E questo mi dà la licenza artistica di colorare, di fare cose che altre volte mi hanno fatto sentire la colpa di estetizzare immagini problematiche e di renderle visivamente piacevoli».

Come le è venuta l’ispirazione di VB65?
«Senza dargli un valore documentaristico, da due anni vado in Sicilia, a Lampedusa, a filmare le barche sfasciate di questi naufraghi, i resti di questa eterna odissea che si ripete nel Mediterraneo. In Sicilia, a differenza di qui, la popolazione è molto più aperta, consapevole che si tratta di un fenomeno che dura da secoli. Invece, come documenta Andrea Segre nel suo documentario A sud di Lampedusa, le autorità ostacolano questo fenomeno in modo crudele e barbarico. Mi riferisco alle nostre leggi sull’immigrazione, ma anche a quello che succede in Libia, le torture e il resto. Questa è un’immigrazione indotta, non è spontanea».

Da molti anni, lei si è trasferita New York: anche negli Usa l’immigrazione clandestina ha vita dura?
«Certamente le Immigration laws non sono tenere. Ma se un immigrato riesce ad entrare negli Stati Uniti non è respinto dalla popolazione e non ci sono ostacoli per il suo inserimento nel progetto democratico americano. Qui, invece, anche quando è ammesso, è trattato in modo disumano».

Torniamo al rituale tra apparire e essere: perché gli smoking e gli abiti scuri?
«Il modo in cui li faccio apparire confonde il modo con cui li guardiamo abitualmente. Destabilizzo un po’ la loro immagine, in modo che possiamo percepire di più la loro essenza, la loro psicologia. E, poi, molti di questi protagonisti della performance sono scrittori, intellettuali, laureati. Hanno una dignità culturale che, purtroppo, non sempre percepiamo quando li incontriamo per strada».

Paolo Calcagno,Vanessa Beecroft al PACultima modifica: 2009-03-19T18:43:00+01:00da mangano1
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