Sergio Bologna, Sulla cresta dell’onda

DA il manifesto 18 marzo 2009
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Sergio Bologna
FABBRICHE GALLEGGIANTI IN LIBERO MERCATO

SULLA CRESTA dell’onda

Un saggio sui marinai, figura che ha subito significativi mutamenti in questi anni di deregolamentazione del mercato del lavoro. Da lussuose navi da crociera a una esistenza solitaria tra lamiere arrugginite, la vita dei protagonisti della «Physical Internet» che garantisce il flusso di merci, uomini e donne nella globalizzazione
Nell’immaginario collettivo il termine «globalizzazione» si associa all’idea di un universo senza frontiere, di comunicazioni che passano per canali virtuali del web, cavi sottomarini e impulsi radio. Poco si associa all’idea di una forza lavoro che è occupata nel tessere materialmente i legami tra territori lontani, sempre in movimento. Il settore dei trasporti e della logistica non a caso viene chiamato the physical Internet. Al suo interno operano mestieri antichi quanto l’umana civiltà, come il mestiere del marinaio, e mestieri nuovi, creati dalle nuove tecnologie. Ma anche i mestieri più antichi subiscono trasformazioni così forti da sconvolgerne il profilo. È sempre stato orgoglio di capitano fare il punto, tracciare la rotta, oggi i sistemi satellitari hanno sostituito queste antiche abilità, la nave è «eterodiretta», l’armatore o il manager possono intervenire costantemente per dare ordini al comandante.
Devi Sacchetto, un ricercatore dell’Università di Padova, ha dedicato anni della sua vita a incontrare equipaggi, senza tralasciare nessun gradino della scala gerarchica, ma anche operatori sociali, sindacalisti, dockers, agenti marittimi, per capire come si vive e si lavora a bordo delle navi oggi. Li ha incontrati nei porti, in quello di Venezia soprattutto ma anche in quelli che con Venezia hanno maggiori relazioni di traffico, Costanza, Burgas, Varna, Istanbul. Ne è nato un libro Fabbriche galleggianti. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai (Jaca Book, pp. 292). Un milione e duecentomila persone di sesso maschile sarebbero, secondo le stime più accreditate, impegnate nella navigazione commerciale, tramp o di linea. Le loro condizioni di lavoro, le loro retribuzioni, sono assai differenziate, in base alla nazionalità in gran parte e alla qualità della compagnia di navigazione cui la nave appartiene o dalla quale la nave è noleggiata. Comune a tutti sono il senso di solitudine e l’intensità dei ritmi di lavoro. Solitudine accentuata dalla forte presenza di equipaggi misti (difficoltà di linguaggio), dai tempi di sosta nei porti ridotti all’osso, dalla scarsa accessibilità a mezzi di comunicazione, dalla lontananza dai propri cari.
Fronte del porto
Il porto è l’unico luogo dove possono far valere i loro diritti violati, dove possono organizzare una protesta, dove possono trovare qualcuno che li aiuti. Numerose sono le organizzazioni assistenziali, di natura religiosa spesso, presenti nei porti. Superiore a quanto si possa pensare il tasso di sindacalizzazione, che si aggira sul 30%. L’organizzazione maggioritaria è l’«International Transport Federation» (Itf), i cui ispettori possono salire a bordo delle navi e controllare lo stato dei servizi e le condizioni di vita dell’equipaggio. L’Itf è anche riuscita a sottoscrivere accordi con le compagnie armatoriali per la fissazione di minimi salariali. Negli ultimi anni le maggiori organizzazioni internazionali riconosciute dall’Onu, in particolare l’Imo («International Maritime Organization»), hanno emesso una raffica di normative e di raccomandazioni per arginare il laissez faire imperante, porre un freno allo sfruttamento della forza lavoro, all’inquinamento ambientale e aumentare la sicurezza della vita in mare. Ma queste normative debbono essere recepite dagli Stati e non tutti lo fanno o lo fanno con i tempi che sarebbero necessari a migliorare la situazione. Il mare rimane ancora oggi territorio di nessuno, è difficile controllare una nave in mare aperto.
Bandiere di convenienza
Poi ci sono i problemi dei secondi registri e delle bandiere di comodo. Paesi come l’Italia e la Germania dispongono del cosiddetto «secondo registro», che autorizza ad imbarcare su navi battenti bandiera del paese equipaggi multinazionali. Non tutte le navi registrate sotto flag of convenience sono «carrette», anzi, molte sono navi nuove e bene attrezzate ma la disponibilità sulla forza lavoro è totale, bassi i livelli salariali, orari di lavoro pesantissimi, trattenute sui salari, tempi di pagamento dilazionati. Le «carrette» appartengono in genere al tipo General cargo, sono navi che possono avere 25-30 anni.
Negli ultimi tempi però c’è stato un rafforzamento dello State port control. La presenza di ispettori autorizzati a verificare lo stato delle dotazioni di bordo, ivi comprese le condizioni di sistemazione degli equipaggi, e di segnalare alle Autorità le deficienze che possono portare anche al fermo della nave e la sua iscrizione nelle liste nere o grigie, per cui un porto può negare loro l’accesso, si sono estese a largo raggio soprattutto nei porti del Nord Europa. Invece in diversi porti del Mediterraneo e del Mar Nero i controlli sono limitati o assenti. Può capitare dunque che un carico venga messo su una «carretta» e spedito ad un porto «compiacente», dove viene trasbordato su una nave rispettosa degli standard di sicurezza, che lo porta a destinazione in un porto dove i controlli sono più severi. Grande responsabilità ricade sulle società di certificazione, quasi ogni grande paese marinaro ha la propria, sono quelle che fissano tra l’altro l’organico e attestano il grado di sicurezza ed operatività della nave. Ma sono pagate dall’armatore, sono quindi sospettate di trovare dei compromessi.
Una fitta rete di agenzie con diramazioni internazionali fornisce il sistema di reclutamento dei marittimi, alcune serie, che provvedono ad una certa assistenza del personale ingaggiato, molte meno serie che taglieggiano i malcapitati, alcune specializzate nel reclutamento degli ufficiali, altre nel trovare la cosiddetta «bassa forza». L’ultima edizione dello studio Drewry Ship Operating Costs Annual Review and Forecasts 2008/09 riporta i dati relativi al 2008 sulla partecipazione dei diversi Paesi all’offerta di mano d’opera, distinta in ufficiali e non (ratings). La Cina è in testa in ambo le categorie, seguita da Filippine, India, Turchia, Ucraina, Russia; seguono distaccate Grecia, Myanmar, Italia, Croazia, Giappone, Inghilterra, Vietnam. C’è da dire che sulla flotta di stato cinese possono essere imbarcati solo marinai cinesi. Per quanto riguarda solo gli ufficiali, dopo i cinesi ed i filippini, che dominano il mercato, vengono gli ucraini, i turchi e gli indiani.
Con la recente esplosione dei traffici marittimi internazionali si avverte una certa scarsità nell’offerta di ufficiali e quindi i salari sono cresciuti – in parte anche per gli equipaggi. Sempre secondo la fonte Drewry il capitano di una petroliera può guadagnare il doppio di un capitano di un Dry cargo. La formazione di un capitano può durare quattro-cinque anni, prima di ottenere tutti i certificati che lo autorizzano al comando; alcuni paesi come la Norvegia investono molte risorse nella formazione del personale di comando. Anche il più semplice marinaio deve essere fornito di certificati, la falsificazione e il contrabbando dei medesimi si sono purtroppo diffusi.
I forzati del mare
Il lavoro sulle navi è un lavoro rischioso, la probabilità di essere vittime di incidenti è più alta rispetto a lavori di per sé a rischio come l’edilizia. La possibilità di contrarre malattie è elevata. Le navi da crociera sono quelle dove i ritmi sono più massacranti per un certo tipo di personale di bordo, le petroliere sono quelle dove l’equipaggio deve avere i livelli più elevati di qualificazione Si imparano dunque tante cose dal libro di Devi Sacchetto, sono riportati moltissimi brani d’interviste, quindi sembra di sentire la viva voce di questi uomini dimenticati, invisibili. È uno di quei lavori sul campo che, integrati da una conoscenza approfondita delle fonti scritte, risultano molto preziosi. L’area veneziana è particolarmente attenta a queste problematiche, ricordiamo il libro di Valter Zanin I forzati del mare, uscito per Carocci nel 2007.
Ma a me piace ricordare anche i lavori di Heide Gerstenberger, una mia collega all’Università di Brema, che ha passato intere stagioni sulle navi nel Baltico e nel Mare del Nord per osservare da vicino il lavoro degli uomini a bordo. Come piace ricordare Jürgen Söncksen, delegato sindacale di Hapag Lloyd, che mi portava con sé sulle portacontainer ormeggiate a Bremerhaven a fare le assemblee con l’equipaggio. Mentre preferisco dimenticare qual che ho visto su certe «carrette» nel Mediterraneo dove le lamiere erano tenute insieme dalla ruggine, i marinai portavano la bandana, non parlavano una parola d’inglese e la stiva sembrava un girone dell’inferno dantesco. E magari cede la gru, pani di piombo da cinquanta libbre l’uno che volano come schegge impazzite. Nessuno rimase ferito quel giorno, un miracolo, roba da ex voto al Santuario della Madonna.

Sergio Bologna, Sulla cresta dell’ondaultima modifica: 2009-03-19T18:46:00+01:00da mangano1
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